mercoledì 3 settembre 2025

CAPRONI, TRA RICERCA E NEGAZIONE DI DIO

 Il poeta Giorgio Caproni (Livorno 1912 – Roma 1990) testimone delle inquietudini religiose del nostro tempo.


-      - di Giuseppe Oddone

 Intendo percorrere partendo dalla sua ultima opera postuma dal titolo di Res amissa (Cosa Perduta) il percorso o meglio il tormento religioso del poeta Giorgio Caproni, testimone della perdita di fede nella società del nostro tempo, e nello stesso tempo della inquietudine che causa l’assenza di Dio, nonostante tutto sempre cercato in una disperata ed incessante caccia intellettuale. Parto dalla poesia programmatica “Generalizzando” che ben indica la finalità dell’ultima raccolta: Tutti riceviamo un dono. Poi, non ricordiamo più né da chi, né che sia. Soltanto ne conserviamo – Pungente e senza condono – la spina della nostalgia.

E’ lo stesso Caproni che così commenta questi versi: “Puo’ capitare a tutti di riporre così gelosamente una cosa preziosa da perdere poi la memoria non soltanto del luogo dov’è stata collocata, ma anche della precisa natura di tale oggetto… Sarebbe questa volta la caccia al bene perduto. Un Bene del tutto lasciato ad libitum del lettore, magari identificabile, per un credente, con la Grazia visto che esiste una “Grazia amissibile” (che si può perdere) o con chissà che altro del genere”. Questo dono, tuttavia, non è un oggetto tangibile, ma qualcosa di più profondo e indefinibile collegato alla vita stessa, può essere per un credente o anche per un ex credente la presenza di Dio e il suo amore vissuto nella grazia, come suggerisce lo stesso poeta, oppure l’affetto di tante persone, o semplicemente un'occasione o una esperienza che ci ha positivamente segnato. Ma a un certo punto la nostra memoria fallisce: dimentichiamo sia il donatore sia la realtà donata e rimaniamo senza un punto di riferimento preciso. Ma non tutto è perduto. Rimane dentro di noi il calco negativo, il vuoto creato dallo stesso bene perduto, una sensazione, la struggente “spina della nostalgia”, che punge e ferisce. È una nostalgia "senza condono", che non è possibile eliminare. C’è in questa breve poesia molto di Sant’Agostino, il dottore della “grazia”, che non è conquista umana, ma dono divino che si può perdere; versi che ci rimandano al passo delle Confessioni: “Ci ha fatto per Te e il nostro cuore è inquieto, finché non trova quiete in Te”. Si manifesta nella vita un'inquietudine fondamentale, una sorta di vuoto interiore o di desiderio, che è parte della nostra stessa natura. Ma non potresti cercare Dio, se Egli non si fosse già reso presente in qualche modo dentro di te. Questo vuoto non può essere riempito da nulla di materiale o effimero, ma solo da un contatto personale con la sua fonte, cioè Dio. Esperienze di fede Caproni ha vissuto gli anni della sua infanzia in una educazione cristiana.

 E’ testimonianza di tutto questo un suo frammento poetico, datato 1985, dal titolo: La sera alla Foce (Frammento su un ricordo d’infanzia). Egli stesso racconta della sua devozione mariana in pagine bellissime, raccolte in Il mondo ha bisogno dei poeti. Intervista e autocommenti (1948-1990): “Da bambino, volevo tanto bene alla Madonna che, quando me ne regalarono una – tutta bianca, di gesso, forse una statuina della biancoceleste Madonna di Lourdes – mi venne addirittura voglia di costruirle una chiesuola”. La Madonna, stella del mare, cantata nella poesia, fa riferimento all’opera di un pittore francese che Caproni già da bambino conosceva e frequentava: Jean Bourillon, a cui sono dedicati i versi. Un giorno il poeta vide un quadro preparato dall’artista per una festa di Maria, venerata in Liguria in molti piloni devozionali e piccole cappelle sulla riva, con il titolo di Stella del mare. Questa esperienza gli rimase profondamente impressa. Poi la vita gli fece perdere il contatto con Dio, ma rimase sempre il ricordo di quel momento di fede e di grazia. La sera, alla Foce (Frammento di un ricordo d’infanzia) All’amico pittore Jean Bourillon, alla mia infanzia, in memoria La vedevo alta sul mare. Altissima. Bella. All’infinito bella più d’ogni altra stella. Bianchissima, mi perforava l’occhio: la mente. Viva. Più viva della viva punta – acciaiata – d’un ago. Ne ignoravo il nome. Il mare mi suggeriva Maria. Era ormai la mia sola stella. Nel vago della notte, io disperso mi sorprendevo a pregare. Era la stella del mare. Il poeta ricorda con precisione il luogo: La Foce, sul mare di Genova; l’ora, una sera, in cui è già presente il buio della notte; vede una stella alta nel cielo, ma fa un’esperienza che va subito oltre la vista, che tocca la sfera interiore, spirituale e religiosa, avverte misticamente una presenza che perfora l’occhio e la mente, più viva della viva punta acciaiata di un ago, che incide nell’anima e la fa soffrire. Il poeta ne ignora il nome: il mare gli suggerisce Maria. Disperso nel vago della notte il poeta si sorprende a pregare la sua sola Stella. C’è sottesa una citazione del poeta Dante che definisce Maria “la viva stella che lassù vince, come qua giù vinse” (Par. XXIII, 92-93).

