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sabato 24 maggio 2025

MORIRE A GAZA

 

La crisi umanitaria a Gaza sta diventando un altro capitolo della vergogna umana nei libri di storia mondiale.


Joseph Kelly*

Questa settimana le Nazioni Unite hanno lanciato uno dei loro più urgenti allarmi sulla crescente crisi umanitaria a Gaza. In quella che molti descrivono come "la fase più crudele" di questa aspra e logorante guerra di logoramento, circa 9.000 camion carichi di aiuti vitali rimangono attualmente bloccati al confine, mentre l'intera popolazione di Gaza – circa 1,2 milioni di persone – è ora a rischio concreto di carestia. Si ritiene inoltre che circa 14.000 bambini siano a rischio di morte perché le loro madri affamate non possono allattarli al seno, e le scorte vitali di farina per fare il pane stanno per esaurirsi. Sono già stati emessi ordini di evacuazione per le poche aree di Gaza rimaste non ancora devastate dal fuoco missilistico, e la maggior parte delle persone ora vive per strada.

Sebbene l'orrore che si sta verificando sia stato creato dalla decisione di Israele di annientare la popolazione di Gaza dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, nella Striscia di Gaza esisteva già una fragilità preesistente che induceva tutti ad avvertire che una dura azione militare avrebbe portato rapidamente a una crisi umanitaria. Al momento dell'attacco di ottobre, si stimava che oltre il 60% della popolazione di Gaza fosse già pericolosamente insicura dal punto di vista alimentare e che i pesanti blocchi alimentari fossero già diventati una realtà. Già nel 2006, quando gli fu chiesto del blocco sistematico e continuo da parte di Israele delle forniture alimentari essenziali a Gaza, il consigliere del governo israeliano Dov Weisglass fu ampiamente citato per aver affermato: "L'idea è di mettere i palestinesi a dieta, ma non di farli morire di fame".

Da quando Israele ha reagito nell'ottobre 2023, la distruzione sistematica e incessante di case, fabbriche alimentari, panetterie, supermercati e delle infrastrutture generali che avrebbero permesso alla popolazione di sfamarsi ha avuto esattamente questo effetto: Medici Senza Frontiere ha stimato che 53.000 palestinesi siano morti e circa 120.000 siano rimasti gravemente feriti nel conflitto. A livello strategico e di autosufficienza, la sovranità alimentare è ora interamente nelle mani degli israeliani: persino i pescatori di Gaza sono stati colpiti regolarmente dalle cannoniere israeliane quando si sono spinti in acque non autorizzate, dove i pesci nuotano più facilmente; la maggior parte del bestiame di Gaza è stata uccisa, i terreni agricoli sono stati resi inutilizzabili dalla guerra e meno di un terzo dei pozzi agricoli è funzionante.

Il resto del mondo è pienamente consapevole di questo genocidio da tempo ormai, ma è stato in gran parte ben disposto a permettere agli israeliani di proseguire, a causa di una combinazione tossica tra la necessità di sostenere un potente alleato e l'oscura sottoscrizione di voler rimuovere un'organizzazione terroristica e la sua cultura di supporto. Come ha sottolineato il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu proprio questa settimana, solo ora viene pressato ad allentare il blocco totale perché gli alleati di Israele non possono tollerare "immagini di carestia di massa".

Fin dal momento in cui è stato sparato il primo colpo, il 7 ottobre, mentre circa 6.000 cittadini di Gaza pesantemente armati si riversavano attraverso il confine tra Gaza e Israele con l'intento di uccidere quante più persone possibile, il governo israeliano si è impegnato a raggiungere solo l'annientamento della popolazione palestinese. Vede questo come l'unico meccanismo sicuro per porre fine ad anni di terrorismo e di attacchi brutali e casuali contro la sua popolazione, con l'ulteriore vantaggio che la proliferazione della tanto contesa Striscia di Gaza riporterà questo prezioso territorio sotto il controllo israeliano. Per Israele, decenni di dialogo e negoziati si sono rivelati infruttuosi e non hanno fatto nulla per rallentare le uccisioni da entrambe le parti; per gran parte del mondo esterno, fino a poco tempo fa, il conflitto di Gaza sembrava solo un'altra guerra civile, fortunatamente in corso nel cortile di qualcun altro.

Forse non sapremo mai esattamente cosa avesse in mente Hamas quando ha lanciato il suo assalto suicida contro il suo vicino molto più potente e spietato, ma la depravata profondità delle atrocità commesse avrebbe prodotto solo una risposta.

Ironicamente, mentre il mondo si fa sempre più frenetico nel condannare ciò che sta accadendo a Gaza in questo momento, è una triste realtà che questa sia in realtà la conseguenza della maggior parte delle guerre: i paesaggi vengono devastati, le città si riducono in polvere e la popolazione tende a morire di fame per strada. Questo è il prezzo che tutti dobbiamo pagare per la nostra incapacità umana di dialogare e di raggiungere compromessi pacifici sulle nostre divergenze.

Il blocco delle forniture alimentari vitali a Gaza è stato al centro delle preoccupazioni umanitarie questa settimana, soprattutto quando gli aiuti sono stati forniti volontariamente e rimangono bloccati al confine di Gaza. L'uso della fame come arma di guerra è severamente vietato dalle Convenzioni di Ginevra e la fame è stata condannata dalla Risoluzione ONU 2417, che invita tutte le parti coinvolte in un conflitto a consentire che cibo e beni di prima necessità fluiscano liberamente alla popolazione civile. Tali aspirazioni sono belle parole scritte in auditorium lontani, ma la realtà della guerra è che la sconfitta di un avversario non sarà perseguita concedendogli un accesso prolungato a forniture essenziali, e chi può determinare in una zona di guerra chi è un civile protetto e chi è un combattente pericoloso?

Ascoltando le proteste e le proteste pubbliche, si potrebbe legittimamente concludere che la nostra popolazione attuale non ha alcun ricordo delle reali realtà della guerra e, a parte le memorie sbiadite di alcuni veterani di guerra sopravvissuti, non ce l'ha.

Uno dei motivi principali per cui abbiamo risoluzioni globali che condannano la fame come arma di guerra è proprio perché è la conseguenza più comune dei conflitti, e alleviare la fame è invariabilmente la prima priorità delle conseguenze della guerra.

Dalla vergogna della carestia irlandese all'eroismo del ponte aereo di Berlino, il cibo – e in particolare la privazione alimentare – è un'arma intrinseca di conflitto, da sempre utilizzata per manipolare o distruggere le popolazioni. Già nel V secolo a.C., il grande generale, stratega e filosofo cinese Sun Tzu descrisse il cibo come un'arma di guerra nel suo epico libro "L'arte della guerra". Oggi, l'UNICEF stima che tra 691 e 783 milioni di persone soffrano di insicurezza alimentare, l'85% delle quali vive in contesti di conflitto armato.

