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giovedì 7 novembre 2024

L'AUTORITARISMO EFFICIENTE

 

Trump e Musk,

 ovvero

 l’avvento

 dell’autoritarismo

 efficiente?





A vincere le elezioni statunitensi è una coppia: Donald Trump e Elon Musk. Una coppia che inquieta non solo per i comportamenti privati ma soprattutto per la convinzione condivisa che la democrazia liberale è ormai un orpello inutile

di Riccardo Bonacina

 Non c’è alcun dubbio, Elon Musk in queste elezioni è stato un fattore determinante per la messa a disposizione della campagna di Trump del suo denaro (è l’uomo più ricco del mondo), della sua piattaforma social, del suo attivismo persino fisico sui palchi della campagna elettorale. Trump il cui ego è da taglia XXXL, l’ha voluto spesso con sé e al momento della prima dichiarazione da neo presidente l’ha definito “Un genio da proteggere”.

Elon Musk non è solo la rivoluzione dell’auto che divorzia dal petrolio con la Tesla, le batterie di nuova generazione anche per le reti elettriche, i settemila satelliti di Starlink che ormai offrono connessione ovunque nel mondo e lo Spazio riconquistato dagli Stati Uniti grazie ai suoi missili e alle sue astronavi. 

Elon Musk, l’imprenditore miliardario, è anche, sempre più, un personaggio-chiave per il sistema America. Lo è nel sistema economico, ma lo è diventato anche per la sicurezza nazionale, (suoi tutti i missili di nuova generazione) e con Trump e la nuova amministrazione che si insedierà a inizio 2025 lo diventerà ancor di più..

Musk ha già creato anche un acronimo per il suo prossimo ruolo: DOGE che sta per Department of Government Efficiency, cioè ministero dell’efficienza. Col quale promette di far risparmiare allo Stato duemila miliardi di dollari ogni anno. Impossibile per gli analisti: il bilancio federale, 6.500 miliardi, è fatto soprattutto di trasferimenti per la sanità degli anziani (Medicare) e dei più poveri e per le pensioni, mentre 850 milioni se ne vanno per la Difesa. Non basterebbe nemmeno licenziare quasi tutti i dipendenti pubblici (e Musk, che quest’anno ha licenziato 14mila addetti Tesla e che, acquistata Twitter, ha cacciato più dei tre quarti del personale, forse sta pensando proprio a questo.

Qui gli interrogativi sono infiniti, come ha sottolineato Massimo Gaggi su “Il Corriere”: “da quelli legali, ministro e imprenditore allo stesso tempo? O un consulente privato con pieni poteri in area pubblica e un inevitabile conflitto d’interessi, visto che lo Stato è cliente e regolamentatore delle sue aziende?”.

Mi spaventa che alla guida di una grande potenza nucleare e di una antica democrazia ci sia una coppia di prepotenti così, prepotenti capaci di instillare violenza e divisioni tramite le piattaforme digitali (X sta diventando una sentina delle peggiori cose). Gli States a guida Trump-Musk in me evocano scenari da Gotham city, dove ogni forma di egoismo ha cittadinanza. Sono noti i comportamenti dei due personaggi che guideranno gli Usa: Elon Musk e l’uso di droghe, il Wall Street Journal riferì di testimonianze dirette di persone che affermano di aver visto Musk consumare droghe come LSD, cocaina, ecstasy e funghi psichedelici durante feste private; Donald Trump e il vizietto del sesso con modelle e pornostar.

Ma più dei comportamenti, spesso immondi, ciò che più ci deve preoccupare è che i progressi dell’intelligenza artificiale stanno convincendo alcuni tycoon del capitalismo digitale, con Musk anche Peter Thiel, co-fondatore di PayPal e Jeff Bezos (Amazon), di cui ricordiamo la scelta di bloccare un articolo con cui il Washington Post di cui è proprietario, si schierava con la Harris, che i meccanismi della democrazia liberale sono ormai obsoleti: meglio un tecno-autoritarismo efficiente, sostenuto dall’intelligenza delle macchine.

Paramento e commissioni parlamentari, i pesi e contrappesi di una democrazia, la magistratura indipendente dal potere esecutivo, l’iper burocratizzazione de processi, una perdita di tempo, un processo inefficiente.

Una convinzione che sempre di più si fa largo anche da noi, sia pure con personaggi più da commedia, e in Europa.

Prepariamoci.

