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venerdì 11 luglio 2025

GRATITUDINE e CURA

 

ANZIANI, 

SEGNI DI SPERANZA


Nel messaggio per la Giornata mondiale dedicata ai nonni e a chi è nella parte finale della vita (27 luglio) il richiamo al bene sempre da compiere: «Trasmettiamo la fede che abbiamo vissuto per tanti anni, in famiglia e negli incontri quotidiani»

Il Papa: «Anziani, siete segni di speranza L’amore e la preghiera non hanno età»

«Ogni parrocchia, ogni associazione, ogni gruppo ecclesiale è chiamato a diventare protagonista della “rivoluzione” della gratitudine e della cura, da realizzare facendo visita frequentemente agli anziani»

  -       di TOMMASO PICCOLI

-        «Se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno ». Queste parole di san Paolo ai cristiani di Corinto sono l’ultima citazione del messaggio scritto da Leone XIV per la quinta Giornata mondiale dei nonni e degli anziani (27 luglio) e diffuso ieri. L’ultima citazione ma la più pregnante, perché è l’avvicinarsi alla risurrezione e alla beatitudine senza fine il vero motivo della speranza di cui è intessuto il messaggio stesso fin dal titolo Beato chi non ha perduto la sua speranza (cfr Sir 14,2).

«Nella Bibbia – scrive il Pontefice – Dio più volte mostra la sua provvidenza rivolgendosi a persone avanti negli anni. Così avviene, oltre che per Abramo, Sara, Zaccaria ed Elisabetta, pure per Mosè, chiamato a liberare il suo popolo quando aveva ben ottant’anni (cfr Es 7,7). Con queste scelte, ci insegna che ai suoi occhi la vecchiaia è un tempo di benedizione e di grazia e che gli anziani, per Lui, sono i primi testimoni di speranza. “Cos’è mai questo tempo della vecchiaia?” – si domanda al riguardo sant’Agostino – Ti risponde qui Dio: “Oh, venga meno per davvero la tua forza, affinché in te resti la forza mia e tu possa dire con l’Apostolo: Quando sono debole, allora sono forte” ( Super Ps. 70, 11)».

Ancora: «Nel libro della Genesi troviamo il commovente episodio della benedizione data da Giacobbe, ormai vecchio, ai suoi nipoti, i figli di Giuseppe: le sue parole li spronano a guardare con speranza al futuro, come al tempo delle promesse di Dio (cfr Gen 48,8-20). Se dunque è vero che la fragilità degli anziani necessita del vigore dei giovani, è altrettanto vero che l’inesperienza dei giovani ha bisogno della testimonianza degli anziani per progettare con saggezza l’avvenire».

Il Papa ricorda che il Giubileo, fin dalle sue origini bibliche, ha rappresentato un tempo di liberazione e «guardando alle persone anziane in questa prospettiva giubilare, anche noi siamo chiamati a vivere con loro una liberazione, soprattutto dalla solitudine e dall’abbandono». Per questo motivo «ogni parrocchia, ogni associazione, ogni gruppo ecclesiale è chiamato a diventare protagonista della “rivoluzione” della gratitudine e della cura, da realizzare facendo visita frequentemente agli anziani, creando per loro e con loro reti di sostegno e di preghiera, intessendo relazioni che possano donare speranza e dignità a chi si sente dimenticato ». A tale riguardo Leone XIV fa presente una particolarità di questo Giubileo, normata dalla Penitenzieria apostolica, ovvero che quanti non potranno venire a Roma quest’anno in pellegrinaggio, possano anche «conseguire l’Indulgenza giubilare se si recheranno a rendere visita per un congruo tempo agli anziani in solitudine, [...] quasi compiendo un pellegrinaggio verso Cristo presente in loro (cfr Mt 25, 34-36)».

Il Papa riprende infine il libro sapienziale che ha ispirato il tema della Giornata di quest’anno, il Siracide, che «afferma che la beatitudine è di coloro che non hanno perso la propria speranza (cfr 14,2), lasciando intendere che nella nostra vita – specie se lunga – possono esserci tanti motivi per volgersi con lo sguardo indietro, piuttosto che al futuro. Eppure, come scrisse papa Francesco durante il suo ultimo ricovero in ospedale, “il nostro fisico è debole ma, anche così, niente può impedirci di amare, di pregare, di donare noi stessi, di essere l’uno per l’altro, nella fede, segni luminosi di speranza” ( Angelus, 16 marzo 2025). Abbiamo una libertà che nessuna difficoltà può toglierci: quella di amare e di pregare. Tutti, sempre, possiamo amare e pregare». Così «il bene che vogliamo ai nostri cari – al coniuge col quale abbiamo passato gran parte della vita, ai figli, ai nipoti che rallegrano le nostre giornate – non si spegne quando le forze svaniscono. Anzi, spesso è proprio il loro affetto a risvegliare le nostre energie, portandoci speranza e conforto».

Questa l’esortazione conclusiva di Leone XIV: «Soprattutto da anziani, dunque, perseveriamo fiduciosi nel Signore. Lasciamoci rinnovare ogni giorno dall’incontro con Lui, nella preghiera e nella santa Messa. Trasmettiamo con amore la fede che abbiamo vissuto per tanti anni, in famiglia e negli incontri quotidiani: lodiamo sempre Dio per la sua benevolenza, coltiviamo l’unità con i nostri cari, allarghiamo il nostro cuore a chi è più lontano e, in particolare, a chi vive nel bisogno. Saremo segni di speranza, ad ogni età».

 www.avvenire.it


Leggi: MESSAGGIO DEL SANTO PADRE LEONE XIV PER LA V GIORNATA MONDIALE DEI NONNI E DEGLI ANZIANI




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venerdì 27 giugno 2025

VIVERE DA ANZIANI


Ci sono segni di speranza anche nell’età anziana. Ma è necessario guardarla come una fase della vita con opportunità proprie. 

Può essere tempo di racconto, di integrazione, di essenzializzazione, di lentezza, di recupero dei rapporti incrinati…


Luciano Manicardi

 

La situazione dell’anziano oggi è particolarmente complessa. Il notevole allungamento della vita nel ricco Occidente porta alcuni a distinguere tra giovani-anziani, anziani, grandi-anziani e centenari. L’anzianità nasce dall’incontro dialettico tra dato biologico e variabili culturali e oggi è possibile incontrare anziani attivi e in buone o discrete condizioni di salute, sicché un approccio che veda l’anzianità solo a partire dal «meno», dalla «riduzione» o dal «rallentamento» delle capacità cognitive e fisiche si rivela inadeguato. E più che mai, con l’avanzare dell’età, si accentuano le differenze tra gli individui. Il che rende problematico un discorso sull’anzianità in generale, in quanto quest’ultima si differenzia enormemente in ciascun individuo. 