Nella seconda parte della poesia, qui non riportata, la stella diventa ancora metafora oltre che di un momento spirituale perduto, del ricordo dell’amico pittore: il poeta sente ora la sua “diffrazione”, la sua spaccatura interiore, l’incombere della morte, si giudica come frantumato e senza identità. Rimane la “spina della nostalgia” per la Vergine Maria e per l’intenso affetto per l’amico ormai definitivamente perduto. Dalla fede cristiana alla negazione dell’esistenza di Dio Il percorso di Giorgio Caproni verso la negazione della presenza di Dio nel mondo non è stato un processo graduale; è stato influenzato da diverse esperienze di vita e dalle sue letture. Il suo ateismo, se così lo si vuol definire, non fu una scoperta serena, ma un'angosciosa ricerca di senso in un universo che sentiva vuoto, un "vuoto" che lo ossessionò in tutta la sua produzione poetica. Tra le vicende personali che hanno senza dubbio influito per creare questa sensibilità interiore è da segnalare la morte della fidanzata Olga Franzoni (1936). Questa perdita prematura e straziante, avvenuta quando il poeta era ancora molto giovane, lo segnò profondamente. La figura di Olga divenne un fantasma ricorrente nella sua opera, un simbolo di una felicità perduta e irrecuperabile. Seguirono poi inoltre le esperienze della seconda guerra mondiale (1940-1945), cui partecipò prima come soldato e dopo l’armistizio come partigiano. L'orrore, la violenza e la brutalità viste in prima persona gli fecero mettere in discussione l'esistenza di un Dio buono e provvidente. Anche la partenza nel 1945 a guerra conclusa da Genova, la città del suo cuore, luogo mitico, sintesi di terra, mare, aria, città operosa e popolata di tanti ricordi e di tante presenze, contribuì ad accrescere il suo senso di solitudine e di sradicamento.

