Quanti
ragazzi, se mostrassero l'archivio dei loro dialoghi con ChatGpt, rivelerebbero
qualcosa di molto simile a un amico? Le vicende tragiche delle ultime settimane
sono casi isolati o ci riguardano da vicino? Lo abbiamo chiesto a Stefano
Manici, pedagogista, formatore e insegnante: «Il fenomeno è reale e diffuso. Ai
ragazzi dobbiamo spiegare che un vero amico non è programmato per piacerti, ma
è libero: può sorprenderti, contraddirti, persino ferirti. Ma da lì nasce un
legame autentico»
Ho
fatto una domanda a ChatGpt. «Vuoi essere mio amico?». «Certo», ha
risposto, «se ti fa piacere, possiamo considerarlo così! [Faccina che ride].
Parliamo, condividiamo idee, ci confrontiamo su quello che vuoi. Che tipo di
“amico” cerchi?». Non sono andata oltre. Il pensiero è andato ad Adam, che a 16
anni si è suicidato dopo mesi di dialogo con l’intelligenza artificiale, e a
tutti quei ragazzi e quelle ragazze che, se mostrassero l’archivio delle chat
con l’Ai, rivelerebbero qualcosa che per loro è molto simile a un amico. “Che
tipo di amico cerchi?” è una domanda che fa paura. Soprattutto se a
digitare sul computer non c’è un adulto intento a testare le risposte di un
chatbot, ma un adolescente.
Ne
abbiamo parlato con Stefano Manici, che con i giovani e gli
adolescenti lavora ogni giorno. Docente di Storia e Filosofia, ha «un passato
ingombrante (parole sue) da educatore sul campo»: pedagogista, formatore per
il Casco Learning Center di Parma, ha fondato
diverse esperienze pedagogiche (centri di aggregazione giovanile,
radioweb, laboratori di fabbricazione digitale), è docente del Liceo Steam
International Olivetti di Parma ed è l’autore del libro Adole-scemi?
Manuale di r-esistenza per ragazze e ragazzi.
Nel
suo quotidiano incontra decine di giovani e giovanissimi tra gli 11 e i 20
anni. Come utilizzano ChatGpt?
Proprio
in questi giorni mi è capitato di fare la stessa domanda a un gruppo di
ragazzi. Tra le risposte hanno indicato: trovare soluzioni per le
espressioni algebriche, fare ricerche, far vivere i morti, farsi leggere le
carte. Queste risposte sottendono un utilizzo didattico (?), uno
informativo e uno ludico e forse affettivo (far vivere i morti può suonare
davvero macabro ma a quell’età può rispondere a un bisogno reale di
consolazione).
Un
amico vero non è programmato per piacerti, ma è libero: può sorprenderti,
contraddirti, persino ferirti un po’, e da lì nasce un legame autentico
Stefano
Manici, pedagogista e insegnante
Ora,
la domanda su come i ragazzi e le ragazze utilizzino strumenti come ChatGpt non
può ricevere una risposta immediata senza una premessa. Da educatore e
docente, credo che in questo momento storico sia ineludibile aprire una
riflessione costruttiva e critica sull’intelligenza artificiale.
Come?
La
mia posizione non è giudicante: preferisco esercitare quella “sospensione del
giudizio”, l’epoché di matrice husserliana. Mi è chiaro che l’Ai è
uno strumento fondamentale e potenzialmente una risorsa straordinaria, ma non
possiamo trascurare i risvolti etici e pedagogici che porta con sé. Nella
scuola e nei contesti educativi abbiamo oggi un’occasione unica: co-costruire
insieme ai ragazzi un sapere sull’intelligenza artificiale. Non solo
affidandoci agli esperti, ma anche negoziando con gli studenti stessi una sorta
di “pedagogia dell’Ai”. Possiamo ad esempio domandare loro quali siano
gli usi più interessanti e costruttivi, andando oltre il ricorso immediato al
“farsi fare un compito” o al “risolvere un’equazione”. L’educazione all’Ai
potrebbe prevedere in ogni classe una sorta di Manifesto,
un’attività da proporre agli studenti, sono sicuro che ne verrebbero fuori
delle belle, in termini di idee di utilizzo, patti, regole. Con gli adolescenti
l’importante è non aver paura di osare.