Tuttavia, una considerazione si impone circa lo statuto sociale dell’anziano oggi: la contraddizione tra l’anzianità perseguita e diffusa e, al tempo stesso, discriminata. L’estendersi della popolazione anziana si accompagna alla cancellazione dei segni che visibilizzano nel corpo i segni dell’invecchiamento. In questa logica distorta, tanto più la vita diviene longeva tanto più deve nascondersi, fingersi giovanile, mascherarsi da giovinezza vergognandosi di ciò che è. Se Cicerone elencava quattro motivi che rendono triste la vecchiaia (allontanamento dall’attività lavorativa, indebolimento del corpo, negazione dei piaceri, prossimità alla morte), oggi se ne aggiunge un altro: l’era della tecnica e dell’informatica ha reso fuori luogo l’adagio che legava vecchiaia e sapienza e vedeva nell’anziano il depositario di un’esperienza che lo rendeva elemento fondamentale nel gruppo sociale. Oggi la sua esperienza è giudicata inutile: altro è il sapere necessario e spesso sono i giovani che insegnano ad adulti e anziani a usare marchingegni tecnologici. 

Il fenomeno dell’«anziani­smo» indica l’insieme degli stereotipi e dei pregiudizi proiettati sull’età anziana che diviene discriminazione dell’anziano stesso. Discriminazione visibile a livello strutturale in politiche pubbliche e norme del mondo lavorativo che penalizzano chi è più avanti nell’età. Ma poi diventa marginalizzazione sul piano relazionale e perfino, una volta introiettato lo «stigma», disistima di sé, senso di inutilità, colpevolizzazione (essere di peso) da parte dell’anziano stesso. Dalle differenze di classe si passa alle differenze di età e il conflitto sociale diviene conflitto di generazioni: segno della biologizzazione dei rapporti sociali. 

La differenza rispetto a forme di discriminazione che riguardano l’etnia (razzismo) e il genere (sessismo) è che chi discrimina un anziano è destinato a diventarlo a sua volta. E qui vediamo l’anzianità come pietra d’inciampo proprio nel suo essere visibilizzazione della fragilità e caducità umana. Si deve parlare della scomodità dell’anziano perché memoria della fragilità che concerne tutti e che, nella misura in cui è rimossa dall’immagine della vita riuscita oggi propagandata, vuole essere cancellata così come si cerca di cancellare le rughe dal volto anziano e di relegare gli anziani in ospizi che li rendano invisibili. 

Il bel volto anziano, provato, gravato di lutti ma con dolcezza e luminosità di sguardo di Alvin Straight (l’attore Richard Farnsworth) nel film Una storia vera, di David Lynch, presenta la possibile ricchezza e fecondità dell’anzianità: intraprende un viaggio di centinaia di chilometri per andare a trovare il fratello colpito da infarto e con cui non parla da dieci anni, con un tosaerba che traina un carretto. Ha problemi di vista, cammina con due bastoni, non ha la patente, ma la vita gli ha insegnato l’essenziale: «Alla mia età – dice –, ho imparato a separare il grano dalla crusca e a ignorare le sciocchezze». 

L’anzianità riguarda dunque chi la vive, chi vede e incontra la persona anziana, e l’immaginario collettivo. Per dare segni di speranza agli anziani non basta esortare figli e nipoti a essere vicini a genitori e nonni, ma occorre uno sforzo culturale per immaginare e creare funzioni per loro. E occorre accedere a una visione dell’anzianità come una fase della vita con le sue prerogative e opportunità proprie. Può essere tempo di anamnesi, di racconto, di integrazione, di essenzializzazione, di lentezza, di recupero dei rapporti incrinati. Un tempo di verità, in cui si vive per grazia e non per dovere (Karl Barth), un tempo di passaggio dall’esteriorità all’interiorità (Jung), in cui emerge che ciò che vale è ciò che si è, al di là di ciò che si fa. Nella vecchiaia semplicemente si è.

 Allora l’anziano può giungere a dire il suo grazie al passato e il suo sì al futuro, pregando il Salmo 71, e inoltrarsi nel crepuscolo della vita facendo sue le parole del Nunc dimittis.

Messaggero di Sant'Antonio

mercoledì 5 febbraio 2025

L'ARTE DI INVECCHIARE

 


Socrate, Agata e il futuro.


 L'arte di invecchiare

con filosofia 

di Beppe Severgnini (Autore)

 

La vita umana, insegna l’induismo, si divide in quattro periodi: il primo serve per imparare, guidati da un maestro; il secondo per realizzare sé stessi; il terzo per insegnare e trasmettere la conoscenza; l’ultimo, segnato da un progressivo disinteresse verso le cose materiali, per prepararsi al congedo.

Molti, oggi, non lo ammettono. Nonostante l’età, continuano a sgomitare, spingere, accumulare. Inseguono cariche, conferme, gratificazioni sociali. Non sanno rallentare, ascoltare, restituire.

 Con l’aiuto di una nipotina che insegna il disordine quotidiano (e mette i palloncini sul busto di Socrate), Beppe Severgnini riflette sul tempo che passa e gli anni complicati che stiamo attraversando. «Le cose per cui verremo ricordati – scrive – non sono le cariche che abbiamo ricoperto e i successi che abbiamo ottenuto. Sono la generosità, la lealtà, la fantasia, l’ironia. La capacità di farsi le domande giuste.»

Don’t become an old bore, non diventare un vecchio barbogio: ecco l’imperativo. L’autore invita a «indossare con eleganza la propria età».

Per farlo serve comprendere il potere della gentilezza, imparare dagli insuccessi, allenare la pazienza, frequentare persone intelligenti e luoghi belli, che porteranno idee fresche. Serve accettare che c’è un tempo per ogni cosa, e la generazione dei figli e dei nipoti ha bisogno di spazio e incoraggiamento. Non di anziani insopportabili.

 Beppe Severgnini, L'arte di invecchiare. ed. Rizzoli

 

lunedì 7 ottobre 2024

LA VECCHIAIA, UN NUOVO VOLTO DELLA VITA



Insieme all’invecchiamento di massa si fa strada un nuovo volto della vita

Studi scientifici mostrano una sempre più precisa identità della generazione anziana, con caratteristiche ed esigenze proprie

 Una delle trasformazioni sociali più significative di questo secolo induce a spostare la soglia di accesso alla vecchiaia, modificando il profilo di quello che non va più considerato solo come un “lungo tramonto”

C’è tutta una parte dell’esistenza che attende di essere riconsiderata. La memoria non “perde colpi” ma diventa selettiva. 

