DELLO STUPORE
Non
sembra ma la scuola e le ferie hanno la stessa essenza: l’incontro con la
meraviglia. Durante le ferie è lo stupore che cerchiamo. In montagna o al mare,
in campagna o in città, in un libro, panorama, volto, vogliamo incantarci. In queste occasioni, che non a caso poi ricordiamo e
raccontiamo, tratteniamo il respiro (si dice «mozzafiato»), per ricevere più
vita. Quale? Quella che appunto ci ispira: ci dà più respiro.
Per
questo abbiamo un senso da cui dipendono gli altri cinque: il senso della
meraviglia. Se non funziona questo senso, la realtà diventa muta, insensata,
neutra. Infatti è la qualità delle relazioni che abbiamo con il mondo che
orienta il nostro individuarci, cioè, scoprire in che cosa siamo unici e
irripetibili.
E
proprio il senso della meraviglia detta la qualità di queste relazioni: si
chiama «attenzione selettiva», un potenziamento dei nostri circuiti neurali
diverso per tutti. Chi non prova stupore cerca stupefacenti: sostanze, non
relazioni ma dipendenze. Pur di appartenere (sentirsi amato) sparisce nelle
cose o negli altri, fino a non sapere più chi è e che cosa vuole.
Chi
invece conosce e allena il «suo» stupore trova sostanza (al singolare), cioè
vita che lo sostiene, legami che lo ispirano e lo individuano, non sparisce
nelle cose e negli altri ma sa stare di fronte al mondo, da protagonista.
A
scuola è difficile rendersene conto, piena com’è di grigiore e disincanto, ma
in fondo la scuola finisce o comincia proprio se finisce o comincia l’incanto.
Perché?
Cominciamo
con un appello in cui a ciascuno sia chiesto: per raccontare quale stupore sei
venuto al mondo? A scuola possiamo dare il buon esempio raccontando l’incanto
che ci ha portato a voler raccontare ad altri la gioia della chimica, della
filosofia, della cucina, dell’arte, dell’elettronica, della biologia, della
meccanica, della matematica e tutte quelle che possiamo definire «materie della
meraviglia», «sostanza del mondo» e non sostanze senza mondo, dipendenze senza
gioia.
Così
avremo un primo appello di «incanti», ogni nome associato al pezzetto di mondo
verso cui sente attrazione e quindi attenzione. Conoscere come e quando un
ragazzo (e in generale una persona) sente di appartenere alla vita e che la
vita gli appartiene è ascoltare una profezia sul suo destino.
Per
questo amo il titolo che l’astrofisica canadese Rebecca Elson ha usato per il
suo libro di poesie «A Responsibilty
to Awe», responsabilità dell’incanto, perché quando veniamo toccati da
qualcosa stiamo già rispondendo (da cui responsabilità) a una chiamata della
vita che vuole cura da noi, alla maniera che ci è più congeniale.
Chi
non prova incanto non può provare amore verso sé stesso e verso la vita, perché
non sa cosa ama e non sa cosa lo chiama. Per questo bisogna raccontare ai figli
e agli studenti dove l’incanto ci ha afferrati, perché loro cercano in noi
prima che una lezione una elezione: scelta, vocazione, destino,
responsabilità.
Perché
avremmo mai dedicato tempo e sforzi a qualcosa purché diventasse la nostra
strada? Per questo un primo appello ben fatto chiede ai ragazzi dove l’incanto
li abbia già afferrati, perché dal «senso della meraviglia» nasce il loro
personalissimo «sentimento della vita»: l’amore per il mondo, per gli altri e
per se stessi, unica reale difesa dalle dipendenze.
Un
ragazzo «irresponsabile» è semplicemente un ragazzo che non è mai stato
chiamato alla vita e dalla vita, e quindi non ha mai potuto rispondere. Per
questo l’appello è il momento più importante dell’orario scolastico: tu,
proprio tu, per quale pezzetto di mondo sarai insostituibile?
E
quindi: per quale stupore sei qui? In fondo quando ci siamo innamorati di
qualcuno, non è stato il suo modo unico di «stare» al mondo che ci ha sedotto?
Alexandra Horowitz, docente di psicologia alla Columbia University, ha scritto
un libro, On looking: eleven walks with expert eyes (Sul vedere: undici
passeggiate con occhi esperti), in cui descrive il medesimo ripetuto e ignorato
percorso, da casa alla scuola della figlia, in undici modi diversi,
semplicemente perché lo percorre ogni volta insieme a una persona con una
vocazione diversa, occhi diversi: un architetto, un biologo… un cane.
Lo
stesso tragitto di sempre diventa memorabile grazie ai modi unici, stupefatti e
quindi stupefacenti, di percorrerlo, cioè di stare al mondo, di prendersene
cura. Come diceva Chesterton non esistono argomenti poco interessanti, ma
persone poco interessate. E allora mi viene da pensare a Van Gogh che abbracciò
tardi la sua vocazione e imparò a dipingere da solo, e in dieci anni il suo
sguardo rivoluzionò l’arte perché nessuno come lui sapeva stare davanti a
girasoli, cipressi, volti, stelle… la stessa «materia» che tutti vedevano da
secoli, ma senza il suo incanto. In una lettera del giugno 1888 chiedeva al
fratello Theo i soldi per comprare tele e colori: «Non è forse la sincerità
della natura a guidarci? E queste emozioni sono talvolta così forti che si
lavora – senza accorgersi che si sta lavorando – e talvolta le pennellate
vengono in successione e con rapporti tra loro come le parole in un discorso o
in una lettera. Ecco perché chiedo sfacciatamente tela e colori. Solo così
sento la vita, quando lavoro a pieno ritmo» (giugno 1888). Lo stupore di un
solo uomo, divenuto vocazione e opere, continua a risvegliare milioni di
addormentati o di ciechi (per questo a scuola facciamo studiare Van
Gogh).
E allora facciamolo bene questo primo appello. Nome per nome, stupore per stupore, destino per destino, vocazione per vocazione.
Chiedere «per raccontare
quale stupore sei venuto al mondo?» a un adolescente è un dovere per noi, come
diciamo che lo è la scuola per lui.
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