La morte della madre Anna Picchi (1950) fu poi l'evento che, secondo molti studiosi, rappresentò il momento di non ritorno. La madre era stata per lui un faro, un punto di riferimento assoluto. La sua perdita non solo divenne un dolore insopportabile, ma anche la perdita dell'ultimo "luogo sacro" rimastogli, consegnandolo a un vuoto incolmabile. Tutto questo è chiaramente espresso nella poesia Ad portam inferi in cui il figlio immagina di incontrare alla stazione la madre morta in attesa dell’ultima coincidenza per la definitiva destinazione. Ma in un clima di grande tristezza la madre ha perso ormai la sua identità e la memoria degli affetti più cari, del marito e del figlio. Oltre alle sofferenze personali, le letture ebbero un impatto significativo sulla sua visione del mondo. L'influenza di Montale su Caproni è innegabile. La "muraglia" montaliana, che impedisce la visione di ciò che sta "al di là", e il "male di vivere" come condizione esistenziale, risuonano anche nelle sue poesie. Questo pessimismo cosmico e la visione di un mondo senza un senso trascendente contribuirono a rafforzare la convinzione di un dio assente. Senza dubbio anche altri pensatori legati all’ateismo, come Jean-Paul Sartre, che proclamavano l'assenza di Dio e la responsabilità totale dell'uomo, offrirono a Caproni una cornice intellettuale per le sue intuizioni esistenziali. Le sue mature raccolte poetiche pertanto mostrano un universo privo di Dio, con l'uomo che si muove alla sua ricerca in un paesaggio marginale di confine e di solitudine. Tuttavia, il suo non è un ateismo sereno o consolatorio. Caproni non è un ateo convinto o un indifferente, ma un "ateo per disperazione". La sua è una negazione dolorosa, che non spegne la nostalgia per una dimensione spirituale. La sua preghiera, rivolta a un Dio in cui non crede più, è un atto disperato. È una "preghiera all'Assente”, non perché si speri in una risposta, ma perché il dolore di quella mancanza è troppo grande. La sua negazione di Dio non fu quindi una liberazione, ma una condanna: l'obbligo di vivere e morire in un mondo senza speranza di salvezza o redenzione. Tuttavia Caproni “imbroglia le carte” per costringere le persone a riflettere: Dio esiste o non esiste? E se non esiste perché ne senti il bisogno? Egli ritiene che mettere a fuoco questa esigenza sia il compito del poeta. In alcuni casi il poeta esplode nella preghiera rivolta al Dio in cui non sembra credere più, ma che rimane tuttavia un punto di riferimento, l’unico cui possa rivolgere il suo grido disperato. Ma che ho nel petto, cos’è che mi spacca il cuore? Signore, Signore, quanta fame d’amore in me, sempre rimasto inetto a lenire un dolore.

Questo frammento poetico si apre con una constatazione di intensa sofferenza: "Ma che ho nel petto, / cos’è che mi spacca il cuore?". È una domanda rivolta al proprio io, un'interrogazione angosciata che evidenzia un dolore interiore, un senso di smarrimento profondo. La sensazione non è descritta, ma ne sono mostrati gli effetti fisici ("mi spacca il cuore"), rendendo il sentimento ancora più viscerale e profondo. L'invocazione al Signore, ripetuta due volte, non è un'invocazione di fede serena, ma una richiesta d'aiuto, quasi un'accusa a un Dio che non si rende presente. Il cuore del testo è la dichiarazione "quanta fame d’amore in me". Non si tratta di un semplice desiderio, ma di una vera e propria "fame", una necessità fisica e spirituale che lo tormenta. Questo amore mancato per Dio e per gli altri non è solo assenza di un legame specifico, ma è una sete di senso della vita, di un'appartenenza che sembra impossibile raggiungere. Infine il poeta si definisce "inetto a lenire un dolore". Questa è la confessione della propria impotenza. Non solo non riesce a trovare l'amore che cerca, ma è incapace persino di lenire il proprio dolore, di curare la ferita interiore che la mancanza di Dio gli provoca. Egli rimane col cuore spaccato, incapace di reagire. La poesia di Caproni, riflesso della perdita della fede nella società contemporanea La prima e più evidente perdita (Res amissa) da Caproni stesso suggerita, e riscontrata prima in se stesso e poi nella società contemporanea è la perdita della visione cristiana della vita. Anche se nelle sue poesie si incontrano molti simboli cristiani, Cristo è dimenticato, lasciato in disparte, bisognoso lui stesso di salvezza. Nella poesia “Il Pastore” così si esprime: “Proteggete il nostro Protettore. Salvate il Salvatore morente”. Così predicava il Pastore, nel gelo della chiesa vuota, al lucore dell’ultima bugia rimasta accesa sull’Altar Maggiore. Caproni in questa poesia non mette in discussione l'esistenza di Cristo, ma mostra come la fede sia per molti nella società di oggi in crisi e insignificante. Il Pastore non prega Cristo per ottenere una grazia, ma chiede di proteggere Lui, di mantenerlo in vita mentre sta morendo: è una voce che risuona nel gelo fisico e spirituale di una chiesa vuota, mentre l’ultima bugia (bugia nel linguaggio liturgico significa candela, ma il termine è volutamente equivoco, perché qui vuol dire anche menzogna) sta per spegnersi sull’altare. La sua non è una predica, ma la constatazione di una profonda disillusione, dipingendo un quadro dove il sacro è diventato insignificante e l'uomo si trova solo, di fronte a un'immagine divina che ha perso la sua forza salvifica. È un'immagine scarna e disincantata, che riflette il senso di smarrimento del dopoguerra e la crisi spirituale che attraversa il Novecento.

