Il
divieto di utilizzare i cellulari a scuola tassativamente voluto dal Ministero
è un’occasione educativa. Se alibi significa «altro qui»
(non ero sulla scena, ero altrove, sono quindi innocente), oggi non ci
accontentiamo più di un alibi, ma ci viviamo dentro: non siamo dove siamo, con
il rischio di non essere chi siamo.
Il cellulare ci rende «innocenti», e non di
reato, ma di realtà (reato e realtà hanno la stessa radice: res, la cosa, il
fatto) e se c’è una «cosa», un «fatto» di cui è bene essere rei, colpevoli, è
proprio la realtà, perché è lì che accade il destino di ognuno, come raccontavo
la scorsa settimana.
Alessandro D’Avenia
L’intreccio
di genetica ed epigenetica rende ciascuno di noi unico, per questo usiamo la
metafora del «trovare il proprio posto nel mondo» o del «sentirsi fuori posto»,
perché nella storia dell’umanità non ci sarà mai nessuno come noi, che ci
piaccia o no. Ma spesso, per pigrizia, per mancanza d’amore, per paura di
questa unicità, viviamo di alibi: schermati da noi stessi e dal mondo. La
realtà non può raggiungerci, con la conseguenza di non scoprire il nostro
destino e la nostra destinazione, e finire per accontentarci o del posto che
altri ci impongono (uni-formarci) o a volere quello che altri già occupano
(con-formarci), con inevitabili crisi e delusioni. In che modo la forzata
sottrazione del cellulare dovrebbe aiutare i ragazzi a trovare il proprio posto
nel mondo?
Il
digiuno da schermo evita la sovra-stimolazione nervosa a cui siamo esposti,
ancor più dannosa per bambini e adolescenti, perché impedisce di stare di
fronte e dentro la realtà proprio quando hanno bisogno di allenarsi a farlo.
Solo i “momenti di essere”, come li chiamava Virginia Woolf per distinguerli da
quelli dettati da routine in cui è come se non ci fossimo, ci rendono unici:
sono momenti in cui non possiamo essere sostituiti da nessuno. Ma questi
momenti richiedono una solitudine non facile da affrontare, perché solitudine
dice vuoto, un vuoto che noi temiamo perché lo confondiamo con il nulla (“non
sono niente di speciale, non c’è alcun posto per me”), mentre soltanto un
recipiente “vuoto” e “integro” (solo ha una radice antica che significava intero)
è “capace”, può essere quindi riempito.
La
dolorosa prova della solitudine apre all’unicità: se penso di non essere
“capace” è semplicemente perché non sono né “vuoto” né “integro”, non ho fatto
esperienza della condizione di “separatezza” (non so che forma ho) che è
costitutiva dell’essere unici, e non in simbiosi, dipendenti, continuando ad
usare il mondo e gli altri narcisisticamente, per contenere la paura.
L’incapacità
di solitudine è letteralmente “in-capacità”, “dis-integrazione”, non posso
incontrare e ricevere il mondo alla mia maniera, per questo mi riempio di
illusioni di destino, alimentate dalla continua esposizione a social e
piattaforme, video e immagini.
Il
divieto di usare il cellulare per cinque o sei ore, trasformato magari in
scelta di libertà da un oggetto con il gesto fisico e consapevole di riporlo in
un contenitore in bella vista in classe, potrebbe restituire un certo gusto per
la solitudine, purché la scuola sia poi un “momento di essere”, il luogo in cui
si incontra ciò che non muore nel mondo (la vita) per sentirsene parte, avere
“un posto”. Insomma un po’ di realtà senza “alibi”, perché la realtà, senza
post-produzione e filtri, è senz’altro più faticosa, ma è capace di darci
proprio quello che ci manca e non quello che ci dicono dovrebbe mancarci.
Sostare (so stare?) nel qui e ora, senza bisogno di raggiungere gli altrove
mentali e digitali per paura, per noia, per tristezza, aiuta a scoprire chi
siamo e che cosa vogliamo. Essere sul luogo - non del reato - ma del reale ci
rende “capaci” e “integri”. La solitudine è il faccia a faccia non narcisistico
con se stessi.
