non c’è maestro
- di Fabrizio Foschi
Far
rinascere l’altro con una mano tesa anche dentro gli errori: il perdono è
tipico dell’atto educativo. Anzi è proprio del vero maestro
La questione
del perdono, emersa al Meeting di Rimini, contiene potenzialità ancora tutte da
esplorare. Ne hanno parlato diversi relatori, ma nessuno, forse, come monsignor
Paolo Pezzi, arcivescovo di Mosca. Ecco un frammento dell’intervento
nell’incontro introduttivo della kermesse: “Ho consigliato a una ragazza
ucraina di dire al suo giovane fratello, richiamato sotto le armi e partito
giustamente per servire la Patria, di perdonare il suo ‘nemico’ per non portare
con sé l’odio per tutta la vita e per non perdere l’occasione di vedere
trasformato il ‘nemico’ in fratello”. Fine della citazione.
Riflessione
immediata: in guerra si imbraccia il fucile non per zappare, ma per uccidere.
Se uccidi un fratello, non è come se avessi ucciso un topo o un serpente.
Finché uccidi dei nemici non vedi altro che ombre da eliminare; quando
diventano fratelli, risuona in te il grido della carne che richiama a una unica
e medesima appartenenza. L’altro non è uno sconosciuto, è della tua stessa
famiglia, ha lo stesso tuo padre. Uccidersi tra fratelli è eliminare una parte
di sé o ritrovare in sé le ragioni per non farlo ancora, in modo che la guerra
possa avere termine.
Una simile
prospettiva può non avere riscontri strategici, e infatti la guerra in Ucraina
prosegue senza interruzioni di sorta. Non è nemmeno da tradurre banalmente come
astratto pacifismo e arrendevolezza alla logica del più forte. Se la Patria
chiama per motivi inoppugnabili, andare è un sacrosanto dovere, s’è detto. Qui
si fa riferimento alla statura umana di chi, perdonando, riconosce di
appartenere a un altro esercito, a un’altra Patria, a un’altra famiglia rispetto
a quelle confezionate dalla logica degli Stati contrapposti.
Naturalmente
il richiamo vale anche per chi ha invaso la terra altrui e che non sente se non
appelli a distruggere senza guardare, chiudendo gli occhi e tappandosi gli
orecchi. Il perdono ad ogni modo non è una tecnica, tantomeno un percorso di
tipo psicologico per lenire il dolore. Non è un anestetico. È proprio un modo
di vivere nella realtà di tutti i giorni. Dentro le circostanze positive o
negative, nella buona e nella cattiva sorte. Il perdono è affermare che per
vivere la mia umanità ho bisogno di riconoscermi insufficiente, bisognoso
continuamente di ricevere, di essere riempito, di essere. Il perdono è tipico
dell’atto educativo, quando dal piano dell’istruzione si passa a quello più comprensivo
dell’educazione.
Nella
scuola, nel rapporto con gli alunni il perdono non contempla comode mediazioni,
non c’è e non ci può essere una “didattica del perdono”. Ci sono io insegnante,
io adulto che perdono l’altro più giovane perché riconosco che è meno pieno di
conoscenze di me (forse), ma certamente pieno come me di una sete di
significato, ammettendo la quale, nel perdono reciproco, possiamo fare un
tratto di strada. Magari non solo un tratto, ma tutta la strada insieme.
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