Un'altra poesia, intitolata "Arpeggio" tratta dalla raccolta "Il muro della terra", esprime in pochi versi la stessa profonda disillusione religiosa e sociale. Cristo ogni tanto torna, se ne va, chi l'ascolta... Il cuore della città è morto, la folla passa e schiaccia - è buia massa compatta, è cecità... I primi versi introducono un'immagine di Cristo che ritorna sulla terra, ma il suo avvento non ha più la forza salvifica di un tempo. La frase incompleta, quasi una domanda retorica "chi l'ascolta..." sottolinea l'indifferenza e la solitudine di una figura che non trova più seguaci. Nonostante il suo ritorno, la sua parola non viene accolta, rendendo vana la sua presenza. "Il cuore della città / è morto": Questa è un'immagine forte e quasi fisica della disperazione moderna. La città, intesa come il luogo della civiltà e della vita collettiva, è priva di sentimenti, compassione e spiritualità. Il "cuore morto" simboleggia un'umanità che ha perso la sua vitalità interiore e il senso del sacro. "La folla passa / e schiaccia - è buia massa / compatta, è cecità...": La folla non è più una comunità di individui, ma una massa indistinta e anonima, che" schiaccia" con la sua indifferenza e la sua violenza. Viene descritta come una "buia massa compatta", un'immagine che rimanda a un'umanità priva di luce, coscienza e individualità. L'ultima parola, "cecità", riassume il concetto di un'umanità che non vede, non riconosce e non si cura della presenza del sacro.

In "Arpeggio" Caproni dipinge un quadro di profonda solitudine spirituale. Il ritorno di Cristo non è un momento di redenzione, ma un'occasione sprecata. La figura divina è impotente di fronte all'apatia di un'umanità che si muove in modo meccanico e cieco, senza la capacità di comprendere il suo messaggio di amore e salvezza. La poesia è quindi un amaro lamento sulla perdita di fede e sulla disumanizzazione della società moderna. Un’altra poesia con spunti religiosi, dedicata alla donna amata, tratta da “Cronistoria”, rivela come in un mondo senza Dio ci siano per così dire ancora dei riflessi divini. Ricorderò San Giorgio un giorno senza virtù, e le tue mani aderenti al freddo, qui dove fu quasi una grazia nel buio la cena nella latteria. Ritroverò nella mia chiusa tristezza, il di più che mi hai lasciato: la pia immagine di concordia – la medaglietta con su “Mi Iesu misericordia”. "Ricorderò San Giorgio un giorno senza virtù": i versi di apertura sono enigmatici e fondamentali. Per il poeta è impossibile riconoscere nel giorno di San Giorgio la figura tradizionale del santo cavaliere che uccide il drago ed è il simbolo di virtù, coraggio e vittoria del bene sul male. "Un giorno senza virtù" rovescia completamente questo significato: il mondo è un luogo in cui le grandi gesta e i valori spirituali sembrano aver perso il loro significato. È un giorno ordinario, banale, privo di eroismo e di grazia. Questo verso definisce subito il clima di un'umanità che vive in un'epoca svuotata di valori ideali e spirituali. "E le tue mani aderenti al freddo”. L'immagine delle mani della donna che aderiscono al freddo è un dettaglio fisico e sensoriale molto forte. Le mani non sono semplicemente "fredde", ma "aderenti al freddo", quasi a sottolineare un'unione profonda e inseparabile con la sofferenza e la povertà. Questo freddo non è solo fisico, ma rappresenta anche la durezza, la precarietà e l'assenza di calore affettivo e spirituale del mondo esterno. "Qui dove fu / quasi una grazia nel buio / la cena nella latteria": questo finale di strofa offre una rivelazione. Il "qui" si riferisce a un luogo umile e modesto, non a una chiesa ma a una "latteria", un'ambientazione del tutto quotidiana e non sacra. In questo contesto di povertà e oscurità ("nel buio"), la "cena" diventa un evento straordinario, qualcosa di quasi mistico. L'espressione "quasi una grazia" è significativa: l'autore non usa "una grazia" in senso pieno, ma sottolinea che la salvezza, o un momento di serenità, non proviene da Dio, ma da un gesto umano, semplice e concreto, condiviso con la persona amata. L'amore e la condivisione umana diventano la nuova "grazia" in un mondo che sembra aver perso il contatto con il sacro tradizionale.