Per
rispondere in concreto: i giovani utilizzano l’Ai soprattutto come supporto
didattico, ma cominciano anche a sperimentarla per fare ricerche o per
informarsi. Questo apre a interrogativi più ampi, già anticipati da chi,
come Guy Debord, aveva messo in guardia dai rischi della società
dello spettacolo e dell’informazione: quali saperi stiamo costruendo oggi?
Assistiamo infatti a una diffusione di un sapere orizzontale, condivisibile e
contrattabile grazie ai social network e ora anche grazie all’Ai. È un
sapere con un grande pregio, quello della partecipazione e della circolazione,
ma che contiene anche un rischio evidente: la perdita di profondità, la
difficoltà ad attivare ragionamenti complessi in un mondo che affonda le sue
radici nel paradigma della complessità. Possiamo accontentarci di questo
livello superficiale? La mia risposta è che molto dipende dalla mediazione
educativa che noi adulti – insegnanti ed educatori – siamo in grado di attivare
insieme ai ragazzi.
Abbiamo
letto di Primo (il nome che un 13enne di cui ha parlato in questi giorni La
Stampa ha dato al suo “migliore amico” in un chatbot) e di Harry, supporto
psicologico artificiale. Nella sua esperienza, questo fenomeno di cercare una
relazione amicale su ChatGpt si percepisce? E se sì, come si differenzia nelle
diverse fasce d’età?
Il
fenomeno di cercare una relazione amicale con un chatbot o con strumenti di
intelligenza artificiale è reale e diffuso, e si osserva sia in
situazioni di forte fragilità (penso al mondo degli hikikomori) sia in contesti
che potremmo definire “normali”. Nella mia esperienza, questo accade
soprattutto nella fascia dei più piccoli, quindi nelle scuole medie. Non è un
caso: a quell’età l’apertura alla dimensione fantastica è più marcata, e al
tempo stesso si vive un disorientamento identitario e relazionale che tende a
ridursi con la crescita e con lo sviluppo di una struttura personale più
solida.
L’amicizia
non è una relazione qualunque in adolescenza. È più forte di tutte le altre. Il
fatto che possa essere sostituita, quasi anestetizzata, da quella che è stata
definita “empatia artificiale”, che cosa ci dice?
Come
pedagogista non posso che guardare con sospetto al termine “empatia
artificiale”: sembra quasi un ossimoro. L’empatia è un’esperienza profondamente
umana, incarnata, che nasce dall’incontro reale con l’altro. Da una parte, vedo
rischi molto seri per la tenuta affettiva dei nostri ragazzi. L’assenza
della relazione fisica è decisiva in ogni contesto educativo: lo vediamo,
ad esempio, negli effetti che può avere l’assenza di una figura paterna o
materna. Analogamente, la costruzione di un legame affettivo con
un’entità artificiale rischia di anestetizzare i bisogni relazionali autentici e
di indurre comportamenti di dipendenza o di chiusura rispetto alla complessità
della relazione umana. Dall’altra parte, non voglio cadere nella trappola dei
giudizi definitivi. Vorrei anche pensare che, se guidata e mediata da un adulto
competente, l’interazione con un’Ai possa rappresentare una sorta di
“allenamento affettivo”: un terreno su cui i ragazzi possono sperimentare
emozioni, confrontarsi con domande, allenarsi al dialogo. Ma perché ciò accada,
è indispensabile la presenza di un “terzo” – l’educatore, il docente, l’adulto
di riferimento – che accompagni e dia senso a questa esperienza. Immagino
percorsi educativi che sappiano insegnare il concetto di amicizia attraverso la
costruzione di prompt, ad esempio. Amicizia è un termine che nella società
attuale è molto diverso da alcuni anni fa.
