- di Mauro Magatti
I tempi sono violenti. Non è solo il numero insopportabile di guerre che insanguinano il mondo. È la sensazione che la sopraffazione sia diventata la regola dei rapporti sociali. La politica parla con il linguaggio delle armi. Le relazioni internazionali si determinano con missili e droni. Mentre un po’ ovunque crescono polarizzazione, rabbia, aggressività. Nella seconda metà del secolo scorso avevamo creduto che il mondo potesse essere governato da istituzioni comuni, dal diritto internazionale, dal fragile equilibrio della diplomazia. Oggi quella speranza sembra svanita.
I
trattati, le convenzioni, le risoluzioni delle Nazioni Unite, la diplomazia:
tutto sembra destinato a impallidire di fronte al discorso crudo della forza.
Per decidere non servono più le regole condivise, ma la determinazione di
imporre la propria potenza: militare, economica, tecnologica. In barba a tutti
i progressi tecnologici e culturali, l’umanità sembra così regredire ad un
tempo primitivo.
Ogni
giorno sembra andare peggio. Putin che, mentre discute di pace con Trump,
continua a mandare missili sulle città ucraine. Netanyahu che, senza dare
ascolto ai tanti appelli, prosegue l’orrenda opera di distruzione di Gaza
ridotta a un ammasso di macerie.
Con
evidenti effetti di disumanizzazione: il nemico è sempre ridotto a
meno-di-uomo.
In
mezzo a tutta questa oscurità, uno squarcio di luce arriva da Gerusalemme. La
decisione del patriarca latino, Pierbattista Pizzaballa, e di quello greco
ortodosso, Teofilo, di non lasciare Gaza nonostante Israele abbia annunciato di
occupare l’intera Striscia introduce un elemento dirompente rispetto alla
logica bellica.
Rifiutando
di abbandonare le loro comunità, i due patriarchi lanciano una provocazione
profetica: restare là dove la vita è ferita. Non per alimentare lo scontro, ma
per custodire una presenza diversa. Restare, quando tutto spinge a fuggire.
Restare, quando il calcolo suggerirebbe di proteggersi.
Mettersi
in mezzo. Non per restare neutrali, per non vedere o non scegliere. Ma per
rifiutare di essere catturati dalla spirale violenza-contro-violenza.
Mettersi
in mezzo è affermare che, al di là delle ragioni e dei torti, c’è qualcosa che
viene prima. Qualcosa di comune all’umano: la dignità di ogni vita. La
possibilità del dialogo e la necessità dell’ascolto richiamate dal potente
Appello interreligioso rivolto ieri alle Istituzioni italiane, ai cittadini e
ai credenti in Italia «per favorire qualsiasi iniziativa di incontro per
arginare l’odio».
Solo
il riconoscimento dell’altro, delle sue ragioni, può aprire un futuro diverso.
La logica del mettersi in mezzo indica una via concreta. Invece di alimentare
odio e aggressività, c’è sempre la possibilità di creare luoghi di incontro,
ricostruire la fiducia reciproca, educare a riconoscere che la vita dell’altro
vale quanto la nostra.
Se
la violenza ci trascina verso la chiusura, il sospetto, la contrapposizione, la
scelta di mettersi in mezzo ci ricorda che esiste ancora un terreno comune.
Fragile, certo. Ma reale. Siamo in un tempo di violenza, e sarebbe ingenuo
negarlo. Ma proprio per questo, ogni gesto che rompe la logica della forza va
valorizzato e moltiplicato.
La
decisione dei due patriarchi ‒ grande segno interconfessionale che dice di
quello che i cristiani possono fare insieme ‒ è un atto concreto che dimostra
che un altro modo di stare nel conflitto è possibile.
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