Le riflessioni su questa quasi grazia nel buio vengono approfonditi nella seconda strofa. "Ritroverò nella mia / chiusa tristezza, il di più": La "chiusa tristezza" esprime un profondo stato di malinconia e solitudine, un senso di isolamento interiore. Tuttavia, l'amore della donna offre un "di più", ovvero un valore aggiunto, un elemento che va oltre la semplice consolazione. È qualcosa di inatteso e prezioso che si rivela in una vita che sembra non avere prospettive di salvezza. Il cuore della riflessione è "il di più / che mi hai lasciato: la pia / immagine di concordia". L'amore della donna non è solo un sentimento, ma un'eredità spirituale. La "pia immagine di concordia" evoca un senso di pace, armonia e riconciliazione che l'amato ha ricevuto. In un mondo tormentato e caotico, la donna rappresenta l'ordine e la serenità. L'uso della parola "pia" (devota) eleva questo sentimento a un livello quasi religioso, come se l'amore fosse una forma di fede e salvezza. "La medaglietta con su: / 'Mi Iesu Misericordia” è un’immagine commovente e toccante: non solo è un oggetto fisico offerto dalla donna, ma anche un portafortuna e un dono spirituale.

La scritta "Mi Iesu Misericordia" (Mio Gesù Misericordia!) collega l'amore terreno a quello divino. La medaglia diventa la reliquia di un amore che è allo stesso tempo umano e sacro, una mediazione per una via di salvezza. In questo contesto, la misericordia di Cristo si manifesta attraverso l'amore di una donna, che diviene veicolo di speranza e redenzione. Essa non è semplicemente un rifugio dalla sofferenza, ma una forza attiva che salva e trasforma la tristezza in un'opportunità di scoperta spirituale, è l'incarnazione di una grazia e di una speranza che non sono più cercate nel sacro tradizionale. La scomparsa di Dio, la solitudine dell’uomo, la povertà del nostro linguaggio Giorgio Caproni non è un filosofo, ma la sua concezione della vita è condizionata dal nominalismo, ossia dalla convinzione che noi non conosciamo con la nostra ragione la realtà nella sua essenza, o attraverso concetti universali, ma solo attraverso alla nostra esperienza sensibile che coglie soltanto il particolare: “Nessuno è mai riuscito a dire / cos’è, nella sua essenza, una rosa”. La nostra parola non va oltre il dato sensibile, è una voce con cui indichiamo solo una realtà particolare di cui abbiamo esperienza. Ne segue che per lui alcuni concetti universali, come Dio e l’uomo, sono al di fuori della portata della nostra ragione. In una poesia “Aria del tenore” tratta dalla raccolta “Il franco cacciatore” Dio e l’uomo si incontrano con fucile spianato: sono di fronte a pochi passi l’uno dall’altro, immagini di uno stesso destino o di un amore perfetto: si spiano, si amano, si odiano anche, perché l’amore fa di questi scherzi quando è totale, sono inteneriti fratelli, soli in un paesaggio freddo e invernale mentre incomincia a nevicare, due io o misticamente un solo io; ma nessuno dei due vuole per primo scaricare l’arma. Il poeta cacciatore li sorprende di soprassalto in questo atteggiamento: preme a bruciapelo il grilletto della sua arma e li vede cadere insieme sotto la sua raffica. E così conclude: L’urlo che alzarono, mi colpì in petto come piombo. Fuggii. Mi brucia nella memoria, ancora, la mia vile vittoria. Possiamo anche dire che il poeta drammatizza le varie forme del suo io che cerca di comprendere Dio, di conoscere l’uomo, di arrivare ad una conclusione: la vita del resto non è uniforme, ma molteplice e ricca di contraddizioni e di antitesi. Il risultato è una visione di morte: morte di Dio, morte dell’uomo, ferimento di ogni uomo colpito come da una fucilata nel petto, sua fuga e constatazione di una vile vittoria (la morte di Dio e dell’uomo) che continua a bruciare, a far soffrire nella memoria. E così Dio, assente, perduto, morto, ucciso o suicidato, dissolto e scomparso è tuttavia continuamente e dolorosamente dal poeta evocato, cercato, intravisto e visto svanire in qualche buio cantone, in paesi abbandonati, in spazi deserti, in strade dove non passa nessuno, in strani personaggi che appaiono e quando ti avvicini scompaiono.