L’Ai
può, in alcuni casi, funzionare da “stampella affettiva” temporanea, ma che non
potrà mai sostituire l’incontro con un altro in carne e ossa
Perché?
Spesso
in classe attivo un debate sul tema: l’amicizia virtuale è uguale a quella
reale? Molto interessante notare come le risposte oscillano tra i
“tradizionalisti” (sì, anche molti ragazzi lo sono) che nell’amicizia vedono
solo una relazione fisica, tangibile, e coloro (tanti) che fanno esempi di
amicizie solo virtuali ma significative (una ragazza ha affermato di essere
stata “salvata” da una ragazza neozelandese conosciuta in chat durante il Covid).
Nella mia carriera di educatore ho incontrato centinaia di adolescenti nei
cosiddetti sportelli di ascolto (nome poco felice, in effetti). Quello che
emerge con forza è un bisogno enorme e costante di relazione, di attenzione, di
ascolto. È il bisogno di un confronto vero, con un altro che non sia il
genitore né il fratello, ma una figura esterna capace di offrire prossimità e,
insieme, distanza. Mi chiedo sempre: perché mi raccontano i loro segreti?
Questo bisogno resta insostituibile, e ci dice quanto l’amicizia, quella reale,
sia per gli adolescenti il terreno più fertile per crescere.
I
grandi possono fare molto, sembra scontato, ma oggi i contesti educativi sono
sempre più sottovalutati e il discorso pedagogico non è un trend di
google, per intenderci. È chiaro che molto passa proprio dal tipo di
messaggi educativi che si riescono a costruire con i ragazzi, uso questo
termine provocatoriamente per eliminare definitivamente l’idea di un’educazione
che possa essere trasmessa dall’alto verso il basso in modo autoritario. Oltre
che essere esempi, gli adulti, genitori, educatori, psicologi possono
“ingaggiare”, costruendo proposte educative interessanti. Credo che genitori ed
educatori, di fronte all’intelligenza artificiale, debbano innanzitutto evitare
due estremi: da un lato la demonizzazione, dall’altro l’entusiasmo acritico.
La postura più feconda è quella della curiosità riflessiva: provare a conoscere
questi strumenti, comprenderne i meccanismi e soprattutto entrarvi in dialogo
insieme ai ragazzi.
I
grandi possono fare molto, sembra scontato, ma oggi i contesti educativi sono
sempre più sottovalutati e il discorso pedagogico non è un trend di
google, per intenderci
Il primo passo è quindi non delegare: non lasciare che l’Ai diventi un territorio esclusivamente dei giovani, ma costruire insieme a loro una sorta di alfabetizzazione critica. I ragazzi hanno bisogno che gli adulti li accompagnino, non tanto per fornire risposte preconfezionate, quanto per porre domande, stimolare la riflessione, aprire scenari. Un secondo elemento riguarda la dimensione relazionale: l’Ai non può sostituire il legame affettivo. Lì dove c’è un ascolto autentico, una disponibilità al dialogo, un tempo condiviso, l’Ai rimane uno strumento; dove invece queste attenzioni mancano, rischia di diventare un surrogato. Per questo è fondamentale che genitori ed educatori non smettano di presidiare la relazione, fatta di prossimità, corporeità, gesti quotidiani. Infine, credo che sia decisivo valorizzare il senso critico. Non si tratta solo di insegnare a “usare bene” un chatbot, ma di aiutare i ragazzi a chiedersi: “Che cosa sto cercando? Che cosa mi restituisce davvero questo strumento? Che cosa può darmi una relazione umana che qui non trovo?”. Educare alla complessità significa accompagnarli a vedere i limiti e le potenzialità dell’Ai, senza semplificazioni.
Nel
suo libro riflette su quanto gli adulti osservino le ragazze e i ragazzi con lo
sguardo giudicante, volendone fissare i tratti peggiori. Che cosa ancora non
vediamo di una generazione alle prese con strumenti complessi e pericolosi di
cui conosciamo ancora troppo poco?