E il picco delle capacità intellettive ora si sposta a 70 anni.

 Cresce la coscienza che la vecchiaia sia un’età con un profilo proprio

 

-         di VITTORIO A. SIRONI

 «La vecchiaia è per sé stessa una malattia», affermava nel II secolo avanti Cristo lo scrittore latino Publio Terenzio riferendosi ai malanni e alle privazioni fisiche tipiche della senescenza. Se questa considerazione è rimasta di fatto valida per oltre due millenni, oggi non è più così. Non solo perché la medicina, a partire dalla metà del secolo scorso, ha progressivamente consentito di allungare la durata della vita media (l’aspettativa di vita è aumentata di 20 anni rispetto agli inizi del Novecento) e di migliorare al contempo la qualità dell’esistenza, ma anche per il fatto che gli stessi geriatri – cioè i medici che si occupano di studiare e curare gli anziani – hanno proposto ufficialmente di innalzare l’età da cui far partire la vecchia di una decina d’anni: dai 65 ai 75 anni.

 Sebbene la vecchiaia sia a tutti gli effetti la parte finale del ciclo vitale, non si può dire che sia legata solo all’età. L’età cronologica è un dato di fatto – ma ci sono fattori ben più importanti da prendere in considerazione –, come l’età biologica (che sovente è minore di quella anagrafica) e la condizione psicologica. Questa fase dell’esistenza corrisponde a una vera metamorfosi da interpretare e vivere nel suo significato in modo non diverso da quel cambiamento che segna il passaggio dall’infanzia all’adolescenza.

 Lo afferma con convinzione lo psichiatra Vittorino Andreoli nella sua Lettera a un vecchio (Solferino, 2023) che invita a pensare a questa età dell’esistenza come legata a un nuovo stile di vita e a una nuova visione del mondo. Lo sostiene anche il monaco Enzo Bianchi nel suo saggio La vita e i giorni (Il Mulino, 2018), in cui definisce la vecchiaia una fase che, nonostante le sue ombre e le sue insidie, fa parte del cammino dell’esistenza: è arte del vivere che possiamo in gran parte costruire a partire dalla nostra consapevolezza per prepararsi ad allentare il controllo sul mondo e sulle cose, senza nulla concedere a una malinconica nostalgia, ma anzi trovando l’occasione preziosa di un generoso atto di fiducia verso le nuove generazioni.

 È errato credere che il tema attorno a cui ruota l’esistenza del vecchio sia la morte e che la sua maggiore preoccupazione sia la malattia. Occorre invece che la società si convinca che egli ha bisogno di sentirsi utile, di avere un senso proprio nel presente e che la sua passata esperienza vissuta possa essere realmente percepita fonte di saggezza e non interpretata come nostalgia per il passato. Solo così si possono rimettere al centro i desideri e le caratteristiche degli anziani, evitando loro il dolore della solitudine, dell’esclusione e dell’abbandono, come ha più volte ribadito papa Francesco ricordando che la contrapposizione tra generazioni è un inganno e che lo “scarto” degli anziani non è né casuale né ineluttabile, ma frutto di scelte – economiche, politiche, sociali, personali – che non riconoscono la dignità della persona.

 Proprio per evidenziare gli importanti contributi che le persone anziane possono dare alla società, e per aumentare la consapevolezza delle opportunità e delle sfide che l’invecchiamento pone al mondo di oggi, nel 1990 l’Assemblea generale delle nazioni Unite ha stabilito che ogni anno il 1° ottobre sia dedicato a festeggiare la Giornata internazionale delle Persone anziane, appena celebrata. Il loro impatto è sempre più marcato in ambito sociale: per la prima volta nella storia, nei Paesi occidentali, gli individui nati nella seconda metà del Novecento hanno ragionevoli probabilità di essere attivi, fisicamente e mentalmente, perlomeno sino a 85 anni. Oggi nel mondo quasi un miliardo di persone ha un’età pari o superiore ai 60 anni, superando globalmente giovani e bambini. Entro il 2030 questa quota arriverà a toccare il miliardo e mezzo. L’invecchiamento della popolazione è destinato a diventare una delle trasformazioni sociali più significative del XXI secolo. Manca però una vera e consapevole riflessione antropologica, sociale e sanitaria su questo “invecchiamento di massa”, mentre prevale spesso un pregiudizio (il cosiddetto “ageismo”) che porta a disprezzare tutto ciò che è connesso alla vecchiaia. 

Certamente la vecchiaia è l’ultimo capitolo della vita, ma nessuno può sapere quanto duri. Entrare in questa fase dell’esistenza è però anche un privilegio: basti pensare ai tanti che hanno visto interrompersi la loro vita senza raggiungerla. C erto con l’incalzare della vita il pensiero della sua fine non può essere dimenticato, e talvolta non è facile da accettare. Non ha senso però pensare alla vecchiaia solo come anticamera della morte. È invece uno spazio dell’esistenza da riconsiderare (anche alla luce della fede), da fondare sui bisogni personali e non su quelli guidati o suggeriti dalla società. In questa prospettiva una delle cose più immediate è rifiutare l’uso di termini eufemistici. Occorre mantenere la precisione, la dignità e la “bellezza” di alcune parole, che invece oggi la società fa percepire come inadeguate, preferendo utilizzarne altre per nascondere una realtà che cerca di ignorare o addirittura di negare. È più adeguato chiamare la vecchiaia con questo nome in luogo di altri apparentemente più neutri, come anzianità, terza o quarta età. Così come è più opportuno definire i vecchi con tale parola invece di quella ritenuta più appropriata e meno impattante di “anziani”.

 La medicina stessa fornisce oggi una lettura diversa di alcune caratteristiche della vecchiaia. Gli inevitabili cambiamenti fisici del corpo legati al trascorrere del tempo possono essere gestiti attraverso un adeguato stile di vita che passa attraverso un’alimentazione corretta. La diminuzione della forza muscolare, in parallelo e in simmetria con la riduzione del suo uso, induce una fragilità che può essere bilanciata da un’attività fisica legata al movimento e, se possibile, alla pratica sportiva non stressante.

