della sequela di Gesù
Nel
chiamare discepoli e discepole dietro a sé Gesù non fa propaganda per le
vocazioni, ma piuttosto dissuade, mette in guardia. Avremmo molto da imparare
da questo suo atteggiamento, soprattutto quando la scarsità di vocazioni ci
angoscia e ci fa paura: cattiva consigliere quest’ultima, che spinge ad
accogliere tutti con molta superficialità e a non riconoscere e comunicare le
difficoltà oggettive della sequela di Gesù.
Commento di Enzo Bianchi
Dopo
il pranzo a casa di uno dei capi dei farisei (cf. Lc 14,1-24), Gesù riprende il
suo cammino verso Gerusalemme, seguito da una folla numerosa. La sua
predicazione ha successo, gli ascoltatori pronti ad accompagnarlo lungo la
strada sono molti, ma Gesù, che vuole accanto a sé discepoli, non militanti, si
volta indietro per guardare quella folla in faccia e rivolgerle alcune parole
capaci di fare chiarezza e di non permettere illusioni o addirittura menzogne.
Parole dure, che ci urtano e ci dispiacciono perché ci chiedono di combattere
contro noi stessi, contro i nostri sentimenti naturali.
Infatti
Gesù avverte: “Se uno viene a me, cioè vuole stare con me, e non odia suo
padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la
propria vita, non può essere mio discepolo”. Gesù mette in contrasto lo stare
con lui e l’amore famigliare, nonché l’amore per la propria vita. Perché tanta
radicalità? Semplicemente perché egli conosce il cuore umano, conosce il potere
dei legami di sangue, conosce la possibilità che la famiglia sia una gabbia,
una prigione.
L’intenzione
delle parole di Gesù consiste nella liberazione, che egli vuole portare a ogni
uomo e a ogni donna, da tutte le presenze idolatriche, tra le quali è possibile
annoverare anche legami e affetti di sangue e di famiglia.
Quanto
alla paradossale espressione “Se uno non odia…”, essa ha certamente un
retroterra semitico, ma va intesa bene. Infatti viene tradotta correttamente:
“Se uno non mi ama più di quanto ami suo padre, sua madre…”. Negli affetti è
questione di ordine. Amare il padre e la madre è un comandamento della Torah
(cf. Es 20,12; Dt 5,16), e Gesù lo conferma (cf. Mc 7,9-13; Mt 15,3-6), ma può
succedere che questo amore impedisca l’adesione al Signore, la pratica della
sua volontà, la sequela materiale di Gesù. In tal caso i legami con la famiglia
che trattengono e imprigionano vanno addirittura odiati!
La
storia delle vocazioni cristiane conosce bene questi conflitti, questa
sofferenza nelle famiglie, che a volte si ribellano alla vocazione del figlio o
della figlia, e conosce bene anche le vocazioni abortite perché il legame con
la famiglia è più forte del legame con il Signore che la vocazione richiede.
Certo, oggi la mondanità entrata anche nella vita ecclesiale banalizza le
relazioni tra chiamato e famiglia, così che non si pone più un aut aut che
indichi una rinuncia, una separazione necessaria per seguire con cuore unito il
Signore. L’esito è poi quello di chiamati che hanno una vita astenica, che sono
“tirati qua e là” (cf. Lc 10,40), mai veramente decisi a compiere un cammino
imboccato con tutto il cuore. Misere vocazioni! In verità non possiamo amare
tutti nello stesso tempo, ma solo dando ai nostri amori un ordine chiaro
sappiamo dov’è il nostro tesoro e dunque il nostro cuore (cf. Lc 12,34).
D’altronde,
anche le dieci parole (cf. Es 20,1-17; Dt 5,6-22) richiedono come prioritario
l’amore per Dio, e quando Gesù menziona il comandamento “Onora il padre e la
madre”, dal quarto posto lo retrocede all’ultimo (cf. Lc 18,20). Anche i leviti
dovevano abbandonare la famiglia per essere assidui al Signore, e la comunità
di Qumran richiedeva ai suoi membri la separazione dalla famiglia per essere
vigilanti in attesa del giorno del Signore (cf. 4QTestimonia 14-20; cf. Dt
33,8-11). Sì, Gesù chiede un atto, che lui stesso ha compiuto nei confronti
della sua famiglia (cf. Lc 8,19-21), chiede una rottura che permetta un amore
diverso, esteso, universale, un amore nel quale Dio ha il primato e la famiglia
ha il suo posto, ma senza il potere di legare. Nello stesso tempo, amo
ricordare che Dio, e dunque Cristo, non è totalitario: non esclude altri amori,
come quello coniugale o quello dell’amicizia, ma anche questi vanno vissuti
sapendo che l’amore per Cristo è primario, egemonico, e gli altri amori non
possono porre ostacoli, dilazioni e tanto meno contraddizioni a quello per il
Signore.