Vita

venerdì 14 giugno 2024

GIORGIA REGINA

 

Il trionfo della Meloni



-         di Giuseppe Savagnone*


Per una volta tutti gli osservatori concordano su un dato di fatto che appare indiscutibile: la vincitrice di queste elezioni europee, in Italia – e non solo in Italia – è Giorgia Meloni.

Ha impostato la campagna elettorale come un referendum, non tanto sul modello di Europa, quanto sulla sua persona – «scrivete Giorgia» – , e l’ha avuto: 2 mln e mezzo di voti, un trionfo.

Voleva un referendum sul suo partito, Fdi, e c’è stato: il 26% delle politiche, indicato alla vigilia come il risultato da confermare, è stato ampiamente superato da un risultato che si avvicina al 29%, il triplo dei voti degli alleati di Forza Italia (9,7%) e Lega (9,1%).

Voleva un referendum sul governo, a più di un anno e mezzo dalla sua entrata in carica, e tutti e tre i partiti che lo compongono escono rafforzati, in percentuale, rispetto alle politiche, dalla tornata elettorale.

Il successo della Meloni è reso più clamoroso se lo si colloca in un quadro europeo che ha visto tutti i partiti di governo più o meno pesantemente sconfitti e che consente perciò alla nostra premier di presentarsi alla guida del G7 come l’unica “anatra saltellante” – come ha scritto Paolo Garimberti – in un consesso di “anatre zoppe”.

 L’astensionismo

Eppure, non mancano, in questo quadro radioso, delle ombre. Per la prima volta, alle elezioni europee è andato a votare meno di un italiano su due degli aventi diritto. La partecipazione si è attestata al 49,7%, cinque punti percentuali in meno rispetto alla precedente tornata elettorale del 2019, quando avevano votato il 54,5%.

 È il punto più basso una linea in continua discesa. Nel 1979, prima elezione a suffragio universale dell’europarlamento, aveva votato oltre l’85% degli italiani. Da allora l’affluenza alle urne ha subito un calo continuo e inesorabile. Il più vistoso è stato quello che dall’81,07% del 1989 – ancora nel quadro della Prima Repubblica – la fece precipitare al 73,60% del 1994, quando si era da poco insediato il primo governo di Silvio Berlusconi. Per scendere poi al 71,02% del 2004, al 65,05% del 2009, al 57,02% del 2014 e al 54,05% del 2019. E ora siamo al 49,69%.

Un calo che corrisponde, del resto, a quello registrato alle politiche che, il 25 settembre 2022, hanno visto un’affluenza alle urne pari al 63,9%, anche in questo caso il dato più basso di sempre, nettamente in diminuzione anche rispetto al 2018, quando ai seggi elettorali si è recato il 72,93% degli aventi diritto al voto.

Per avere un’idea delle proporzioni del fenomeno, si pensi che fino al 1979 la percentuale dei votanti non era mai scesa sotto il 90% e ancora nel 2001era stata dell’81,35%. A quanto pare, la Seconda Repubblica – nata, alla fine del secolo scorso, con la “discesa in campo” di Berlusconi, sull’onda di una reazione nei confronti della Prima e della “casta” che la governava – , ha dato luogo, invece che a un rafforzamento della partecipazione democratica, a un crescente distacco della gente dalla politica.

Qualcuno obietterà che quello dell’8 e 9 giugno è il risultato di elezioni europee, tradizionalmente meno sentite dall’elettorato. Ma proprio queste ultime, come abbiamo prima notato, sono state interpretate in chiave quasi esclusivamente nazionale.

Basti ricordare che il voto alla Meloni era chiesto non per farla andare al Parlamento europeo  – ovviamente impensabile, dato il suo ruolo –  ma per esprimere il consenso alla sua linea politica in Italia.

Le percentuali e i numeri reali

È la riduzione di votanti causata dall’astensionismo a spiegare come mai i tre partiti che compongono la maggioranza di governo, pur mantenendo alte percentuali relative, abbiano in realtà raccolto, in questa tornata elettorale, circa 11 milioni di voti, rispetto ai 13,2 milioni delle precedenti elezioni europee del 2019 (quando non erano tutti e tre insieme al governo), perdendo ben 2,2 milioni di voti. Che non è poco. Col risultato che l’attuale coalizione di governo che, dopo le politiche rappresentava il 24,7% del corpo elettorale, ora è scesa addirittura al 22,7%.