 Anche le difficoltà psicologiche del vecchio possono essere superate dalla consapevolezza del bisogno che ciascuno ha dell’altro: riscoprendo il legame d’amore coniugale e filiale, consolidando gli affetti con i parenti e gli amici. La diminuzione della memoria dell’anziano, che viene spesso vissuta e intesa come apriporta di un decadimento fisiologico di tutte le funzioni mentali o, ancora peggio, come l’inizio di un processo di involuzione cognitiva destinato a sfociare poi nella demenza, è interpretata oggi in maniera differente dalle neuroscienze. La memoria è testimone del vissuto individuale delle persone e la metamorfosi che si opera nella vecchiaia modifica anche la percezione del tempo e del vissuto individuale. Ecco perché spesso il vecchio ricorda bene episodi del passato che hanno avuto un rilievo significativo nella sua vita e dimentica invece fatti e nomi recenti che non sono importanti per lui in questa parentesi esistenziale. Il suo cervello non è più veloce come in gioventù perché è – come la memoria di un computer – molto ricco di dati, ma in compenso risulta molto più flessibile.

 Con l’età è più probabile che si prendano decisioni giuste e si sia meno esposti a emozioni fuorvianti: è la famosa “saggezza” della vecchiaia. Il professor Monchi Ury, direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Montréal, sostiene che il cervello dei vecchi funziona eliminando le attività superflue e la sovrabbondanza di informazioni, operando solo con le finalità più adeguate per risolvere i problemi da affrontare.

 Alcuni recenti studi evidenziano poi come il cervello umano raggiunga il picco della sua capacità intellettuale proprio attorno ai 70 anni. Il medico statunitense Fitzhung Mullan, direttore della George Washington University School of Medicine, in un recente articolo pubblicato sull’autorevole rivista The New England Journal of Medicine, dimostra che il cervello di una persona anziana è molto più efficiente di quanto si creda perché, dopo i 60 anni i vecchi sono in grado di utilizzare contemporaneamente in modo integrato e armonico entrambi gli emisferi encefalici. Ecco perché molte persone oltre questo limite di età risultano sovente più creative di altri soggetti più giovani. « Mi diverto a invecchiare: è un’occupazione costante » ha detto a chi lo intervistava diversi anni fa a proposito della sua età lo scrittore e critico teatrale francese Paul Léautaud. Riprendendo la sua affermazione il neurologo Yves Agid dimostra nel suo libro Invecchiare? È divertente (Carocci, 2022) che invecchiare non dipende solo dal passare del tempo, ma soprattutto dal nostro cervello. La vecchiaia può e deve quindi rappresentare una tappa feconda della vita se a questa fase dell’esistenza si dà un senso nuovo, se si riscoprono ideali culturali e sociali, religiosi ed etici, se si mantengono e si consolidano conoscenze e affetti. Senza aspettare passivamente l’arrivo di una badante o pianificare l’ingresso in una Rsa.

 

www.avvenire.it 

mercoledì 5 giugno 2024

IL SEGRETO PER NON INVECCHIARE


C
hi mantiene la facoltà di vedere la bellezza 

non invecchia

-          -di Alessandro D’Avenia

 

La vita offre spesso gli indizi per risolvere un po' del suo mistero. La scorsa settimana ne ho ricevuti alcuni che forse fanno una prova.

1. Ho visto un bambino gattonare da solo. Avanzava, si fermava, si voltava a guardare il padre dietro di lui, e poi riprendeva senza paura. Così, diverse volte, fino ad allontanarsi tanto che molti erano in apprensione, ma non lui né il padre.

2. Ho incontrato i ragazzi di alcune scuole. I loro insegnanti mi avevano mandato in anticipo le domande suscitate dalla lettura di un libro, 50 domande tra cui questa: «Quale consiglio può dare a noi giovani affinché non ci lasciamo bloccare dalla paura di fallire?».

3. Una studentessa alle prese con un tema di preparazione alla maturità, commentando i versi di una poetessa, scriveva: «La poesia non è un'arte elitaria destinata a qualche eletto, ma è prima di tutto un atteggiamento mentale che consta dell'amore per la bellezza del quotidiano”.

4. Oggi è il centenario della morte di Franz Kafka, uno degli autori che ho incontrato proprio nell'anno della maturità e che da allora non ho smesso di frequentare. Ispirato dall'anniversario ho letto Conversazioni con Kafka dello scrittore Gustav Janouch che, da adolescente, poiché il padre lavorava nella stessa compagnia assicurativa di Kafka, lo conobbe ed ebbe come amico e mentore. Che cosa hanno in comune fatti così diversi?

I quattro indizi provano che la vita è un'esplorazione, spesso paurosa e faticosa, che può avvenire solo nella misura in cui apparteniamo a qualcuno. Che si tratti di un genitore, di un mentore, di un amore, di un autore conosciuto direttamente o attraverso i suoi scritti, per venire al mondo abbiamo bisogno, come nelle traversate difficili in montagna, di una corda, cioè di appartenenza, che non è certo vincolo e possesso, ma legame che rende stabili e permette di avanzare. In fondo la maturità (non l'esame) è diventare capaci, attraverso la cultura, di scoprire che niente e nessuno ci è estraneo, che la vita cresce per legami, dalle molecole alle grandi civiltà. 

Questo soggettivamente accade solo se diventiamo consapevoli di quando e quanto «apparteniamo»: che cosa mi rende vivo, cioè che cosa mi lega profondamente e stabilmente alla vita, tanto da essere libero poi di avanzare? Essere vivi e non solo viventi è infatti essere in comunione. La cultura del farsi da soli genera individualisti in guerra con il mondo, e invece la vita fiorisce quando partecipiamo (ne siamo parte e facciamo la nostra parte) alla sua trama come uno dei suoi nodi. Kafka aveva la ferita dell'inappartenenza, come scrive nei suoi Diari: «La mia educazione ha fatto più guasti di quanto riesca a comprendere... 

Questa imperfezione non è innata e perciò è tanto più doloroso sopportarla. Anch’io infatti come qualunque altro ho in me fin dalla nascita il centro di gravità che neanche la più pazza educazione è riuscita a spostare. Ce l’ho ancora questo buon centro di gravità, ma in certo qual modo non ho il corpo adatto. E un centro di gravità che non lavori diventa piombo ed è fitto nel corpo come una pallottola» (1910). Da questa ferita ogni sua riga sgorga come sangue: «Non c’è nessuno che abbia comprensione di me nel mio complesso. Oh, possedere qualcuno che abbia questa comprensione, vorrebbe dire essere sostenuto in ogni parte, avere Dio» (1915). Per questo era attentissimo alle relazioni, come racconta Janouch ricordando la propria adolescenza e riassumendo il ruolo di ogni mentore: «Franz Kafka fu la prima persona a prendere sul serio la mia vita interiore, a parlare con me come con un adulto, rafforzando la mia coscienza di me stesso. Il suo interesse nei miei confronti era un regalo».