Come ben sanno gli strateghi militari, la fame non colpisce solo i singoli individui affamati, ma distrugge anche popolazioni e infrastrutture con effetti devastanti, con i settori più vulnerabili della società che soffrono maggiormente. Ciò che potrebbe sorprendere molti è che questo particolare crimine di guerra sia spesso oggetto di discussioni aperte e piuttosto sincere, e non solo in tempo di guerra. Per le economie capitaliste di libero mercato, la produzione e il controllo delle fonti alimentari sono uno dei principali strumenti di manipolazione e controllo demografico, sia in tempo di guerra che di pace. È il concetto del cibo come diritto (legato alla ricchezza) che lo trasforma in un'arma ; ma è un altro tipo di concetto di diritto al cibo (giustizia umana) che dovrebbe preoccuparci di più.

Proveniente dall'Argentina, un Paese dedito principalmente all'allevamento, Papa Francesco conosceva bene il cibo come mezzo di liberazione e anche come arma di oppressione. Ha spesso collegato le due contraddizioni: ad esempio, durante la sua prima visita al Programma Alimentare Mondiale nel 2016, ha osservato ironicamente che è uno "strano paradosso" che il cibo spesso non riesca ad arrivare a chi soffre a causa della guerra, mentre le armi sì.

"Di conseguenza, si alimentano le guerre, non le persone. In alcuni casi, la fame stessa viene usata come arma di guerra", ha affermato.

Sempre nel giugno 2016, durante la sua consueta udienza settimanale in Piazza San Pietro, Francesco affermò che il blocco russo alle esportazioni di grano dall'Ucraina, da cui dipendono milioni di persone, soprattutto nei Paesi più poveri, "sta causando grave preoccupazione".

"Per favore, non si usi il grano, un alimento base, come arma in guerra", ha implorato.

Questo è stato il tema ripreso anche dal nostro nuovo pontefice, Leone XIV, mercoledì, durante la sua prima Udienza Generale. Leone ha detto: "Rinnovo il mio appello a consentire l'ingresso di aiuti umanitari dignitosi e a porre fine alle ostilità, il cui prezzo straziante è pagato da bambini, anziani e malati".

Anche il vescovo responsabile per la Terra Santa della Conferenza episcopale cattolica di Inghilterra e Galles, il vescovo Jim Curry, ha seguito l'esempio di Leo e ha affermato, in una dichiarazione rilasciata ieri, riguardo alla situazione di Gaza: "Questo è un disastro umanitario. Gli aiuti disperatamente necessari devono poter entrare a Gaza per essere distribuiti con urgenza ai civili. Il costo umano è intollerabilmente alto, con decine di migliaia di persone stanche, regolarmente sfollate e minacciate dalla fame. Noi abbiamo bisogno di un cessate il fuoco immediato per porre fine alle sofferenze ."

Naturalmente, la tragica realtà è che non ci sarà alcun cessate il fuoco, né fine alle sofferenze della popolazione di Gaza, finché Israele non si sarà assicurato che qualsiasi futura minaccia da parte di Hamas o di gruppi simili sia stata eliminata – e tutti sanno che Israele è risoluto a sostenere che questo obiettivo possa essere raggiunto solo con la completa e totale annientamento dell'intera popolazione della regione. A tal fine, Israele sembra felice di ignorare non solo il diritto internazionale e gli appelli umanitari, ma anche la fondamentale decenza umana e morale. Tentare di negoziare con questa posizione assolutista potrebbe sembrare francamente inutile, ma se si guarda agli Accordi di Oslo del 1993 e del 1995, gli israeliani hanno effettivamente avviato negoziati di pace con i palestinesi (e in effetti con altri paesi arabi ) e sono stati compiuti progressi significativi. La pace sarebbe stata persino possibile se non ci fosse stata l'infiltrazione del governo palestinese da parte di Hamas, un'organizzazione politica nazionalista sunnita islamista palestinese con un'ala militare che molti considerano di fatto un'organizzazione terroristica – e considerando gli abominevoli attacchi del 7 ottobre , chi potrebbe dire il contrario? Certamente, dal punto di vista israeliano, Hamas e il popolo palestinese sono diventati un'unica entità distruttiva.

Più vicino a casa, i Troubles in Irlanda del Nord, apparentemente irrisolvibili, ruotavano attorno ad analoghe ambiguità e confusioni circa il rapporto tra organizzazioni paramilitari estreme e una popolazione civile le cui simpatie non si sarebbero mai potute stabilire. Solo quando la popolazione civile e i paramilitari furono finalmente separati si poté intravedere una via di pace. Si spera che le lezioni apprese dall'Accordo del Venerdì Santo possano aprire qualche speranza di una via d'uscita a Gaza – dopotutto, la giustificazione per le azioni di Israele è che nella nebbia della guerra semplicemente non riesce a distinguere tra terroristi violenti e bambini affamati, e per questo motivo non può permettere che cibo e beni essenziali raggiungano nessuno. Detto questo, si sarebbe potuto pensare a questo punto che le immagini terribili e angoscianti provenienti da Gaza avrebbero lasciato pochi dubbi sul fatto che non stiamo vedendo combattenti assediati che mendicano cibo, ma civili disperati e morenti che hanno urgente bisogno di compassione e cure.

*Joseph Kelly è uno scrittore cattolico e teologo pubblico

Catholic Network


 

 

 

sabato 8 febbraio 2025

SORELLA MORTE




NON AVER PAURA 

NOMINARE

 LA MORTE

  

-        “I modi per annunciare il lutto sono molteplici e variano tra credenti e non credenti, ma tutti, invariabilmente, evitano in ogni modo di parlare di ‘morte’, così si fanno vere e proprie acrobazie letterarie pur di non pronunciare quel termine che ormai è un tabù…”. Su il Libraio la riflessione del biblista Alberto Maggi.

  di  Alberto Maggi*

È sempre doloroso e difficile annunciare la morte di una persona cara. Storditi dall’evento, tanto più se improvviso, i pensieri e i sentimenti vengono come inghiottiti in un vortice di dolore e di pianto, si appanna non solo la vista ma anche l’intelletto. C’è però nel contempo l’impellente necessità di informare del decesso e trovare le parole adatte con cui si possa esprimere il lutto. Allora ci si affida a quanto già sperimentato, collaudato, a frasi stereotipate, perlopiù banali, che però non riescono a esprimere il sentimento e non sono adatte per manifestare il dolore. 

È scomparso

I modi per annunciare il lutto sono molteplici e variano tra credenti e non credenti, ma tutti, invariabilmente, evitano in ogni modo di parlare di “morte”, così si fanno vere e proprie acrobazie letterarie pur di non pronunciare quel termine che ormai è un tabù. Ciò può essere verificato usando uno dei tanti motori di ricerca che si trovano su Internet e digitare “Annunci funebri”. Sono decine, ma in nessuno di essi si dice chiaramente che la persona è morta. Non si muore più, ma si avvisa che il tale “ci ha lasciato”, o “si annuncia la scomparsa…”, o “la dipartita”, o che “è venuto a mancare…”, oppure, in modo alquanto originale, che “è partito per il suo ultimo viaggio…”, o che “è passato a miglior vita…”. Per molti viene anche indicata la modalità della loro uscita dalla scena terrena, avvenuta senza creare troppo scompiglio: “andato via in silenzio, in punta di piedi…”. 