Vedo
tanti ragazzi volersi “mettere” a tutti i costi con qualcuno, “mettiti prima
con te stesso” che con qualcun altro, dico loro, perché non c’è peggior
solitudine della comunione mancata, inevitabile in una relazione dettata solo
dalla paura di rimanere soli. Tutti cerchiamo alibi perché sono tante le
sofferenze, i dolori, le paure da cui fuggire. Vale ancor di più per una
persona in formazione (in cerca della propria forma), il cui vuoto acuisce il
bisogno di fuga dal qui e ora, eppure, proprio lo starci, nel qui e ora, nel
vuoto, fa scoprire la modalità unica in cui la vita si dà in me: sono “capace”
di vita alla mia maniera, come diversa è la forma di un bicchiere (vino, amaro,
birra, acqua...).
Sintetizzo
con le parole che mi scriveva qualche giorno fa una giovane lettrice: “Le
parole del libro mi hanno salvato. Le ho lette in un periodo in cui soffrivo
per noia, mancanza di amicizie, abbandono e altro. Quasi ogni giorno si
concludeva con occhi gonfi e nessuna forza di alzarsi dal letto. Non vedevo
l’ora che tornasse la scuola (che odio più per i professori che per i ragazzi)
solo per avere una routine ed essere obbligata ad alzarmi. Le sue parole mi
hanno fatto capire che c’è speranza, tanta unicità nel mondo, che le persone
non sono tutte uguali. Ho riniziato a vivere, mi ha fatta rinascere”. È stata
proprio la solitudine a salvarla, perché si è aperto lo spazio (capacità) per
un libro, uno spazio che la routine o un cellulare avrebbero tappato, non
riempito.
La
solitudine è relazione, e apre, rende capaci, l’opposto dell’isolamento:
l’isolato (da isola, tutt’altra radice rispetto a solo) si chiude, evita le
relazioni, perché è “uno”, il solitario invece è “unico” come un pezzo del
puzzle, ha fame di legami. Ed è solo tra due “unicità” che può avvenire vera
comunicazione e comunione: intimità. Chi è unico può ricevere la vita: da un
libro, un insegnante, un’ora di chimica... La solitudine è piena di vita,
perché rende capaci di mondo, l’isolamento no. La scuola è il luogo in cui
viene offerto quel mondo, relazioni con ciò che vale.
La
solitudine è unicità, originalità. Per questo mi è sempre piaciuto che nella
famosa parabola dei talenti si dica che ciascuno li riceve “secondo le sue
capacità”: cioè ciascuno riceve vita sulla base di quanta ne può contenere,
tutta quella che può contenere (i talenti non sono le capacità, come semplifica
una certa lettura da predestinazione o da performance, ma la vita che vuole
riempirci alla nostra misura).
E
a proposito di vita piena, ieri la Chiesa cattolica ha proclamato santo Carlo Acutis, un
quindicenne milanese morto di leucemia fulminante nell’ottobre del 2006.
Appassionato di programmazione, internet, videogiochi, cinema, italiano e
storia, stentava in altre materie. Al suo funerale si presentarono degli
sconosciuti: si scoprì che erano i poveri che incontrava nel tragitto
casa-scuola e che aiutava con i suoi risparmi. Sapeva stare nel qui e ora,
senza alibi. Diceva spesso: “Tutti siamo nati originali ma molti muoiono come
fotocopie. Se non vivi a partire dalla tua originalità, sei in pericolo di
morire essendo ciò che non sei”. Lo suggeriva in particolare a un amico che per
imitare lo stile di una star spendeva tanto tempo e denaro. Carlo gli ripeteva
che la cosa più importante non è vivere la vita di qualcun altro ma “essere
contenti di se stessi”. Quell’amico ancora gli è grato per averlo “salvato”:
reso originale, unico. Lo auguro a tutti gli adolescenti ed è possibile, perché
crescere felici è contattare la propria unicità, cioè la propria “solitudine”
che, per quanto scomoda possa sembrare, libera dagli alibi e rende “integri” e
“capaci” di realtà.
Colpevoli di essere reali. Vivi.
Alzogliocchiversoilcielo.
Corriere della Sera
Immagine
Nessun commento:
Posta un commento