Questo
regime degli affetti è duro, costa fatica, ma è il “portare la propria croce”,
cioè il portare lo strumento di esecuzione del proprio io philautico,
egoista. Ognuno ha una propria croce da portare, nessuno ne è esente, ma non si
devono fare paragoni. Gesù, infatti, sa che quanti lo seguono fedelmente si
troveranno coinvolti anche nella sua passione e morte, quando egli porterà la
croce. Si tratterà di imparare da Gesù, quando egli parla, agisce, ma anche
quando sarà condannato, torturato e ucciso nell’ignominia della croce. Essere
discepoli di Gesù non è l’esperienza di un momento (cf. Mc 4,12-13; Mt
13,20-21), non è un provare per verificare, ma è la decisione di rispondere a
una chiamata, è un “amen” che va detto con ponderazione, con discernimento,
senza obbedire alle emozioni del momento.
Per
questo Gesù annuncia due parabole che suonano come un avvertimento, una messa
in guardia: egli non fa propaganda per le vocazioni, ma piuttosto dissuade…
Avremmo molto da imparare da questo atteggiamento di Gesù, soprattutto quando
la scarsità di vocazioni ci angoscia e ci fa paura: cattiva consigliera
quest’ultima, che spinge ad accogliere tutti con molta superficialità e a non
riconoscere e comunicare le difficoltà oggettive della sequela di Gesù. Con la
prima parabola Gesù avverte: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non
siede prima a calcolare la spesa, per vedere se ha i mezzi per portare a
termine i lavori?”. Seguire Gesù – e si faccia attenzione a una lettura poco
intelligente dei racconti evangelici di vocazione! – richiede non il fuoco di
un momento, non l’entusiasmo, non solo l’innamoramento, ma anche un tempo di
calma, di silenzio, di esame di se stessi. È l’azione del discernimento,
difficile ma assolutamente necessaria per percepire la voce del Signore non
fuori di noi, non soltanto nelle eventuali parole di un altro, ma nel nostro
cuore più profondo, là dove Dio ci parla personalmente. Ascoltando il profondo,
la propria intimità, discernendo la parola di Dio dalle altre parole che ci
abitano, guardando con realismo a ciò che siamo e alle nostre possibilità, noi
possiamo giungere a una scelta; magari facendoci aiutare da chi è più avanti di
noi nella vita secondo lo Spirito, ma sempre coscienti che l’amen può solo
essere nostro, personalissimo, e un amen per sempre, non a tempo o con scadenza!
Similmente
la seconda parabola avverte che occorre misurare bene le proprie forze, per
vincere quello che è un combattimento spirituale senza tregua, fino all’ultimo.
Perché la sequela di Gesù esige la capacità di fare guerra contro il nemico, il
diavolo che ci tenta e vorrebbe farci cadere, spingendoci ad abbandonare la
sequela stessa. Dunque il chiamato lo sa: ascoltata la parola di invito, deve
innanzitutto “stare fermo”, rimanere in solitudine e in silenzio (cf. Lam 3,28)
per discernere bene cosa ha ascoltato e cosa il cuore gli dice; poi deve
consigliarsi (come dice letteralmente il verbo bouleúomai); infine
deve pervenire alla decisione personalissima, fidandosi soltanto della grazia
del Signore.
Gesù
aggiunge poi una parola non presente nel brano liturgico, ma collegata con
quanto precede. Egli dice che accade per una storia di vocazione quello che
accade per il sale: “Il sale è buono, ma se perde la capacità di salare, a cosa
potrà servire? Lo si butta via!” (cf. Lc 14,34-35). Allo stesso modo una
vocazione può essere buona, ma nella vita può essere contraddetta, abbandonata,
e allora quella resta una vita sprecata.
Diceva
il mio padre spirituale: “Quando qualcuno pensa di incrementare il numero di
vocazioni nella chiesa, e impone la vocazione agli altri, non crea dei santi ma
delle persone miserabili!”.
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