Un angelo in Paradiso

Per i credenti, poi, c’è una vasta gamma di scelta, tra chi annuncia che il loro caro “è stato trasferito in un luogo di pace…” e che, finalmente, “riposa in pace eterna”. Poi ci sono quelli che, sicuri interpreti della volontà divina, sono certissimi che “Il Signore l’ha chiamato…”, o che “l’ha preso…”, o “tolto”, e, dando per scontato che “i più buoni il Signore li vuole con sé”, non esitano ad annunciare che il defunto era “già maturo per l’aldilà…”, o, in caso di persone in giovane età, che “I fiori più belli li vuole il Signore…” o anche “c’è ora un angelo in più in paradiso” (come se al Padreterno non bastassero quelli che già ci sono…). Ciò che accomuna gli annunci funebri, sia laici che religiosi, è il concetto di separazione e distacco: i morti se ne sono andati, scomparsi, o si trovano in un’altra dimensione, sia essa il cielo o altro, che in ogni caso li rende lontani e distanti. 

È tornato alla casa del padre

Attualmente al primo posto tra le persone religiose l’annuncio più amato e gettonato è indiscutibilmente: “è tornato alla casa del Padre…”. Questa pia formula pretende di essere cristiana, ma in realtà non lo è, in quanto ha le sue radici nella filosofia greca secondo la quale le anime, che vivevano beate in cielo, venivano obbligate a scendere sulla terra, in una condizione, quella umana, che vivevano come una prigionia dalla quale desideravano al più presto liberarsi per poter, con la morte, tornare finalmente beate alla loro casa, il cielo appunto. Ma questo non è un messaggio cristiano. Gesù lo ha espresso chiaramente: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Con la morte non si torna alla casa del Padre, perché il credente è la casa di Dio, o in altre parole, con la morte non si va in cielo, perché il cielo è già nella persona che ha accolto Gesù. 

Che la terra ti sia lieve

Negli ultimi anni è tornata di moda, anche tra i cristiani, come omaggio al defunto, usare l’espressione di origine pagana “che la terra ti sia lieve”. Questa formula poetica, in auge soprattutto nel mondo protestante anglosassone, dove i presenti al rito funebre usano gettare una zolla di terra sulla bara calata nella fossa, in realtà per un credente è una contraddizione. Tale espressione, tratta dal latino “sit tibi terra levis”, si trova infatti nei monumenti funebri pagani come affettuoso ossequio verso il morto, ma non ha nulla a che vedere con la certezza cristiana di una vita eterna, cioè di una qualità che la rende indistruttibile e che la morte non interrompe. Per questo i credenti chiamavano il giorno della morte il “giorno della nascita” (“dies natalis”), perché erano certi che non si moriva mai ma si nasceva due volte, e la seconda per sempre. 

 Inoltre, grazie alla diffusione dei social, ormai abbastanza facili da usare per persone di ogni età, oltre all’annuncio funebre vengono ricordati i defunti nei loro anniversari di morte, che non si limitano soltanto al primo, ma che sono anche per quelli che sono morti da trenta, quarant’anni e più. 

Ovunque tu sia

Tutti, immancabilmente, anche nonni e bisnonni, se ne “sono andati troppo presto” e hanno “lasciato un vuoto incolmabile”, il che, se fosse vero, sarebbe alquanto preoccupante. E il ricordo o il saluto, che in questi casi viene rivolto direttamente al defunto, è angosciante: “Ovunque tu sia…”, espressione che dà l’idea di uno smarrimento, come se l’anima fosse spersa e vagasse disorientata nell’immensità dell’universo e chissà dove è andata a finire… Anche questa espressione non può essere considerata appartenente alla spiritualità cristiana. Il credente, quando ricorda o prega la persona cara, non la pensa “ovunque sia”, ma, al contrario, afferma: “tu che sei ovunque!”. Questa è la fede del credente. 

Sorella morte

Con la morte, non più condizionati dalla fisicità, dalla carne, si creano nell’individuo nuove possibilità di relazione che consentono, questo sì, al defunto di essere sempre presente con un amore che non è venuto meno con la morte (“è mancato all’affetto dei suoi cari!”), ma che si è potenziato, perché ora viene trasmesso con la stessa forza dell’amore divino, come il Cristo risorto, che i discepoli non pensavano lontano nei cieli, ma che sperimentavano presente, perché “operava insieme con loro” (Mc 16,20). Per un’autentica spiritualità evangelica occorre riscoprire il valore della morte, che una teologia nefasta presentava in passato come castigo divino per il peccato della prima coppia. Bisogna, come Francesco d’Assisi, collocare invece la morte nella sua giusta dimensione, tra i doni del Signore che, come l’acqua, il sole e la terra, consentono la vita delle persone, per cui anche la morte diventa una sorella. La morte, infatti, non è una privazione, ma al contrario una beatitudine, come scrive l’autore dell’Apocalisse, che proclama addirittura “Beati” i morti (Ap 14,13). La visione evangelica della morte va pertanto sintonizzata con l’insegnamento del Cristo, che annunciando la sua fine arriva ad affermare “È bene per voi che io me ne vada…” (Gv 16,6). La morte di Gesù non significa la sua assenza, ma una presenza ancora più intensa, resa possibile dallo Spirito che dona la capacità d’amare come lui ha amato, permettendo di sperimentare così la sua vivificante vicinanza in modo ancora più potente di quello si è potuto conoscere quando Gesù era in vita. 

Non é più

 Con la morte la persona non si allontana, ma si rende ancora più vicina, per questo è inesatto dire che “non è più!”, ma, al contrario, che “è di più”, perché, come il chicco di grano che cadendo in terra morendo libera tutte le sue energie e si trasforma in una spiga dorata (Gv 12,24), nel momento del trapasso la persona si è incontrata con il Dio-Luce che non l’ha assorbita in sé, ma si è fuso con essa dilatandone l’esistenza in un crescendo senza fine. E potrà così sperimentare “quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, che Dio ha preparate per coloro che lo amano” (1 Cor 2,9) e che ora sono la linfa divina che alimenta la persona che è passata attraverso la morte. Per questo con la morte si continua a crescere e ad amare, e, com’è scritto in un apocrifo del primo secolo cristiano, l’Apocalisse di Baruc: “con la morte si dimorerà nelle altezze di quel mondo là; si sarà simile agli angeli e somiglianti alle stelle, si verrà trasformati in qualsiasi forma si vorrà, di bellezza in grazia, di luce in splendore di gloria” (Ap. Bar. LI,10). 

I morti non sono assenti

 Con la morte non si interrompe la relazione col defunto, ma cambiano le modalità di comunicazione, che diventano via via sempre più intense e rendono consapevoli della presenza della persona amata nella propria vita, come esprime l’antica spiritualità cristiana con una frase, tradizionalmente attribuita a sant’Agostino, secondo il quale “i morti sono esseri invisibili ma non assenti. Noi non li vediamo perché siamo avvolti in una nube oscura, mentre loro sono nella Luce e ci vedono. I loro occhi, pieni di gioia, sono fissi sui nostri, pieni di lacrime. Ci sono vicini, felici, trasfigurati”.