La sua è una teologia negativa: Dio fugge dalla storia e la coscienza umana lotta contro l’insopprimibile bisogno di trovare un senso per tante iniquità patite. Ma non sa trovare le sue orme: Mio Dio/ Perché non esisti? O quasi facendo il verso a se stesso: Mio Dio, anche se non esisti,/ perché non ci assisti? E’ una ricerca che pretende di far esistere Dio ad ogni costo, perché ne abbiamo un insopprimibile bisogno, che giunge fino alla più religiosa delle bestemmie: “Piaccia o non piaccia!” disse. “Ma se Dio fa tanto,” disse “di non esistere, io quant’è vero Iddio, a Dio io Gli spacco la Faccia…” Nonostante l'apparente disillusione e il senso di vuoto che permeano parte della sua opera, Giorgio Caproni offre al lettore uno stimolo religioso profondo e inatteso. Egli ci invita non tanto a credere, quanto a riflettere, a farci delle domande. La sua poesia è un monito contro ogni forma di pigrizia spirituale, un appello a non accontentarsi di risposte facili o precostituite. E’ un poeta che ci insegna la dignità della ricerca, anche quando essa conduce nel deserto. Esorta a confrontarci con il mistero, con l'ignoto, con il limite della nostra comprensione. Il suo "silenzio di Dio" non è una condanna, ma un punto di partenza per una riflessione più autentica e personale sulla nostra spiritualità. Di fronte a un mondo che spesso banalizza o ignora la dimensione trascendente, Caproni ci spinge a guardare in faccia il vuoto, a sentirne il peso, e proprio in quel vuoto a trovare forse la traccia di un'assenza che è, paradossalmente, una presenza. Il Nulla di Dio può con qualche riserva essere paragonato al Nulla dei mistici cristiani; al Nulla che è pienezza oltre l’essere di cui abbiamo esperienza, all’Invisibile che contiene tutto, al Punto luminoso che ti abbaglia e davanti al quale tu devi chiudere gli occhi senza poterlo fissare (Dante, Par. XXVIII, 16-18). Il Dio cercato da questo poeta rimane tuttavia il dio dei filosofi e dei teologi, non il Dio di Gesù Cristo. Se la presenza di Cristo e la sua parola vengono soffocate ed oscurate da una società materialista ed edonista, noi non possiamo capire né chi è Dio, né chi è l’uomo, cos’è la vita, cos’è la morte, chi sono io, chi sono gli altri, qual è il nostro destino. Per il credente solo Cristo illumina e salva. La lettura di questo poeta ci stimola tuttavia a interrogarci sul senso della nostra esistenza, sulla possibilità di un aldilà, sulla natura del divino. Non offre risposte confortanti, ma la forza di porre le domande giuste, con onestà e coraggio; per molti aspetti può rafforzare la nostra fede nella grazia divina, la res amissa di Giorgio Caproni, il poeta che ha imbrogliato le carte; ha conosciuto la fede cristiana, ha in varie occasioni assistito a celebrazioni liturgiche riflettendo e commentando le omelie dei sacerdoti, ha avuto un funerale religioso. Partecipando alla sepoltura del fratello, la sua preghiera di rito rimane come traccia di una passata educazione cristiana, anche se priva di uno slancio di fede: Ho anch’io detto le mie preghiere di rito. Ma solo Piero, per dirti addio E addio per sempre, io che in te avevo il solo e vero amico, fratello mio. In un'epoca in cui molti cercano certezze immediate, Caproni ci offre il prezioso dono del dubbio fecondo, della ricerca incessante, della consapevolezza che, anche nel più profondo silenzio, l'anelito verso l'infinito rimane una delle più umane e significative avventure dell'anima.

*Assistente nazionale AIMC e UCIIM





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