Grazie a questo interesse il diciassettenne Gustav maturò consapevolezza di se stesso e la sua vocazione artistica. Sorprende il ritratto, non privo di idealizzazione, che Janouch confeziona all'autore di storie come La metamorfosi, Il processo, Nella colonia penale, Il castello... eppure la luce, implicita nella minacciosa ombra di questi racconti che hanno richiesto l'invenzione dell'aggettivo «kafkiano», mostra una ricerca di legami, orizzontali e verticali, che è altrettanto «kafkiana». In merito Janouch riporta le parole dell'addetta alle pulizie dell'Assicurazione presso cui lavorava Kafka: «È completamente diverso dagli altri. Lo si capisce da come ti offre le cose. Gli altri te le danno di nascosto, quasi ti feriscono. Non danno qualcosa, ma umiliano. Il dottor Kafka invece ha un modo di donarti le cose che fa veramente piacere. Non mi tratta come una vecchia donna di servizio». Janouch conferma: «Possedeva l’arte del donare. Non mi diceva mai: “Prenda, glielo regalo” ma sempre soltanto: “Non occorre che me lo restituisca”». Un giorno Gustav tra le lacrime confidò allo scrittore la separazione violenta dei genitori: «Ascoltò con calma il mio racconto rotto dall’agitazione, poi si alzò e disse: “Andiamo a fare il giro dell’antica capitale.

I passeggiatori che si rispettano solitamente iniziano bevendo un bicchiere di vino o di cognac. Noi però non ci accontentiamo di un’ebbrezza così modesta e abbiamo bisogno di droghe più elaborate. Quindi andiamo da Andrée”». Questi era un libraio: «Il dottor Kafka mi comprò il David Copperfield di Dickens, Prima e dopo di Gauguin e Poesia e vita di Rimbaud».

I due passeggiarono a lungo parlando di quei libri e, quando il ragazzo si fu rasserenato, Kafka disse: «“La crisi che è scoppiata a casa sua non fa soffrire solo lei, ma logora e ferisce ancor più i suoi genitori. Divenendo estranei l’uno all’altro, perdono gran parte del bene più prezioso posseduto da noi uomini, gran parte della vita e del suo senso. Così i suoi genitori, come la stragrande maggioranza degli uomini del nostro tempo, sono in realtà mutilati nello spirito... Perciò non deve respingerli, anzi, li deve guidare e sorreggere come si fa con i ciechi e con gli invalidi”. “Come faccio?” chiesi disperato. “Con il suo amore”. “Anche se mi danno addosso?”. “Proprio allora. Con la sua calma, il suo riguardo, la sua pazienza - in poche parole, con il suo amore - deve cercare di risvegliare nei suoi genitori ciò che in loro sta per morire”. Mi accarezzò lievemente e di sfuggita la guancia. “Arrivederci, Gusti”. Si voltò e scomparve dietro la porta di casa. Restai lì come paralizzato. Mi aveva chiamato Gusti, come facevano i miei genitori».

Questa è cultura (dal latino prendersi cura): curare la sofferenza, la fragilità, la ricerca, le domande. Essere chiamati per nome fa sentire l'appartenenza che rende capaci, come scriveva la mia studentessa, di amare la bellezza nel e del quotidiano, in incontri che, coltivati, diventano legami, e quindi esplorazioni, come quella del bambino che gattona. Un incontro mancato con la bellezza è un legame mancato con la vita, e senza legami a poco a poco la vita diventa una minaccia, come il ragazzo che chiede come «non essere paralizzati dalla paura».

Kafka lo spiega così a Janouch che aveva definito pieno d'amore un suo racconto: «“L’amore non è nel racconto, bensì nell’oggetto della narrazione, nella gioventù”, fece notare Kafka serio. “Sono i giovani a essere pieni di sole e di amore. La gioventù è felice, perché possiede la facoltà di vedere la bellezza.

Quando si perde questa facoltà, comincia la vecchiaia, la decadenza, l’infelicità”. “La vecchiaia esclude dunque ogni possibilità di essere felici?”. “No. È la felicità che esclude la vecchiaia: chi mantiene la facoltà di vedere la bellezza non invecchia”». Kafkiano.

Alzogliocchiversoilcielo

 

giovedì 14 settembre 2023

VECCHIAIA, VITA NUOVA


 «Vecchiaia, tempo pieno 

che richiede cura e cultura»

 In una società, come la nostra, in cui l’età media delle persone è sempre più alta, è comprensibile che si moltiplichino le riflessioni sulla terza età o, se non vogliamo a tutti i costi accondiscendere al linguaggio “politicamente corretto”, potremmo anche dire sulla vecchiaia. Non evita quest’ultima parola Gabriella Caramore, autrice del saggio L’età grande. Riflessioni sulla vecchiaia (Garzanti, pagine 144, euro 14,00), il quale verrà presentato sabato 16 settembre alle ore 16.00 con Lidia Ravera e Michela Fregona a Pordenonelegge. Il libro si articola in un’intensa meditazione, che fa riferimento non tanto ai molti studi sociologici o medici sulla vecchiaia, quanto alle espressioni letterarie, musicali, artistiche, oltre che alle esperienze vissute. Classe 1945, giornalista, scrittrice e docente, l’autrice spiega con queste parole perché chiama la vecchiaia “l’età grande”: «Grande per il numero degli anni. Certo. Ma non solo. Grande perché deve sopportare un carico di prove che non ha l’eguale nelle altre fasi della vita. Ma grande anche perché è quella più capace di avere consapevolezza di sé».

Gabriella Caramore, quando ha iniziato a riflettere sul tema della vecchiaia? Sulla spinta di quali eventi?

Forse ho sviluppato una sensibilità particolare rispetto a questo tema perché ho sempre avuto persone “grandi” intorno a me. I miei genitori, quando sono nata, erano già quarantenni, cosa scontata ora ma non a metà del secolo scorso; le mie sorelle erano molto più grandi di me; poi i nonni, gli zii... Ma a pensarci consapevolmente ho cominciato quando il mio corpo ha avuto dei cedimenti per i quali è previsto aggiustamento e non guarigione; quando ho visto sparire amici intorno a me; quando se ne sono andati dei miei familiari; e poi, forse soprattutto, quando ho cominciato a percepire di essere nata in un’epoca diversa da questa, quando a scuola c’erano i banchi di legno, quando non c’era la tv, quando le lettere si scrivevano a mano. Ma anche, ora che sto entrando nell’età davvero grande, mi accorgo con dolore che il mondo non si rinnova, come forse avevo sperato, che non riesce a trovare rimedio ai suoi mali, come accade in vecchiaia. E questo mi fa percepire la vecchiaia personale come un fenomeno dentro la Storia che invecchia anch’essa.