Alzogliocchiversoilcielo



sabato 2 novembre 2024

FARE MEMORIA

Novembre è il mese dei morti, non della morte. 

Ci educa a fare memoria, ci chiede di ripercorrere la trama della nostra vita a partire dalle relazioni e dagli affetti. Coloro che non ci sono più, ci sono stati e, soprattutto, ci sono stati per noi. Anche la nostalgia che nasce dalla loro assenza ci ricorda che ci sono stati, hanno fatto parte della nostra vita. Forse, non andremo più a trovare i nostri morti nei cimiteri, ma dovremo fare della memoria il luogo del nuovo culto dei morti.


 di Marinella Perroni

Biblista


Nell’immaginario collettivo, novembre è il mese dei morti. Compaiono lumini rossi nei supermercati, le zone intorno ai cimiteri si congestionano di traffico, venditori più o meno autorizzati si improvvisano fiorai.

Ma, forse, bisognerebbe ormai usare i verbi all’imperfetto perché, sia pure lentamente e in particolare nelle grandi città, il culto dei morti ha uno spazio nelle nostre vite sempre più ridotto. E, ci dicono, sarà sempre più così per le generazioni successive, per le quali sembra già che i cimiteri non esistano: da diverso tempo, ormai, sociologi e teologi insistono sul fatto che il nostro mondo moderno ha progressivamente preso le distanze dalla morte. Eppure, forse anche perché per molti di noi l’età avanza e perché tutti oggi conosciamo molta gente, la morte ci incalza, la sua impudente prepotenza a volte ci travolge. L’abbiamo “esternalizzata”, ospedalizzata — è vero — ma non è raro che siamo costretti a guardare alla vita a partire dalla morte. “Sorella morte”, sì, ma non per questo meno impegnativa, a volte inattesa, troppo spesso ingiusta. 

In molti modi le religioni hanno cercato di spiegare, lungo la loro storia spesso millenaria, il possibile rapporto tra la morte e la divinità. Un rapporto molto diversificato perché, tra l’altro, fortemente connesso con due fattori decisivi: da una parte, l’aspettativa di vita e dall’altra, ancora più importante, il riconoscimento dato alla persona umana, spesso riservato anche nella morte solo a ricchi e potenti. Dal canto suo, la tradizione biblica ci lascia intravvedere che la morte è “scandalosa”, costituisce cioè un inciampo, un ostacolo nei confronti dell’idea di un Dio unico e, soprattutto, di un Dio benevolo. Non è un caso allora che i miti biblici della creazione, senza preoccuparsi troppo della logica, attribuiscano la colpa della morte agli umani e non a Dio, né può stupire che per Israele le anime non potessero avere dopo la morte nessun rapporto con Dio e vagassero nello Sheol, luogo di silenzio e di tenebra. «Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita» esclama l’autore del libro della Sapienza (11,26). 

Sarà abbastanza tardi e solo in alcuni gruppi religiosi che si farà strada l’idea di una risurrezione, di una vita dopo la morte e sarà proprio da qui che scaturirà la fede dei discepoli del profeta galileo che lo riconosceranno come il Risorto, il primo, la primizia di quanto avverrà per ogni uomo e ogni donna di ogni tempo. «Eliminerà la morte per sempre», aveva profetizzato Isaia (25,8) e il Nuovo Testamento si concluderà con la visione della «tenda di Dio con gli uomini» in cui Egli «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Apocalisse 21,3-4). Gesù lo aveva affermato con forza di fronte all’incapacità dei sadducei di credere nella resurrezione che il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe, cioè il Dio di Israele, «Non è il Dio dei morti, ma dei viventi!» (Matteo 22,32), includendo tra i viventi anche coloro che risusciteranno nell’ultimo giorno. 

Tutta la storia del pensiero umano religioso o no, d’altra parte, è un serrato dialogo con la morte, rabbioso o pacato poco importa. E non può essere che così. 

Novembre, però, è il mese dei morti, non della morte. Ci educa a fare memoria, ci chiede di ripercorrere la trama della nostra vita a partire dalle relazioni e dagli affetti. Coloro che non ci sono più, ci sono stati e, soprattutto, ci sono stati per noi. Anche la nostalgia che nasce dalla loro assenza ci ricorda che ci sono stati, hanno fatto parte della nostra vita. Forse, non andremo più a trovare i nostri morti nei cimiteri, ma dovremo fare della memoria il luogo del nuovo culto dei morti. Dovremo imparare a curarla, anzi, anche a socializzarla. La Chiesa ci ha provato, a suo modo, ma le messe “offerte per l’anima di un defunto” di cui si dice a mezza voce il nome sono ben poca cosa. Dovremmo inventare occasioni, nei nostri luoghi di aggregazione, per elaborare insieme la memoria dei nostri morti. Luoghi in cui celebriamo la vita, non quella astratta, ma quella “nostra”. Perché la memoria dei nostri morti ci aiuta a rendere grazie per ciò che abbiamo avuto e a prendere sulle spalle i pesi gli uni degli altri per quanto, a volte, ci è stato tolto troppo presto. Ciascuno dei nostri morti è stato per noi, nella buona e nella cattiva sorte, presenza, appello, dono. 

In un piccolo libro ormai datato, un grande teologo gesuita tedesco del secolo scorso, Karl Rahner, proponeva brevi ma incisive meditazioni. Una aveva come titolo Dio dei miei morti. Quelli che ciascuno di noi ha amato in vita non possono essere imprigionati nel paese delle tenebre e dell’oblio né a loro può essere negato ogni rapporto con Dio. I nostri morti continuano a parlarci e a raccontarci storie, e quando facciamo memoria di loro ci parlano del “Signore amante della vita”.

 Alzogliocchiversoilcielo

 

venerdì 1 marzo 2024

LA DIGNITA' DELLA FINE

 


- di Massimo Recalcati


Manca in Italia una legge sul fine vita. Non è solo un vuoto legislativo, ma soprattutto un’assenza colpevole della politica ad intraprendere una battaglia finalmente decisa e risolutiva su questo tema.

Non fu così per la legge sul divorzio né per quella sull’aborto per le quali, com’è noto, una ampia mobilitazione delle forze progressiste del nostro paese rese possibile l’acquisizione di quei diritti.

Sul tema del fine vita, invece, un silenzio increscioso. Solo le Associazioni, come quella che porta il nome di Luca Coscioni, o l’intraprendenza coraggiosa di singoli come Marco Cappato, provano in tutti i modi ad allertare il legislatore. Ma non sarebbe compito della politica, nella sua accezione più nobile, porre con forza il problema della tutela della dignità del fine vita in una agenda dei diritti che riguardi finalmente, come accadde anche per il divorzio e per l’aborto, la vita civile di un intero paese e non quello di alcune minoranze (con la precisazione ovvia che una democrazia si valuta soprattutto da come tutela i diritti delle minoranze)?

