sabato 13 settembre 2025

SALVI NELLA CROCE

 

Esaltazione della santa croce

Nm 21,4b-9; Sal 77 (78); Fil 2,6-11; Gv 3,13-17


Commento di Ester Abbattista

Il Vangelo di questa domenica ci mette di fronte alla realtà della vita. Come per gli Israeliti nel libro dei Numeri, l’esperienza del vivere non è semplice e nemmeno «leggera». E questo vale per tutti; certo ci sono situazioni estreme, persone che sperimentano sulla propria pelle il dolore, la sofferenza di guerre, carestie e catastrofi naturali come terremoti o inondazioni. Ma anche per chi è «risparmiato» da tali sciagure «la fatica» del vivere si presenta in tutta la sua complessità.

Per quanto possiamo sentirci sicuri economicamente, sappiamo che il denaro non è tutto, e soprattutto non garantisce serenità e benessere profondo; alla fine tutti ci ritroviamo a dover fare i conti con la nostra morte, con la fine della nostra esistenza, e il fatto di avere o meno denaro si riduce all’unica differenza che rimane possibile: una bella e lussuosa bara o un sacco di plastica se non la semplice nuda terra.

Mi viene sempre in mente una persona che ho incontrato diversi anni fa: era una persona economicamente benestante, aveva realizzato un’impresa solida e di successo ma, mi aveva confidato, aveva paura di morire. Era questo il suo dramma interiore che non gli dava pace: la paura della morte. Per sopravvivere a tale paura cercava qualsiasi cosa che gli avrebbe potuto prolungare la vita, era andato persino diverse volte in Cina per acquistare un certo tipo di bacche che avrebbero avuto la caratteristica di procurare longevità. Non so se questa persona sia oggi ancora in vita o meno, ma mi è rimasto dentro il suo disperato desiderio di essere salvato dalla morte, il desiderio di una salvezza che il suo denaro non poteva comprare.

Un tempo, fin quando si era giovani la morte sembrava essere una cosa lontana, che riguardava gli altri, i «vecchi» o i pochi sfortunati che per un incidente o una malattia cadevano prima lungo il percorso. Questa però è l’esperienza di chi giovane non lo è più; non credo, infatti, che oggi per i giovani sia ancora così. Non conosco le statistiche dei suicidi giovanili, ma ci sono alcuni indizi che mi fanno pensare che anche per i nostri giovani il limite della morte stia diventando un problema da «anestetizzare», a volte proprio suicidandosi, magari on-line per sopravvivere per sempre nella rete.

Ritornando quindi alla «fatica del vivere» da cui nessuno è esente, ciò che emerge è proprio la fragilità di questa vita, dove non basta avere da mangiare, dove, come i serpenti nel deserto, tutto ci causa insicurezza, vulnerabilità, dolore. Per far fronte alle insidie del deserto Mosè, per ordine di Dio, costruisce un serpente di bronzo appeso a un palo: guardare quel serpente significa essere salvati dai morsi dei serpenti veri.

Questa immagine viene ripresa poi nel Vangelo dove il «serpente innalzato» è Gesù stesso morto in croce. E anche in questo caso l’invito è lo stesso: alzare gli occhi, guardare e credere. Non si tratta di una magia o di un qualcosa di miracoloso, ma di un cambio paradigmatico di visione non tanto esteriore quanto interiore. Non basta infatti alzare gli occhi, lo sguardo, ma ciò che fa la differenza è proprio «credere» che quel serpente di bronzo, che quel Gesù crocifisso, faccia la differenza.

Cerchiamo dunque di capire in che cosa consiste questa differenza. Prima di tutto va forse sottolineato che in entrambe le scene, sia quella nel deserto con Mosè e i serpenti che in quella del crocifisso, non viene annullato il pericolo, l’origine e la minaccia di quel male mortale. I serpenti non spariscono dalla scena, così neanche i soldati romani e chi con loro ha permesso la crocifissione di Gesù, Pilato in primis. Non viene annullata la fragilità della condizione umana, la vulnerabilità e la fatica del vivere che essa comporta, ma ancora di più non viene annullata la morte; ciò che avviene è un cambiamento di prospettiva, potremmo dire di «piano di visione», che proietta chi guarda in una dimensione diversa, una dimensione di salvezza.

La fede in definitiva è proprio questo: credere, essere capaci di aprirsi a una dimensione che, pur appartenendo a questa realtà, l’attraversa, la supera, la «squarcia» e permette di cogliere quel barlume di luce che morte non conosce. L’esperienza di quella luce trasforma gli ambiti ristretti della vita, non elimina il dolore, la fatica, la morte, ma àncora il proprio sguardo verso quell’«oltre» che questa stessa realtà racchiude.

È proprio vero che la morte è il limite invalicabile della vita, la fine del tutto? Se sì, allora è bene che il nostro sguardo sia rivolto in basso, facendo attenzione ai serpenti che attanagliano i nostri piedi nella speranza che il loro morso ci colga il più tardi possibile; se no, certo cercheremo sempre di evitare i serpenti, ma cercheremo soprattutto di tenere lo sguardo rivolto verso quella luce, lasciando che il nostro cuore si colmi di quel respiro di speranza che riempie di senso questa nostra «fatica» di vivere.

IL REGNO

Immagine: Pieter Degrebber, Mosè e il serpente di bronzo

Nessun commento:

Posta un commento