 Lei a un certo punto, alludendo a Dante, definisce la vecchiaia una « vita nova »? Davvero questa fase dell’esistenza può segnare l’inizio di una nuova vita?

Direi di sì, anche se non vorrei che questa espressione facesse pensare a una nuova giovinezza, a una possibilità indefinita di vita spensierata e serena come certe seduzioni commerciali sembrano promettere. Direi che invece la “novità” consiste proprio per percepire, forse per la prima volta in maniera così inequivocabile, che c’è uno sbarramento di fronte a ciascuno di noi. Che la vita finisce, e anche se lo abbiamo sempre saputo è solo ora che ci appare con una evidenza spietata. Ma questo può anche indurci a dare maggior valore agli anni, ai giorni che restano, cercando di viverli con pienezza, restituendo loro quel senso che molte volte, durante la vita attiva, ci era sfuggito.

 La pandemia ha mostrato la fragilità degli anziani e l’inefficienza dei modi in cui negli ultimi decenni abbiamo spesso organizzato la loro vita (si pensi a cosa è successo in molte rsa). Quale lezione dobbiamo trarre da quella drammatica esperienza?

 Purtroppo, se ne è tratta una lezione soltanto teorica, e ancora nessuna radicale trasformazione pratica ne è seguita. Manca un senso complessivo, sul piano politico e sociale, della cura della vita umana soprattutto in relazione agli anziani, considerati come vite inutili, spesso come vuoti a perdere. I vecchi, come ogni essere umano, non sono tutti uguali. Alcuni preferirebbero continuare a vivere a casa loro, altri con un familiare, altri ancora in case per anziani. Ma per tutti ci vorrebbe un supporto di aiuto, di assistenza, di cura, e anche di cultura.

Come possiamo rendere la vecchiaia un “tempo pieno”? Non tanto di cose quanto di senso.

 Occorrerebbe che il tessuto sociale intorno fosse più accudente, più progettato per facilitare le cose, invece di lasciare i vecchi nell’abbandono. Ma anche il soggetto, quando entra nel tempo penultimo della propria vita, dovrebbe compiere uno sforzo per non lasciarsi andare, per non anticipare la fine nella trascuratezza e in una malinconia senza sbocco. Lo so, non è facile. Ma bisognerebbe, per tempo, aver cura di sé e delle relazioni, continuare ad avere curiosità per il mondo, per i piaceri forse più piccoli, ma non per questo meno significativi.

 A un certo momento lei parla di eutanasia, riprendendo però il valore etimologico del vocabolo. Vuole spiegare questo concetto?

 Certo, la parola “eutanasia” ha acquistato un significato sinistro da quando ideologie criminali la hanno usata per occultare le loro pratiche assassine. Ma, di per sé, significa soltanto una “buona morte”: cioè, senza sofferenze atroci, senza accanimenti inutili, in un contesto amorevole e coscienzioso. Andrebbe riconsiderata in questo senso. Del resto, ricordo che Paolo VI, nel 1970, scriveva a un amico: “Il dovere del medico consiste nel calmare le sofferenze, invece di prolungare il più a lungo possibile, con qualunque mezzo, a qualunque condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va verso la conclusione”.

Nel suo libro ci sono varie citazioni letterarie, molte tratte dalle Sacre Scritture. In che modo la sapienza biblica può aiutare gli uomini e le donne di oggi ad affrontare questa fase della vita, anche con uno sguardo su ciò che sta oltre?

 Nella Bibbia la vecchiaia è descritta con realismo, nelle sue molteplici espressioni. Ci sono sì i patriarchi che muoiono “sazi di giorni”, con i figli attorno a testimoniare la consolazione della discendenza. Ma poi ci sono i vecchi derisi, umiliati, sofferenti: “Non gettarmi via nel tempo della vecchiaia, non abbandonarmi quando declinano le mie forze” (Salmo 71). Direi che però, complessivamente, l’invito è a porre lo sguardo sulla necessità di vivere “bene” nel tempo della pienezza, nella fiducia che ogni vita possa trovare il proprio senso: in Dio, per l’uomo biblico; nella complessità della Storia, per l’uomo contemporaneo.

 Fonte: Avvenire

giovedì 11 agosto 2022

LA VECCHIAIA E' UNA PROMESSA

Volere l’eterna giovinezza è delirante

Proseguendo all’udienza generale il ciclo di catechesi dedicate alla vecchiaia, Francesco ne parla oggi come tempo in cui si vive con più maturità l’avvicinarsi dell’incontro con Dio. 

Il nostro luogo stabile - spiega - non è sulla terra ma accanto al Signore e nella vita siamo apprendisti. 

Fermare il tempo è impossibile

-

-Tiziana Campisi – Città del Vaticano

 

Dopo la pausa di luglio e le riflessioni, la scorsa settimana, dedicate al suo viaggio in Canada, il Pontefice, nell’Aula Paolo VI gremita di fedeli, sviluppa la sua sedicesima catechesi sulla terza età come “tempo proiettato al compimento”, che è passaggio attraverso la fragilità della fede e della testimonianza e “attraverso le sfide della fraternità”. (Ascolta il servizio con la voce del Papa)

Il tempo dell’attesa di Cristo

La vecchiaia, spiega il Papa, è momento propizio “per la testimonianza commossa e lieta” dell’attesa di Cristo, perché "l’anziano e l’anziana sono in attesa, in attesa di un incontro". E se in questa stagione della vita “le opere della fede, che avvicinano noi e gli altri al regno di Dio”, perdono “la potenza delle energie, delle parole, degli slanci della giovinezza e della maturità”, “proprio così rendono ancora più trasparente la promessa della vera destinazione della vita: un posto a tavola con Dio, nel mondo di Dio”. Per Francesco occorrerebbe, nelle Chiese locali, “ravvivare questo speciale ministero dell’attesa del Signore, incoraggiando i carismi individuali e le qualità comunitarie della persona anziana”.

Una vecchiaia che si consuma nell’avvilimento delle occasioni mancate, porta avvilimento per sé e per tutti. Invece, la vecchiaia vissuta con dolcezza, vissuta con rispetto per la vita reale scioglie definitivamente l’equivoco di una potenza che deve bastare a sé stessa e alla propria riuscita. Scioglie persino l’equivoco di una Chiesa che si adatta alla condizione mondana, pensando in questo modo di governarne definitivamente la perfezione e il compimento.