 Freud aveva affermato, di fronte allo scoppio della prima guerra mondiale, che gli esseri umani si tengono lontani dalla morte, operando una sorta di rimozione collettiva inconscia. Accade come se la dignità della vita alla sua fine dovesse restare fuori discorso, impronunciabile, senza parole possibili, senza spazio di dibattito pubblico, in un tempo maniacale, come il nostro, che vorrebbe, appunto, cancellare la morte dal suo orizzonte. Perché preoccuparsi della fine della vita, di coloro che sono caduti nell’incubo di una malattia incurabile, nello strazio della sofferenza senza speranza, nell’atrocità della mutilazione, nell’immobilità forzata, nell’umiliazione di una vita ridotta a non essere altro che una dolorosa sopravvivenza? Eppure, nella forma umana della vita, la morte non è, come diceva Heidegger, semplicemente l’ultima nota della melodia dell’esistenza, ma una “imminenza sovrastante” che ci accompagna sin dal primo respiro. Essa non è semplicemente qualcosa che attende la vita dal di fuori, ma il nostro destino più proprio. È, dunque, questo destino a renderci profondamente umani. Non dovremmo provare allora, a partire da questo comune destino, a ripensare laicamente la dimensione della fratellanza? Di fronte ad una sofferenza che non conosce possibilità di trattamento, ad una vita mantenuta viva dalle macchine della scienza, ridotta ad un respiro senza desiderio, non siamo chiamati ad un movimento collettivo di solidarietà che non significa solo assicurare le cure anche quando le possibilità terapeutiche sono esaurite, ma donare, a chi lo chiede consapevolmente, il sollievo della morte?

 All’origine dello Stato moderno, Hobbes aveva teorizzato che a fondamento della vita civile vi fosse la paura della morte, la necessità di proteggersi dalla guerra di tutti contro tutti. Se lo stato di natura è quello dell’homo homini lupus, il potere del Leviatano interviene contenendo questa spinta, arginando con la forza del diritto la violenza che spinge gli uni contro gli altri. In primo piano è qui la paura della morte che è all’origine della pulsione securitaria che istituisce la comunità umana come difesa dalla minaccia della violenza: la cessione di una quota di libertà individuale avviene in cambio della protezione della vita. Ma non dovremmo invece pensare in tutt’altro modo il nostro rapporto collettivo con la morte? Non tanto come paura dell’uno nei confronti dell’altro, ma come principio di una più profonda solidarietà umana, nel riconoscersi fratelli che condividono lo stesso destino mortale.

 Come se dovessimo sostituire il Leviatano di Hobbes con il grido di Giobbe, il quale incontra nella sua vita il dramma della caduta e della perdita, dell’ingiustizia atroce della sofferenza. Perché andrebbe ricordato che purtroppo non esiste affatto diritto alla salute, ma solo diritto alla cura.

 Nessun diritto può, infatti, garantire la vita in salute perché il male non può essere governato in modo integrale e la morte non può essere evitata. Ma proprio per questa ragione prendersi cura dovrebbe essere l’atteggiamento fondamentale dell’umano nei confronti del fratello. Siamo tutti uguali di fronte alla signoria della morte, ma esistono limiti nella sopportazione della sofferenza che non possono rispondere a criteri universali.

 Prendersi cura significa considerare questo fatto basilare: di fronte ad un dolore senza speranza e di fronte ad una vita resa disumana dalla malattia, ciascuno ha il diritto di riconoscere il limite sin dove spingere la sua capacità di resistenza, ciascuno ha diritto a riconoscere la propria resa come salvaguardia della sua dignità.

Alzogliocchiversoilcielo- Repubblica

giovedì 1 febbraio 2024

SALIRE SUL MONTE



  L’uomo, afferrato 

dal male di vivere, 

cerca la soluzione «in alto».

 

-         di Alessandro D’Avenia

 

In uno dei suoi Dialoghi con Leucò, libro in cui immagina delle conversazioni tra uomini e dei, Cesare Pavese racconta quella tra Esiodo e la Musa. Il poeta si lamenta dell’insoddisfazione che l’ha spinto a cercare la dea sul monte dove risiede, per trovare «l’ispirazione» che possa rinnovare il suo faticoso vivere: «Provo un fastidio delle cose e dei lavori come lo sente l’ubriaco. Allora smetto e salgo qui sulla montagna».

 L’uomo, afferrato dal male di vivere, cerca la soluzione «in alto». Lì spera possa avvenire l’incontro con il divino che non trova «a valle», perché «la montagna» è la verticalità perduta, è il senso delle cose: andare in alto è andare dentro sé e verso il proprio compimento. Vivere solo in orizzontale, nel ripetersi di giorni e abitudini della scatola del mondo, non basta per essere felici. L’uomo in crisi allora è spinto a «salire». Lo psicanalista e filosofo Carl Jung notava: «Fra tutti i pazienti oltre la mezza età, cioè oltre i 35 anni, non ce n’è uno il cui problema non sia quello della sua dimensione religiosa. Soffre perché ha perduto quello che le religioni hanno donato in ogni tempo ai loro fedeli, e nessuno è guarito se non riacquistando nuovamente la sua attitudine religiosa, il che non ha a che fare con una particolare confessione o chiesa». A che cosa si riferiva? A ciò che la penna di Pavese mette in scena: cercare l’incontro con il divino e rinnovare giorni spenti e atti risaputi. E il suo alter-ego narrativo, Esiodo, che cosa trova sulla montagna?

 Jung, paragonandola alle ore della giornata, divideva la vita in tre fasi. Il «mattino dell’esistenza», cioè giovinezza e prima età adulta, è il periodo in cui si sviluppano i tratti fondamentali della personalità, si costruisce un posto nel mondo attraverso un ruolo. Si insegue l’immagine che vogliamo il mondo abbia di noi, la «persona» (maschera in latino), cioè l’identità (sociale) che ci darà sicurezza e riconoscibilità, che risponde alla prima domanda posta da chi non ci conosce: e tu che fai? Il nostro io si struttura e si rassicura in questa immagine-ruolo, che poi dovrà ridimensionare e relativizzare, perché non basterà a dare senso alla vita tutta intera, cioè a salvarci dalla morte. Giunge così la «crisi del mezzogiorno»: non si prova più gioia in ciò che avevamo cercato, si perde energia, ci si sente persi o inquieti, e ci si chiede: tutto qui? In realtà è una richiesta della parte di noi che non abbiamo sviluppato abbastanza se non represso. Vogliamo sapere se esistiamo dietro la maschera, se siamo amati al di là dei ruoli, se possiamo essere al mondo così come siamo e non come dovremmo o vorremmo essere. Se si affronta la crisi e si abbraccia quella che Jung chiama l’ombra (ciò che di noi non accettiamo o non vogliamo vedere, la parte incompiuta di noi), si entra nella terza fase che lo psicanalista definisce «pomeriggio dell’esistenza». C’è chi, a caro prezzo, non inaugura questa fase, ostinandosi a perseguire solo gli obiettivi del mattino, perpetuandone la crisi: immagine, ruolo, affermazione. Quello che il giovane trova al di fuori, l’uomo del pomeriggio deve trovarlo al di dentro, infatti questa tappa che coinvolge maturità e vecchiaia serve a farci aprire alla dimensione più profonda e compiuta del vivere, quella spirituale, che è sinonimo di «libera» e «relazionale», tradotto da Agostino nel famoso «ama e fa’ ciò che vuoi».

