Esaltazione della santa
croce
Nm 21,4b-9; Sal 77 (78);
Fil 2,6-11; Gv 3,13-17
Commento di Ester Abbattista
Il Vangelo di questa
domenica ci mette di fronte alla realtà della vita. Come per gli Israeliti nel
libro dei Numeri, l’esperienza del vivere non è semplice e nemmeno «leggera». E
questo vale per tutti; certo ci sono situazioni estreme, persone che sperimentano
sulla propria pelle il dolore, la sofferenza di guerre, carestie e catastrofi
naturali come terremoti o inondazioni. Ma anche per chi è «risparmiato» da tali
sciagure «la fatica» del vivere si presenta in tutta la sua complessità.
Per quanto possiamo
sentirci sicuri economicamente, sappiamo che il denaro non è tutto, e
soprattutto non garantisce serenità e benessere profondo; alla fine tutti ci
ritroviamo a dover fare i conti con la nostra morte, con la fine della nostra
esistenza, e il fatto di avere o meno denaro si riduce all’unica differenza che
rimane possibile: una bella e lussuosa bara o un sacco di plastica se non la
semplice nuda terra.
Mi viene sempre in mente
una persona che ho incontrato diversi anni fa: era una persona economicamente
benestante, aveva realizzato un’impresa solida e di successo ma, mi aveva
confidato, aveva paura di morire. Era questo il suo dramma interiore che non gli
dava pace: la paura della morte. Per sopravvivere a tale paura cercava
qualsiasi cosa che gli avrebbe potuto prolungare la vita, era andato persino
diverse volte in Cina per acquistare un certo tipo di bacche che avrebbero
avuto la caratteristica di procurare longevità. Non so se questa persona sia
oggi ancora in vita o meno, ma mi è rimasto dentro il suo disperato desiderio
di essere salvato dalla morte, il desiderio di una salvezza che il suo denaro
non poteva comprare.
Un tempo, fin quando si
era giovani la morte sembrava essere una cosa lontana, che riguardava gli
altri, i «vecchi» o i pochi sfortunati che per un incidente o una malattia
cadevano prima lungo il percorso. Questa però è l’esperienza di chi giovane non
lo è più; non credo, infatti, che oggi per i giovani sia ancora così. Non
conosco le statistiche dei suicidi giovanili, ma ci sono alcuni indizi che mi
fanno pensare che anche per i nostri giovani il limite della morte stia
diventando un problema da «anestetizzare», a volte proprio suicidandosi,
magari on-line per sopravvivere per sempre nella rete.
Ritornando quindi alla
«fatica del vivere» da cui nessuno è esente, ciò che emerge è proprio la
fragilità di questa vita, dove non basta avere da mangiare, dove, come i
serpenti nel deserto, tutto ci causa insicurezza, vulnerabilità, dolore. Per
far fronte alle insidie del deserto Mosè, per ordine di Dio, costruisce un
serpente di bronzo appeso a un palo: guardare quel serpente significa essere
salvati dai morsi dei serpenti veri.
Questa immagine viene
ripresa poi nel Vangelo dove il «serpente innalzato» è Gesù stesso morto in
croce. E anche in questo caso l’invito è lo stesso: alzare gli occhi, guardare
e credere. Non si tratta di una magia o di un qualcosa di miracoloso, ma di un
cambio paradigmatico di visione non tanto esteriore quanto interiore. Non basta
infatti alzare gli occhi, lo sguardo, ma ciò che fa la differenza è proprio
«credere» che quel serpente di bronzo, che quel Gesù crocifisso, faccia la
differenza.
Cerchiamo dunque di
capire in che cosa consiste questa differenza. Prima di tutto va forse
sottolineato che in entrambe le scene, sia quella nel deserto con Mosè e i
serpenti che in quella del crocifisso, non viene annullato il pericolo,
l’origine e la minaccia di quel male mortale. I serpenti non spariscono dalla
scena, così neanche i soldati romani e chi con loro ha permesso la
crocifissione di Gesù, Pilato in primis. Non viene annullata la
fragilità della condizione umana, la vulnerabilità e la fatica del vivere che
essa comporta, ma ancora di più non viene annullata la morte; ciò che avviene è
un cambiamento di prospettiva, potremmo dire di «piano di visione», che
proietta chi guarda in una dimensione diversa, una dimensione di salvezza.
La fede in definitiva è
proprio questo: credere, essere capaci di aprirsi a una dimensione che, pur
appartenendo a questa realtà, l’attraversa, la supera, la «squarcia» e permette
di cogliere quel barlume di luce che morte non conosce. L’esperienza di quella
luce trasforma gli ambiti ristretti della vita, non elimina il dolore, la
fatica, la morte, ma àncora il proprio sguardo verso quell’«oltre» che questa
stessa realtà racchiude.
È proprio vero che la
morte è il limite invalicabile della vita, la fine del tutto? Se sì, allora è
bene che il nostro sguardo sia rivolto in basso, facendo attenzione ai serpenti
che attanagliano i nostri piedi nella speranza che il loro morso ci colga il
più tardi possibile; se no, certo cercheremo sempre di evitare i serpenti, ma
cercheremo soprattutto di tenere lo sguardo rivolto verso quella luce,
lasciando che il nostro cuore si colmi di quel respiro di speranza che riempie
di senso questa nostra «fatica» di vivere.
Immagine: Pieter Degrebber, Mosè e il serpente di bronzo
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