Destinati ad andare oltre attraverso il passaggio della morte

Quando ci si libera dalla presunzione di poter essere sempre perfetti e in salute, energici e pienamente riusciti, “il tempo dell’invecchiamento che Dio ci concede”, chiarisce il Papa, “è già in sé stesso una di quelle opere ‘più grandi’” che Gesù ci promette che compiremo, oltre a quelle stesse da lui compiute, se crediamo in lui. Quindi Francesco specifica qual è il senso della vita dell’uomo.

La nostra vita non è fatta per chiudersi su sé stessa, in una immaginaria perfezione terrena: è destinata ad andare oltre, attraverso il passaggio della morte. Perché la morte è un passaggio. Infatti, il nostro luogo stabile, il nostro punto d’arrivo non è qui, è accanto al Signore, dove Egli dimora per sempre.

Sulla terra siamo iniziati al compimento in Dio

Insomma, sulla terra “siamo apprendisti della vita”, dice il Pontefice, “che, tra mille difficoltà, imparano ad apprezzare il dono di Dio, onorando la responsabilità di condividerlo e di farlo fruttificare per tutti”. E “il tempo della vita sulla terra è la grazia di questo passaggio”. Fermare questo tempo, “volere l’eterna giovinezza, il benessere illimitato, il potere assoluto” è impossibile e delirante, aggiunge Francesco.

La nostra esistenza sulla terra è il tempo dell’iniziazione alla vita, è vita, ma che ti porta avanti a una vita più piena, l’iniziazione di quella più piena; una vita che solo in Dio trova il compimento. Siamo imperfetti fin dall’inizio e rimaniamo imperfetti fino alla fine. Nel compimento della promessa di Dio, il rapporto si inverte: lo spazio di Dio, che Gesù prepara per noi con ogni cura, è superiore al tempo della nostra vita mortale. Ecco: la vecchiaia avvicina la speranza di questo compimento. La vecchiaia conosce definitivamente, ormai, il senso del tempo e le limitazioni del luogo in cui viviamo la nostra iniziazione. La vecchiaia è saggia per questo: i vecchi sono saggi per questo.

La vecchiaia è nobile e non necessita di trucco

Poiché saggia, dunque, la vecchiaia "è credibile quando invita a rallegrarsi dello scorrere del tempo", ed è anche nobile rimarca il Pontefice, "non ha bisogno di truccarsi per far vedere la propria nobiltà. Forse il trucco viene quando manca nobiltà". Nella vecchiaia c’è “la profondità dello sguardo della fede”, e questa stagione della vita sulla terra, “vissuta nell’attesa del Signore, può diventare la compiuta ‘apologia’ della fede”, prosegue Francesco, “che rende ragione, a tutti, della nostra speranza per tutti”. In pratica “la vecchiaia rende trasparente la promessa di Gesù”, e ci proietta “verso la Città santa di cui parla il libro dell’Apocalisse”. Infine, il Papa offre una sintesi della sua catechesi sulla terza età vista nella prospettiva del passaggio verso la vita eterna.

La vecchiaia è la fase della vita più adatta a diffondere la lieta notizia che la vita è iniziazione per un compimento definitivo. I vecchi sono una promessa, una testimonianza di promessa. E il meglio deve ancora venire. Il meglio deve ancora venire: è come il messaggio del vecchio e la vecchia credenti, il meglio deve ancora venire. Dio a tutti noi ci conceda una vecchiaia capace di questo!

 

Vatican News

 DISCORSO DEL PAPA

 


martedì 9 febbraio 2021

GLI ANZIANI, UN DONO DI DIO


LA VECCHIAIA E'
 IL NOSTRO FUTURO

Presentato oggi il documento della Pontifica Accademia per la Vita sulla condizione della “terza età” dopo la pandemia

 - Davide Dionisi – Città del Vaticano

 La vecchiaia: il nostro futuro. La condizione degli anziani dopo la pandemia. E’ questo il titolo del documento pubblicato oggi con cui la Pontificia Accademia per la Vita, d’intesa con il Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale, propone una riflessione sugli insegnamenti da trarre dalla tragedia causata dalla diffusione del Covid-19, sulle sue conseguenze per l’oggi e per il prossimo futuro delle nostre società.

Ripensare il modello di sviluppo

Insegnamenti che hanno fatto emergere una duplice consapevolezza: “Da una parte l’interdipendenza tra tutti e dall’altra la presenza di forti disuguaglianze. Siamo tutti in balìa della stessa tempesta, ma in un certo senso, si può anche dire che stiamo remando su barche diverse: le più fragili affondano ogni giorno. È indispensabile ripensare il modello di sviluppo dell’intero pianeta” si legge nello scritto che riprende la riflessione già avviata con la Nota del 30 marzo 2020 (Pandemia e Fraternità Universale), proseguita con la Nota del 22 luglio 2020 (L’Humana Communitas nell’era della Pandemia. Riflessioni inattuali sulla rinascita della vita) e con il documento congiunto con il Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale (Vaccino per tutti. 20 punti per un mondo più giusto e sano) del 28 dicembre 2020. L’intenzione è di “proporre la via della Chiesa, maestra di umanità, ad un mondo cambiato dal Covid-19, a donne e uomini alla ricerca di un significato e di una speranza per la loro vita”.

Il Covid-19 e gli anziani

Durante la prima ondata della pandemia una parte considerevole dei decessi da Covid-19 si è verificato nelle istituzioni per anziani, luoghi che avrebbero dovuto proteggere la “parte più fragile della società” e dove invece la morte ha colpito sproporzionatamente di più rispetto alla casa e all’ambiente familiare. "Quanto è accaduto durante il Covid-19 impedisce di liquidare la questione con la ricerca di capri espiatori, di singoli colpevoli e, di contro, che si alzi un coro in difesa degli ottimi risultati di chi ha evitato il contagio nelle case di cura. Abbiamo bisogno di una nuova visione, di un nuovo paradigma che permetta alla società di prendersi cura degli anziani".