È il passaggio dall’ego al sé che ci evita di invecchiare male sviluppando i difetti tipici dell’io mascherato, che vuole continuare a ignorare la morte e la propria non autosufficienza, paure ineludibili che si affrontano solo con l’essere amati, l’amarsi e l’amare. Una condizione che ricorda i tre stadi della vita di Kierkegaard, che definirei «strati» perché non dettati all’età ma dalla scelta. Per il filosofo danese infatti la felicità è nel rendere più profonda la vita, smettendo di cercare fuori ciò che è già in noi: nel primo stadio, estetico, cerchiamo piaceri; nel secondo, etico, doveri: lavoro, matrimonio, figli...; nel terzo, religioso, un senso alle cose, la dimensione spirituale del vivere, che ci fa trovare Dio in noi solo dopo aver dolorosamente scoperto e accettato la nostra non autosufficienza. Non una metafora, non una consolazione psicologica, non un simbolo, ma il fondo e il fondamento della vita a cui oggi non crediamo più.

Quando, nel dialogo di Pavese, la Musa apre gli occhi a Esiodo dicendogli: «Ogni giorno io ti trovo quassù... Ma tu sai che le cose immortali le avete a due passi», il poeta risponde: «Non è difficile saperlo. Toccarle, è difficile». Il poeta, come noi, sente che ciò che raggiunge non basta mai, ci deve essere qualcosa di definitivo, che non si rovina, ma non riesce a toccarlo o a esserne toccato: «E ogni giorno che spunta — dice Esiodo — ti mette davanti la stessa fatica e le stesse mancanze». Allora la Musa gli confida che la risposta è proprio nel quotidiano, lì si trova l’assoluto: «Non capisci che il sacro e il divino accompagnano anche voi, dentro il letto, sul campo, davanti alla fiamma? Giorno e notte, non avete un istante, nemmeno il più futile, che non sgorghi dal silenzio delle origini». L’istante è il luogo dell’eterno. Siamo chiamati a scoprire il divino nel quotidiano, l’infinito nel finito, e la nostra inquietudine è solo nostalgia della gioia d’essere vivi e non solo viventi. Per «toccare» ed «essere toccati» da questa gioia occorre creare lo spazio in cui lo spirito sboccia, contemplazione e ascesi, parole vuote oggi, eppure necessarie a dissotterrare Dio dalla terra di cui siamo fatti. Che cosa vogliamo per un figlio? Oggi rispondiamo «che si realizzi», affidando la vita al progetto «mattutino», ma un figlio è «già» reale.

Potremmo dire, includendo «il pomeriggio», più coraggiosamente «che impari ad amarsi e ad amare», ma la consideriamo una frase sentimentale, salvo poi volere l’educazione sentimentale a scuola (rientra dalla finestra ciò che abbiamo cacciato dalla porta). Sono amato? So amarmi? So amare? Da queste domande dipende il nostro incontro con la vita autentica.

Cesare Pavese si suicidò nell’anno in cui vinse il premio Strega, aveva cercato l’amore nel consenso, e non l’aveva trovato. L’aveva cercato nel lavoro, e non l’aveva trovato. L’aveva cercato nel partito, e non l’aveva trovato. L’aveva cercato in alcune donne sbagliate per lui, e non l’aveva trovato. Nel suo diario che aveva intitolato Il mestiere di vivere annotava: «Il mio cuore è anelante d’attesa, tanto anelante che ne è stanco, stanco». Era così stanco che si procurò il sonno definitivo con i sonniferi che usava, dopo aver scritto l’ultimo messaggio proprio sulla prima pagina di una copia dei Dialoghi con Leucò. A 41 anni si procurò con la forza l’appuntamento con il divino: anche se aveva intuito, proprio in quel libro, che quell’incontro poteva essere a portata di mano. Come il suo Esiodo non seppe trovare ciò che la mente e la penna sapevano: l’eterno è dove sei e in chi sei. Forse per questo quella stessa penna scrisse nell’ultimo pensiero del suo diario: «o Tu, abbi pietà». Il mestiere di vivere non è forse tutto qui?

 

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giovedì 9 novembre 2023

OGNI ISTANTE E' ETERNITA'

 


Nell’ultimo libro di don Diego Goso il tragicomico dialogo tra un prete e la «mietitrice» di vite umane.

Metti una notte nella camera di un don, un cagnolino e un’ospite sorprendente Il risultato regala sorrisi, ma anche lacrime.

 

-       -  di MATTEO  LIUT

 

Cosa ci direbbe la morte, se, in una pausa della sua incessante attività in questo mondo, potesse fermarsi a parlare con noi? Che ogni piccolo gesto compiuto in vita è destinato a diventare eternità, perché non è lei a dire l’ultima parola sulla nostra esistenza. Un insegnamento suggestivo che don Diego Goso, sacerdote della diocesi di Ventimiglia- Sanremo e autore di numerosi libri sulla vita di fede e sui suoi diversi aspetti, mette al centro del suo ultimo libro: «Quattro chiacchiere con la morte», edito da San Paolo (144 pagine, 14 euro). «Un libro che vi piacerà da morire», recita il sottotitolo. E il pensiero va subito a qualcosa di leggero, divertente, ironico. E in effetti la penna di don Goso accompagna con tono scanzonato il lettore in questo “viaggio notturno”, dove i protagonisti sono un sacerdote e la morte stessa. Anzi, Morte. 

La sorpresa iniziale per chi legge è la stessa della voce narrante: un sacerdote, forse non proprio giovanissimo, si sveglia di notte e uscendo dal bagno trova sul suo letto, seduta, niente di meno che una ragazza bellissima: «Una donna. Una giovane donna. Sui trenta. Capellli biondi, mossi, lunghi fino ai gomiti». La scena è comica, i pensieri del malcapitato prete sono tanti punti di domanda, conditi da razionali considerazioni su quella situazione assurda. Poi il ghiaccio si rompe, si apre il dialogo, la notte in canonica si anima nel segno di un confronto che conduce piano piano a riflettere sul senso più profondo della vita. La lettura è segnata da molti sorrisi ma porta alle lacrime quando don Marco, il protagonista, ritorna con la memoria ad alcune esperienze dolorosissime e angoscianti.

 A ogni dubbio, ogni critica, ogni disperato tentativo di capire Morte risponde senza mai perdere la pazienza. Il confronto si sposta addirittura in salotto, davanti a un po’ di popcorn, che anche il cagnolino del don, Hulk, pare apprezzare. Mentre l’orologio batte le ore della notte, il sacerdote sarà spinto da Morte a scoprire che anche lui, forse, non ha ancora ben intenso quale sia l’orizzonte ultimo della vita. E la sua incomprensione diventa l’icona di tutta la nostra incapacità di trovare un significato alla presenza della morte nelle nostre vite.

 Si scopre così il senso della visita notturna: Morte soffre terribilmente di solitudine, perché nel tempo l’umanità ha imparato a voltare lo sguardo dall’altra parte a cercare di non guardare negli occhi la “mietitrice”, di far finta che dolore e sofferenza non appartengano al nostro cammino esistenziale.

