- di FEDERICO LIBERTI (Da “Compagno è il mondo”)
Lo
ha fatto con un lungo saggio sul New York Times, pubblicato il 14 luglio 2025,
che segna un punto di svolta nella ricezione pubblica del massacro in corso a
Gaza. Perché Bartov, israeliano di nascita, già ufficiale dell’IDF, sionista
nella formazione familiare, non è solo un esperto autorevole: è il testimone di
una frattura epistemologica e morale. Scrive: «Essendo cresciuto in una
casa sionista, ho vissuto la prima metà della mia vita in Israele, ho servito
nell’IDF come soldato e ufficiale, e ho trascorso gran parte della mia carriera
a fare ricerche e scrivere sui crimini di guerra e sull’Olocausto, questa è
stata una conclusione dolorosa da raggiungere… Ma io insegno lezioni sul
genocidio da un quarto di secolo. Ne riconosco uno quando ne vedo uno».
A
differenza di chi brandisce con leggerezza l’accusa di genocidio come arma
retorica, Bartov aderisce alla definizione rigorosa fornita dalla Convenzione
ONU del 1948: il genocidio si configura laddove vi sia «l’intenzione di
distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o
religioso, in quanto tale». Due, dunque, sono i criteri: l’intenzione e la
messa in atto. Entrambi, nel caso israeliano, risultano documentati.
«Tale
intento», scrive Bartov, «è stato espresso pubblicamente da numerosi funzionari
e leader. Ma l’intento può anche derivare da uno schema di operazioni sul
campo, e questo schema è diventato chiaro a maggio 2024 e da allora è diventato
sempre più chiaro poiché l’IDF ha sistematicamente distrutto la Striscia di
Gaza».
La
strategia della distruzione totale
Secondo
i dati raccolti, oltre il 70 per cento delle strutture di Gaza è stato
distrutto o danneggiato. La stima dei morti supera i 58.000, di cui almeno
17.000 bambini. Oltre 2.000 famiglie sono state completamente cancellate. Gaza
detiene oggi un primato grottesco: stato distrutto o danneggiato.
Gaza detiene oggi un primato grottesco: quello del più alto numero di bambini
amputati per abitante del mondo».
Ma
non è solo la distruzione materiale a essere sotto accusa. È il piano che guida
la demolizione. Dopo la rottura del cessate il fuoco il 18 marzo, l’IDF ha
concentrato la popolazione in tre aree del sud: Gaza City, i campi profughi
centrali e la zona costiera di Mawasi. L’obiettivo, sostiene Bartov, è «rendere
inabitabile la Striscia di Gaza per la popolazione palestinese, costringerla a
fuggire o, non avendo dove andare, annientarne la capacità di esistenza
collettiva».
È
una definizione che non lascia ambiguità: «L’IDF è impegnata principalmente in
un’operazione di demolizione e pulizia etnica». Un tentativo deliberato di
spostamento forzato di popolazione, bombardamenti ripetuti di zone dichiarate
“sicure”, fame come strumento di controllo, e infine la costruzione, parole del
ministro della Difesa Israel Katz, di una “città umanitaria” sulle macerie di
Rafah per 600.000 persone, a cui non sarà permesso di andarsene.
Bartov
lo dice con chiarezza: «Quando un gruppo etnico non ha nessun posto dove andare
e viene costantemente spostato da una cosiddetta zona sicura all’altra,
bombardato e affamato senza sosta, la pulizia etnica può trasformarsi in
genocidio. Questo è avvenuto in diversi genocidi del XX secolo, dagli Herero in
Namibia agli armeni nella Prima Guerra Mondiale, fino all’Olocausto».
Il
collasso della memoria dell’Olocausto
Ma
il cuore del saggio di Bartov, e la sua gravità filosofica, stanno in una
riflessione devastante sul fallimento della cultura della memoria. Le
istituzioni nate per commemorare la Shoah, scrive, «sono rimaste in silenzio.
Nessuna ha lanciato un avvertimento che Israele potrebbe essere accusato di
crimini contro l’umanità, pulizia etnica o genocidio. Questo silenzio ha fatto
beffe dello slogan ‘Mai più’».
Così,
il riferimento all’Olocausto si è trasformato da monito universale a
giustificazione etnica. Il genocidio diventa irrilevante se perpetrato in nome
della propria sopravvivenza. La memoria si piega a ideologia: «Il rischio,
conclude Bartov, è che dopo Gaza non sarà più possibile insegnare e studiare
l’Olocausto come si faceva prima».
Bartov
è impietoso: «Quando coloro che hanno dedicato la loro vita a insegnare
l’Olocausto rifiutano di denunciare la disumanità ovunque essa si manifesti,
essi minano tutto ciò per cui la ricerca e la commemorazione dell’Olocausto
hanno lottato: la dignità di ogni essere umano, il rispetto del diritto, la
necessità di opporsi all’odio».
La
faglia tra studiosi dell’Olocausto e studiosi di genocidio
Questa
catastrofe ha generato una frattura irreparabile anche all’interno del mondo
accademico. Da un lato, una schiera crescente di studiosi di genocidio, tra cui
Francesca Albanese, Raz Segal, William Schabas, Melanie O’Brien, che descrivono
l’operazione israeliana a Gaza come «genocidio assoluto». Dall’altro, storici
della Shoah come Norman Goda e Jeffrey Herf, che denunciano queste affermazioni
come «calunnie antisemite».
Scrive
Bartov: «Discreditare gli studiosi di genocidio che denunciano Gaza come
genocidio mina le basi stesse di questi studi: la necessità permanente di
definire, prevenire, punire e ricostruire la storia del genocidio».
Il
futuro d’Israele e il tramonto della sua autorità morale
La
conclusione è amara. Israele, nato come risposta alla Shoah, sta cancellando
con le proprie mani il credito morale faticosamente accumulato nel secolo
scorso. «La leadership politica e la cittadinanza israeliana», scrive Bartov,
«dovranno decidere se continuare su questa strada disastrosa. Temo che Israele
stia trasformandosi in uno stato d’apartheid autoritario pienamente realizzato.
E questi stati, la storia lo insegna, non durano».
L’unica
possibilità, remota ma salvifica, è che una nuova generazione di israeliani
impari a vivere «non più all’ombra dell’Olocausto come giustificazione
dell’umanità perduta», ma guardando in faccia la realtà: sette milioni di ebrei
e sette milioni di palestinesi condividono la stessa terra. Pace, uguaglianza e
dignità sono l’unico esito possibile per un futuro che non sia costruito sul
sangue.
In
questa prospettiva, conclude Bartov, «Israele dovrà imparare a vivere senza
ricorrere all’Olocausto per giustificare l’inhumanitas.
Questo
non riparerà il dolore inflitto a Gaza. Ma potrebbe, forse, restituire
all’umanità intera un barlume di giustizia».
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