Nel 2050 due miliardi di ultrasessantenni

Il documento della PAV evidenzia che “Sotto il profilo statistico-sociologico, uomini e donne hanno in generale oggi una più lunga speranza di vita. Questa grande trasformazione demografica rappresenta, infatti, una sfida culturale, antropologica ed economica”. Secondo i dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2050 nel mondo ci saranno due miliardi di ultrasessantenni: dunque, una persona su cinque sarà anziana. “È pertanto essenziale rendere le nostre città luoghi inclusivi e accoglienti per gli anziani e, in generale, per tutte le forme di fragilità”

Essere anziani è un dono di Dio

Nella nostra società prevale spesso l’idea della vecchiaia come di un’età infelice, intesa sempre e solo come l’età dell’assistenza, del bisogno e delle spese per le cure mediche. “Essere anziani è un dono di Dio e un’enorme risorsa, una conquista da salvaguardare con cura” prosegue “anche quando la malattia si fa invalidante ed emergono necessità di assistenza integrata e di elevata qualità. Ed è innegabile che la pandemia abbia rinforzato in noi tutti la consapevolezza che la ricchezza degli anni è un tesoro da valorizzare e proteggere”.

Abbiamo visto quello che è successo agli anziani in alcuni luoghi del mondo a causa del coronavirus. Non dovevano morire così. Ma in realtà qualcosa di simile era già accaduto a motivo delle ondate di calore e in altre circostanze: crudelmente scartati. Non ci rendiamo conto che isolare le persone anziane e abbandonarle a carico di altri senza un adeguato e premuroso accompagnamento della famiglia, mutila e impoverisce la famiglia stessa. Inoltre, finisce per privare i giovani del necessario contatto con le loro radici e con una saggezza che la gioventù da sola non può raggiungere. (Papa Francesco, Fratelli tutti)

Un nuovo modello per le fasce più deboli

Quanto all’assistenza, la PAV indica un nuovo modello soprattutto per i più fragili ispirato soprattutto alla persona “L’implementazione di tale principio implica un articolato intervento a diversi livelli, che realizzi un continuum assistenziale tra la propria casa e alcuni servizi esterni, senza cesure traumatiche, non adatte alla fragilità dell’invecchiamento” specifica il documento, osservando che “le case di riposo dovrebbero riqualificarsi in un continuum socio-sanitario, ossia offrire alcuni loro servizi direttamente nei domicili degli anziani: ospedalizzazione a domicilio, presa in carico della singola persona con risposte assistenziali modulate sui bisogni personali a bassa o ad alta intensità, dove l’assistenza sociosanitaria integrata e la domiciliarità rimangano il perno di un nuovo e moderno paradigma”. Viene auspicato in sostanza di reinventare una rete di solidarietà più ampia “non necessariamente ed esclusivamente fondata su vincoli di sangue, ma articolata secondo le appartenenze, le amicizie, il comune sentire, la reciproca generosità nel rispondere ai bisogni degli altri”.

L’incontro tra generazioni

Quanto al confronto con i giovani, il documento evoca un “incontro” che possa portare nel tessuto sociale “quella nuova linfa di umanesimo che renderebbe più solidale la società. Più volte Papa Francesco ha esortato i giovani a stare accanto ai nonni” prosegue, aggiungendo che “L’uomo che invecchia non si avvicina alla fine, ma al mistero dell’eternità; per comprenderlo ha bisogno di avvicinarsi a Dio e di vivere nella relazione con Lui. Prendersi cura della spiritualità degli anziani, del loro bisogno di intimità con Cristo e di condivisione della fede è un compito di carità nella Chiesa”. Il documento chiarisce che “È solo grazie agli anziani che i giovani possono ritrovare le proprie radici ed è solo grazie ai giovani che gli anziani recuperano la capacità di sognare”.

La fragilità come magistero

Preziosa è anche la testimonianza che gli anziani possono dare con la loro fragilità. “Essa può essere letta come un magistero, un insegnamento di vita” rileva la riflessione, chiarendo che “La vecchiaia va compresa anche in questo orizzonte spirituale: è l’età propizia dell’abbandono a Dio. Mentre il corpo si indebolisce, la vitalità psichica, la memoria e la mente diminuiscono, appare sempre più evidente la dipendenza della persona umana da Dio”.

La svolta culturale

Infine un appello: “L’intera società civile, la Chiesa e le diverse tradizioni religiose, il mondo della cultura, della scuola, del volontariato, dello spettacolo, dell’economia e delle comunicazioni sociali debbono sentire la responsabilità di suggerire e sostenere nuove e incisive misure” si legge “perché sia reso possibile agli anziani di essere accompagnati e assistiti in contesti familiari, nella loro casa e comunque in ambienti domiciliari che assomiglino più alla casa che all’ospedale. Si tratta di una svolta culturale da mettere in atto”.

Vatican News

DOCUMENTO DELLA PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA




giovedì 12 aprile 2018

LA VITA E I GIORNI di Enzo Bianchi

«Voglio aggiungere 

vita ai giorni 

e non giorni alla vita»

«…gioventù piena di grazia, di vigore e di fascino, lo sai che la Vecchiaia può succedere a te con eguale grazia, vigore e fascino?»
                                                                                                                                                            Walt Whitman

       Terra sconosciuta in cui ci inoltriamo lentamente, paese aspro da attraversare e da conquistare, la vecchiaia ha le sue grandi ombre, le sue insidie e le sue fragilità, ma non va separata dalla vita: fa parte del cammino dell’esistenza e ha le sue chances. È il tempo di piantare alberi per chi verrà.              
       Vecchiaia è arte del vivere, che possiamo in larga parte costruire, a partire dalla nostra consapevolezza, dalle nostre scelte, dalla qualità della convivenza che coltiviamo insieme agli altri, mai senza gli altri, giorno dopo giorno. È un prepararsi a lasciare la presa, ad accettare l’incompiuto, ad allentare il controllo sul mondo e sulle cose. 
       Nell’inesorabile faccia a faccia con il corpo che progressivamente ci tradisce, Enzo Bianchi invita tutti noi ad accogliere questo tempo della vita pieno, senza nulla concedere a una malinconica nostalgia del futuro, ma anzi trovando qui l’occasione preziosa di un generoso atto di fiducia verso le nuove generazioni.

Edizioni Il Mulino
pp. 144, 978-88-15-27364-2
anno di pubblicazione 2018  
€ 13  

Enzo Bianchi ha fondato la Comunità Monastica di Bose di cui è stato Priore fino al 2017. È autore di testi sulla spiritualità cristiana e sul dialogo della Chiesa con il mondo contemporaneo. Collabora a «La Stampa», «Avvenire», «Repubblica». Tra i suoi numerosi saggi segnaliamo «Dono e perdono» (2014), «Spezzare il pane» (2015), «Gesù e le donne» (2016), tutti pubblicati da Einaudi; per Rizzoli «Raccontare l’amore» (2015) e, per il Mulino, «Ama il prossimo tuo» (con M. Cacciari, 2011).