 Mentre Hulk fa amicizia con Morte, don Marco resta sempre più spiazzato dalle risposte di quella ragazza. E non capisce nemmeno che quando nella stanza entra una vecchia scavata e malvestita, orribile allo sguardo, quella è la vita: «Per molti la vita è qualcosa di malato – spiega la morte –. Non dovrebbe essere così ma le scelte dell’umanità sono sempre le stesse, di solito le peggiori».

 E da lì il dialogo si snoda lungo i temi più importanti che gettano uno sguardo sul mondo di oggi, sulle sue piaghe, sul modo di affrontare malattie, incidenti, storture di questo tempo. Piano piano don Marco capisce di dover abbandonare il proprio punto di vista e il lettore con lui, accompagnato lungo un sentiero che toglie il fiato, per la sua bellezza e per il suo fascino, ma anche per la profonda nostalgia che fa provare: nostalgia d’Infinito. «Siete la forma di vita più preziosa ma anche la meno disponibile a diventare ciò che siete destinati ad essere», sentenzia Morte ad un certo punto. 

La notte sfuma e arriva la mattina e così la lettura riporta alla vita di tutti i giorni, ma con una consapevolezza in più: non bisogna temere di parlare della morte, perché essa è una maestra saggia, che ci ricorda dove sta il vero senso di ogni istante della nostra esistenza. E ogni istante è di fatto un pezzo d’eternità.

 www.avvenire.it

Diego Goso, Quattro chiacchiere con la morte, Ed. Paoline


 

sabato 2 settembre 2023

LA DROGA DEI NUOVI ZOMBIE


- di Massimo Recalcati

Alcuni la chiamano droga-zombie. Ne avevo sentito parlare da diverso tempo, ma non avevo mai potuto osservare in presa diretta i suoi effetti. Nel nostro Paese, da quello che mi risulta, non circola ancora. Mi è capitato questa estate in una Seattle dall’aria triste e abbandonata di incontrare le sue vittime in piena downtown. Quello che colpisce è la postura bloccata dei corpi, come colpiti da una paralisi inquietante; corpi sospesi, vivi ma senza vita, marmorizzati, imprigionati in un denso e infernale torpore, immobilizzati, specie di sculture morte, ripiegate su se stesse, accartocciate in posizioni irreali. Come i corpi pietrificati di Pompei in fuga dalla incandescenza della lava: corpi irrigiditi in una sorta di ultimo spasmo di vita, corpi senza scampo, senza più vie di fuga. 

Un micidiale mix

La sostanza è un mix chimico micidiale di due molecole: la xilazina utilizzata per lo più nella medicina veterinaria come prodotto sedativo per animali di grossa mole e il fentanyl, un oppioide sintetico con effetti analgesici. Questi nuovi tossicomani li chiamano zombie. Nei film horror gli zombie appaiono per lo più nella forma dei morti che riprendono imprevedibilmente vita, che ritornano spettralmente dal mondo buio dell’oltretomba alla ricerca di vita umana da sbranare. Nel centro di Seattle, invece, questi giovani zombie apparivano solamente come vite già morte. Non dunque come vite morte che ritornano spettralmente vive, ma come vite vive che appaiono già intaccate dalla morte. Davvero impressionante anche per uno psicoanalista abituato ad avere a che fare anche con le forme più gravi della sofferenza umana. 

Degrado sociale

Lo sfondo il degrado sociale e la povertà, la vita esclusa, schiacciata nell’angolo, lasciata cadere. Quanto è diversa questa droga da quelle che abbiamo già conosciuto? Negli anni Settanta del secolo scorso l’eroina si era configurata come il paradigma trasgressivo dell’intossicazione. L’estasi, il paradiso artificiale, la fuga dalla realtà, ma anche la contestazione nei confronti del sistema, il suo ripudio radicale, la sua condanna senza appello. Distruggersi per non fare parte di un mondo i cui valori erano anarchicamente rifiutati. Quel primo paradigma trasgressivo dell’intossicazione implicava la dissociazione dal conformismo della vita borghese e l’illusione che potesse esistere una vita differente, svincolata dall’ideologia dei consumi e dalla violenza del capitalismo. Abbiamo poi conosciuto un paradigma completamente diverso. È quello iperattivo che trova nella cocaina la sua sostanza ideale. Abbiamo tutti in mente la sulfurea figura di The Wolf of Wall Street di Scorsese, interpretata da uno straordinario Di Caprio. In questo caso la contestazione del sistema ha lasciato il posto alla sua più estrema assimilazione. In primo piano non è più il flash del godimento eroinomane come via di accesso (illusoria) ad un altro mondo, ma l’avidità senza scrupoli e senza tregua di un godimento pienamente omogeno alla pulsione neo-libertina del capitalismo finanziario.

L'illusione

 Il consumo della cocaina non dissocia la vita dal sistema, ma la rende competitiva, rafforza il principio di prestazione, amplifica la volontà di potenza del proprio Io. Mentre l’illusione del paradigma trasgressivo dell’eroina consisteva nel raggiungere una forma di vita alternativa a quella del consumatore borghese, quella sostenuta dalla cocaina si definisce come una sorta di corsa maniacale verso un godimento senza limiti. Mentre l’eroina è una droga dell’inconscio, la cocaina è una droga dell’Io. Questo ultimo paradigma della droga-zombie sembra invece introdurci in un universo differente. La contestazione trasgressiva del sistema (eroina) e la sua assimilazione iperattiva (cocaina) ha lasciato il posto ad un altro paradigma. 

L'intossicazione

Quello che la droga zombie mette in luce è che la finalità ultima della droga è sempre una finalità mortifera. Freud aveva parlato a questo proposito del principio del Nirvana: azzerare le tensioni della vita, estinguere la spinta del desiderio, condurre la vita verso lo zero assoluto. La droga zombie dichiara in modo inequivocabile questa finalità ultima dell’intossicazione. Nessun paradiso artificiale, nessuna trasgressione, nessuna critica al sistema. Ma anche nessun potenziamento narcisistico del proprio Ego, nessuna volontà di potenza, nessun godimento neo-libertino. 

Una vita spenta

Quello che resta è solo la vita che rigetta la vita, la vita già morta, la vita bloccata, immobilizzata, la vita senza alcuna avvenire di vita. Si tratta dell’anima più propria dell’intossicazione, della sua vocazione più profondamente nirvanica. È la faccia in ombra della maniacalità neo-libertina. Mentre questa si consuma nella sua spinta avidamente illimitata di consumo, il drogato-zombie ha gettato la spugna, si è ritirato dalla gara perpetua di tutti contro tutti, punta solo ad annientarsi, a ridursi alla dimensione minerale di una scultura senza anima.

 La Repubblica

lunedì 24 luglio 2023

TRE LIBIDO PERICOLOSE

  PICCOLI PASSI VERSO LA BARBARIE

La morte non è solo l’ultimo istante della vita biologica, ma è una forza costantemente all’opera nella nostra vita quotidiana. 

