giovedì 11 settembre 2025

INSEGNANTE MARIONETTA?

 

L’insegnante ridotto a marionetta del sistema?

Oggi il senso della vocazione all’educare è offuscato da mille compiti stabiliti nel nome di performatività e misurabilità, come dice il concetto stesso di “credito” formativo Ma la voce di chi sta in cattedra non è ascoltata 

Un’ingiustizia che ne mina credibilità e dignità

Non più soggetti considerati capaci di contribuire al sapere, ma fonti di informazioni numeriche, grìglie di valutazione, indicatori di performance

 

-         di GIOVANNI  SCARAFILE

Come Marx ed Engels evocavano lo spettro del comunismo, oggi potremmo parlare di un altro fantasma che si aggira per le aule scolastiche europee: quello del Beruf, la vocazione-professione che un tempo costituiva l’essenza stessa dell’insegnare. Il termine tedesco, nella sua densità semantica che Weber ha magistralmente analizzato, indicava quella peculiare coincidenza tra chiamata interiore e funzione sociale, tra dedizione personale e servizio alla comunità. Oggi questa coincidenza appare sempre più remota, quasi archeologica. Le conseguenze sociali di questa perdita sono devastanti: quando l’insegnamento cessa di essere vissuto come vocazione per ridursi a mera prestazione, non è solo il docente a impoverirsi, ma l’intera comunità educativa. Per comprendere la situazione attuale della scuola, dobbiamo risalire a Frederick Winslow Taylor, l’ingegnere americano che nel 1911 pubblicò The Principles of Scientific Management, teorizzando la “gestione scientifica del lavoro”. Il taylorismo scomponeva ogni attività in unità minime, cronometrate e standardizzate, separando rigidamente chi pensava da chi eseguiva. Oggi assistiamo a un fenomeno analogo nelle aule: la frammentazione della funzione docente in compiti parcellizzati – compilatore di griglie, redattore di reportistica, esecutore di protocolli, verificatore di indicatori. L’insegnante non esercita più un ruolo unitario che tiene insieme elaborazione del sapere, trasmissione e cura della relazione educativa, ma viene ridotto a ingranaggio di una macchina che pretende di ottimizzare l’educazione come fosse una catena di montaggio. Come l’operaio taylorizzato perdeva la visione d’insieme del proprio lavoro, così il docente contemporaneo vede dissolversi l’unità di senso del proprio agire educativo. In questo scenario, la logica performativa trasforma la stessa nozione di controllo: non più soltanto centralizzato, esercitato dagli uffici scolastici regionali, dal ministero o dalle agenzie di valutazione, ma capillare e «subjectless», diffuso in ogni dettaglio della vita scolastica e interiorizzato dagli insegnanti come sorveglianza costante del proprio operato.

Diciamocelo francamente: chi mai potrebbe opporsi al miglioramento continuo, alla trasparenza, all’eccellenza? È questa la forza retorica della performatività: si presenta come l’evidenza stessa, l’incontestabile, il buon senso. Criticarla significa esporsi all’accusa di conservatorismo, di nostalgia per privilegi corporativi, di resistenza al cambiamento. Eppure, proprio questo carattere di ovvietà dovrebbe metterci in guardia. La performatività trasforma l’educazione in spettacolo documentabile, sostituisce la profondità della relazione educativa con la superficie misurabile degli indi riduce la complessità del sapere a punteggi e classifiche. In tal senso, la performatività non è neutra né innocente, come i più ingenui credono. Essa porta con sé un’antropologia precisa: quella dell’homo oeconomicus applicato al sapere. In questa visione, l’insegnante diventa un produttore di apprendimento misurabile, lo studente un consumatore di competenze certificate, l’istituzione educativa un’azienda in competizione sul mercato della formazione. Non è forse significativo che oggi il linguaggio corrente parli di “crediti” come se l’apprendimento fosse un conto in banca, da accumulare, spendere o trasferire da un’istituzione all’altra? Sono segnali, questi, di una trasformazione ontologica che ridefinisce la natura stessa dei soggetti e delle relazioni educative.

In linea con le ricerche di Miranda Fricker sull’ingiustizia epistemica, possiamo identificare una forma specifica di torto che colpisce gli insegnanti: la cosiddetta «ingiustizia testimoniale preventiva». Si tratta di quella situazione in cui la credibilità del soggetto è talmente compromessa da pregiudizi identitari che la sua voce non viene nemmeno richiesta. L’insegnante contemporaneo vive esattamente

questa condizione: quando si tratta di delineare politiche educative o di definire le finalità culturali della scuola, la sua testimonianza non viene sollecitata. Parlano le procedure, i regolamenti, gli algoritmi, ma non chi vive quotidianamente il rapporto educativo. È un’ingiustizia tanto più grave quanto più silenziosa: non lascia traccia del rifiuto perché semplicemente la voce del docente non viene contemplata come possibile fonte di conoscenza affidabile. La degradazione culmina nella oggettivazione epistemica: il docente non è più visto come informante – un soggetto capace di contribuire alla conoscenza con giudizio ed esperienza – ma come semplice fonte di informazione da cui estrarre dati. Si prelevano dalle sue pratiche numeri, indicatori di performance, griglie di valutazione. L’insegnante diventa oggetto osservabile, superficie da cui ricavare indizi statistici sul funzionamento della scuola.

Tutto ciò produce una frattura più profonda: priva il docente della possibilità di dire se stesso. Se i dati parlano al suo posto, se gli indicatori diventano il vocabolario ufficiale della sua esistenza profescatori, sionale, allora l’insegnante non soltanto viene oggettivato, ma anche reso muto. È qui che la degradazione epistemica incontra l’ingiustizia ermeneutica: ciò che non trova le parole per essere nominato non può entrare nello spazio pubblico della conoscenza. In questo modo, il docente è sospinto a parlare con la voce altrui, adottando il linguaggio del sistema che lo ha ridotto a superficie misurabile.

Così il ventriloquio si compie: non più soltanto come sostituzione della voce docente con procedure esterne, ma come introiezione di quelle stesse procedure nel suo stesso linguaggio. È qui che la figura dell’insegnante-ventriloquo mostra tutta la sua drammaticità: privato della propria parola, costretto a esibirsi con la voce di un altro, da soggetto che educa diventa marionetta che recita un copione scritto altrove. Non si tratta di una semplice difficoltà professionale, ma di una spoliazione radicale che lacera l’identità personale, svuota la dignità e umilia la responsabilità istituzionale. In gioco non c’è solo la condizione di una categoria, ma la qualità stessa della scuola come bene pubblico e democratico, cioè come spazio comune in cui una comunità decide di investire sul futuro riconoscendo a tutti il diritto a un sapere libero e critico.

Chi ascolta questo silenzio coatto non può restare indifferente. Perché il ventriloquo non è solo una figura concettuale: è il volto reale di uomini e donne che ogni giorno entrano in aula portando con sé un sapere che non riescono più a esprimere con libertà. È la voce soffocata di chi dovrebbe insegnare a pensare, ma si trova costretto a compilare tabelle. È la dignità negata di chi non smette di credere nel valore dell’educazione, ma non ha più un linguaggio per dirlo. Immedesimarsi in questa condizione significa comprendere la violenza simbolica che vi è all’opera e provare lo sdegno che essa merita: perché nulla è più ingiusto che togliere la voce a chi ha scelto di vivere insegnando.

www.avvenire.it

 Immagine

 

Nessun commento:

Posta un commento