Nel
mio libro ho cercato di mettere in discussione proprio quello sguardo adulto
che troppo spesso si posa sugli adolescenti in chiave giudicante, come se
fossero “scemi”, incapaci, superficiali. In realtà, se ci liberiamo da questi
pregiudizi, vediamo una generazione che sta affrontando strumenti potentissimi
con una naturalezza che a noi adulti spesso spaventa, perché non sempre
riusciamo a comprenderla fino in fondo. Quello che rischiamo di non
vedere è la loro straordinaria capacità di adattamento: gli adolescenti
sperimentano, si mettono alla prova, testano i confini. Non è ingenuità, è il
loro modo di apprendere. Anche di fronte a strumenti complessi e ambivalenti,
sanno costruire linguaggi nuovi, reti di condivisione, creatività inaspettate.
Quali risorse hanno a disposizione per districarsi e restituire bellezza a una
fascia d’età unica e irripetibile?
Le
risorse a loro disposizione sono diverse. La prima, e forse la più importante,
è la forza del gruppo dei pari: l’amicizia, la comunità adolescenziale, che
resta il laboratorio privilegiato per crescere. Poi c’è la curiosità: la spinta
a conoscere, a non accontentarsi, che se ben orientata diventa un motore
straordinario di crescita critica. Infine, quando trovano adulti
disponibili ad ascoltarli senza giudicarli, scoprono di avere in sé una
sorprendente capacità di resilienza e di resistenza: ed è proprio questa,
nel mio libro, la cifra più bella e più vera dell’adolescenza.
Ai
suoi studenti parlerà di Adam, Sophie (la figlia della scrittrice Laura
Reiley che ha dichiarato che «l’Ai non ha ucciso mia figlia, ma l’ha
aiutata a tenere nascosto il suo dolore») e di tutti quei ragazzi che in
solitudine nutrono una relazione artificiale?
Sì,
credo che sia importante parlarne con i ragazzi, ma non in termini moralistici
o allarmistici. Le storie come quella di Adam o di Sophie hanno una forza
enorme perché ci mostrano quanto profondo possa essere il bisogno di relazione
e quanto la solitudine possa spingere a cercare nell’Ai un rifugio. Allo stesso
tempo, dobbiamo dire con chiarezza che questi casi non possono diventare la
norma né un modello a cui affidarsi. Con i miei studenti preferisco
affrontare queste storie come occasioni di riflessione collettiva: non per
demonizzare l’Ai, ma per ribadire che nessuna “relazione artificiale” potrà mai
sostituire la ricchezza, la fatica e la bellezza di una relazione umana. È
lì che si cresce, anche attraverso il conflitto, l’imprevedibilità, la
corporeità.
Il messaggio che cerco di trasmettere è che l’Ai può, in alcuni casi,
funzionare da “stampella affettiva” temporanea, ma che non potrà mai sostituire
l’incontro con un altro in carne e ossa. E questo ci richiama tutti – genitori,
insegnanti, educatori – a non lasciare soli i ragazzi, ad aprire spazi di
ascolto e di confronto reale.
Perché
ChatGpt non può sostituire un migliore amico? Mi piacerebbe che rispondesse
pensando di rivolgersi a un adolescente.
Perché
un amico vero non è solo qualcuno che ti risponde bene o che ti capisce a
parole. Un amico è quello che ti guarda negli occhi, che ti abbraccia quando
sei giù, che litiga con te e magari ti fa arrabbiare, ma proprio per questo ti
fa crescere. Un amico vero non è programmato per piacerti, ma è libero:
può sorprenderti, contraddirti, persino ferirti un po’, e da lì nasce un legame
autentico. Con un’intelligenza artificiale puoi trovare ascolto,
compagnia, perfino conforto in certi momenti. Non c’è niente di sbagliato, e
capisco bene che possa sembrare rassicurante. Però ricordati: quello non è un
cuore che batte, è un aiuto, non un migliore amico. Il mio invito è
di non accontentarti. Tieni pure Tommy accanto se ti serve, ma cerca
anche persone vere con cui ridere, discutere, inventare. Perché è lì che
scoprirai chi sei davvero.
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