Siamo posti di fronte a un’esperienza umana universale, quella di tre dominanti che agiscono sulle sfere umane dell’amare, dell’avere e del volere.

 

-         di Enzo Bianchi

A più riprese ho cercato di richiamare l’attenzione su una serie di comportamenti quotidiani che ritengo di poter definire “piccoli passi verso la barbarie”: atteggiamenti personali e collettivi che mi paiono minare in profondità la qualità della vita personale e della convivenza civile. Vorrei ora avviare un itinerario di riflessione su questo imbarbarimento strisciante utilizzando come chiave di lettura quelli che la letteratura cristiana antica – ma anche la coeva sapienza ellenistica – chiamava i “vizi capitali” e che invitava a combattere attraverso la “lotta spirituale”. E vorrei farlo attingendo a quei dati della rivelazione cristiana che maggiormente si riallacciano a fenomeni antropologici universali.

La paura della morte

 Il punto di partenza lo collocherei nell’unica fondamentale paura che domina e aliena ogni essere umano: la paura della morte. Essa è alla radice di tutte le altre paure, nonostante nel contesto culturale attuale, specie in occidente, si faccia di tutto per rimuovere la realtà della morte, con il risultato che è proprio lei ad abitare le nostre vite come un’angoscia di cui non sappiamo decifrare il volto. La morte non è solo l’ultimo istante della vita biologica, ma è una forza costantemente all’opera nella nostra vita quotidiana: si manifesta come sofferenza, malattia, separazione, rottura, fine di tutto ciò che per noi è vitale, al punto da causare vere e proprie situazioni di non-vita in chi biologicamente è ancora vivo.

  Mosso dalla paura della morte, l’uomo vuole preservare con qualsiasi mezzo la propria vita, vuole possedere per sé i beni della terra, vuole dominare sugli altri. Egli pensa di assicurarsi in tal modo una vita abbondante, ritiene di poter combattere la morte con l’auto-affermazione, e giunge a considerare ragionevole e giusto ogni comportamento finalizzato a questo scopo, anche a costo di nuocere agli altri e persino a se stesso. E così finisce inevitabilmente per percorrere sentieri di morte…

  Ora, le scienze umane ci insegnano che ogni uomo si costruisce, cresce e matura mediante le relazioni con se stesso, con le cose e con gli altri; d’altra parte, questi stessi rapporti sono costantemente esposti al rischio di tre pulsioni che, se non arginate, possono giungere a possederci e a devastarci. Facendo appello alle potenzialità di volontà e desiderio insite nell’uomo, infatti, la tentazione ne mette in rilievo il “lato oscuro”, e si manifesta come una forza che mira a distorcere in senso egocentrico tutte le sfere relazionali. Siamo posti di fronte a un’esperienza umana universale, quella di tre dominanti che agiscono sulle sfere umane dell’amare, dell’avere e del volere: la dominante dell’eros (libido amandi), la dominante del possesso (libido possidendi), la dominante del potere e dell’affermazione di sé (libido dominandi).

  La libido amandi

 La libido amandi consiste innanzitutto in quell’impulso che ci spinge a sfuggire la fatica, a vivere seguendo unicamente ciò che provoca in noi sensazioni di piacere. A livello collettivo, poi, come dimenticare la tendenza, sempre più diffusa, a risolvere ogni problema mediante la soppressione della fatica fisica – cioè facendo lavorare altri al posto nostro – e a sostituire il sudore della fronte con la tecnica? Questa prima libido trova evidentemente una manifestazione privilegiata nella sfera erotica, dove la perversione del desiderio sessuale può giungere a fare del partner un mero oggetto. Lungi dall’essere ridotto a bisogno da soddisfarsi immediatamente, l’eros dovrebbe invece essere traversato dalla dinamica del desiderio: ciò significa accettare la sfida della differenza e della distanza, restare aperti al rischio dell’incontro con l’altro. La lotta esige qui la capacità di disciplinare la pulsione sessuale per non pervenire a un’assolutizzazione che ne imponga l’immediata soddisfazione; tale cammino può essere agevolato dal recupero della dimensione simbolica dell’eros stesso, oggi soffocata dietro la sua riduzione a immagine spettacolarizzata. Per il cristiano, poi, il dinamismo dell’eros deve ritrovare il suo mistero: mistero di comunione che narra l’amore fedele di Dio; mistero di comunione in cui l’uomo e la donna vivono ed esprimono il loro amore fino a celebrarlo in quella che Giovanni Paolo II osava chiamare la “liturgia dei corpi”.

La libido possidendi

 La libido possidendi è la seduzione esercitata sull’uomo da quella brama del possesso che fa leva sul fascino perverso dell’avere “tutto e subito”; oggi, in particolare, essa assume il volto di una sfrenata idolatria del denaro. A livello socio-politico, si pensi alla brama che porta a sfruttare le risorse del creato a beneficio esclusivo di un’esigua minoranza di persone, incuranti delle enormi sofferenze che ne derivano per tutte le altre. Questa forma di idolatria si manifesta nel considerare il possesso dei beni un fine in sé e nel giustificare ogni mezzo che consenta di accumularne la maggior quantità possibile, contraddicendo la loro destinazione universale. Qui la lotta spirituale esige la capacità di porre una distanza tra sé e le ricchezze, per non cadere nel terribile abbaglio di chi si lascia definire da ciò che possiede; occorre cioè uscire dalla logica angusta e angosciata del “mio” e del “tuo” per entrare nella libertà della condivisione e della comunione dei beni.

 La libido dominandi

La libido dominandi consiste nella ricerca della propria gloria e dell’affermazione di sé a spese degli altri; è quell’inebriante miraggio del potere che induce il singolo a trasformare la propria persona in assoluto. In chi è preda di tale brama svanisce ogni coscienza interpersonale, perché gli altri si trasformano in meri oggetti da dominare e ridurre in proprio potere; e l’esito politico di questa vera e propria malattia sono le forme totalitarie di cui abbiamo fatto tragica esperienza nel XX secolo… La pseudo-cultura che nutre tale brama è quella della concorrenzialità, dell’individualismo esasperato che vede nell’altro solo un ostacolo e un rivale, invece di considerarlo come un dono, una ricchezza, una possibilità di salvezza: salvezza dall’isolamento mortifero e dalla tentazione di farsi “come Dio”, salvezza come pienezza di vita nella fraternità e nella comunione.

 È significativo che nella Bibbia non troviamo tanta insistenza sugli atei, i senza-Dio, quanta ne troviamo sulla tentazione dell’idolatria che colpisce tutti, il credente come chi credente non può o non vuole definirsi. L’uomo abbandonato a sé, l’uomo che ignora o disprezza l’immagine di Dio che abita in se stesso e nel proprio simile, è idolatra, è schiavo di quelle dominanti che penetrano nel cuore umano e ne risvegliano gli elementi deteriori. Ma nessuna tentazione potrà mai distruggere la nostra libertà e la nostra responsabilità, anzi, la lotta contro questo imbarbarimento non potrà che temprarle e arricchirle.

 Enzo Bianchi

Immagine: Chi ha paura della morte?