Anche rispetto alle ultime elezioni politiche Fratelli d’Italia, ha sì accresciuto la propria quota percentuale dal 25,98% al 28,81%, ma perdendo qualcosa come 600 mila voti: da 7,3 a 6,7 milioni.

Anche la Lega, pur crescendo dall’8,79% al 9%, ha perso, rispetto alle politiche, 380 mila consensi: nonostante la valanga di 500 mila preferenze per il generale Vannacci. Unico partito nell’attuale maggioranza a rimanere quasi stabile dal punto di vista numerico è Forza Italia.

La fuga del Meridione

A questa flessione, mascherata dalle percentuali (che tengono conto non degli aventi diritto ma solo degli effettivi votanti), si aggiunge un altro motivo che dovrebbe far riflettere chi è al governo, ed è il fatto che l’astensionismo si è verificato soprattutto al Sud.

 In Sardegna e in Sicilia (circoscrizione Isole), ad esempio, si è registrato un tasso di partecipazione del 37,31% mentre nel resto dell’Italia meridionale (circoscrizione Sud) non è andato oltre il 43,73%. Insomma, mentre le altre tre circoscrizioni – quella Nord Occidentale, quella Nord Orientale e quella Centrale hanno superato ampiamente il 50% dei votanti, in queste il 60% degli elettori ha disertato le urne. La gente del Meridione abbandona la politica e lo Stato, da cui non sente rappresentata. E si capisce.

Ha commentato un noto economista, Emanuele Felice, in un articolo intitolato «Il Sud tradito si vendica delle destre. I dubbi di Meloni sull’autonomia»: «Il governo Meloni è uno dei più antimeridionali della storia d’Italia e i cittadini del Sud se ne sono accorti. Hanno ormai capito, innanzi tutto, che l’autonomia differenziata è stata un colpo mortale per il Mezzogiorno. Senza risorse aggiuntive, che non ci sono né potranno esserci, nelle regioni meridionali mancheranno presto i soldi per i servizi essenziali ai cittadini, dai diritti fondamentali al funzionamento dell’amministrazione» («Domani» del 12/6/24).

Proprio in questi giorni il disegno di legge sull’autonomia differenziata, che è già stato approvato al Senato, è in discussione alla Camera, tra incidenti clamorosi e perfino violenze fisiche tra maggioranza e opposizione. E passerà. Ma che cosa implica questo per il rapporto del governo con il Sud?

Due riforme che si contraddicono

Forse la domanda potrebbe essere più radicale: che cosa implica per il nostro paese? I vescovi italiani recentemente hanno messo in guardia: «Il progetto di legge con cui vengono precisate le condizioni per l’attivazione dell’autonomia differenziata rischia di minare le basi di quel vincolo di solidarietà tra le diverse Regioni, che è presidio al principio di unità della Repubblica».

È paradossale che la Meloni, formata a una tradizione politica che sottolinea l’identità e l’unità della Nazione, si stia assumendo la responsabilità storica di una riforma che, a detta di molti, porterà inesorabilmente alla sua disintegrazione. I poteri assegnati alle regioni autonome sono così ampi da renderle ben poco dipendenti dal governo centrale. La nostra presidente del Consiglio insiste sulla necessità di un premierato forte – la «madre di tutte le riforme» – , ma forse dovrebbe chiedersi se questo progetto a lei così caro non sia in rotta di collisione con quello che il suo governo sta di fatto varando, sotto impulso della Lega.

La verità è che nel programma elettorale della destra le due spinte contraddittorie sono state entrambe accolte, allargando il campo dei consensi e portando la coalizione alla vittoria. Ma ora i nodi vengono al pettine. E ad avere la meglio sembra quella di Salvini e Calderoli, realizzando l’originario sogno leghista di un Nord finalmente sganciato dalla palla al piede del Sud e dalla dipendenza da “Roma ladrona”.

Ma così la Meloni rischia di diventare la premier “forte” di un paese diviso tra un Nord che ormai, essendo autonomo, sarà poco vincolato dalle sue decisioni, e un Sud sempre più immiserito e lontano dallo Stato. Il suo sogno – una ragazza di borgata che alla fine diventa regina – potrebbe allora trasformarsi nella triste scoperta di essere la regina del nulla.

*Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura, Arcidiocesi Palermo

www.tuttavia.eu


giovedì 9 maggio 2024

MESSAGGIO ALL'EUROPA

 IL SENSO DELLO STARE INSIEME



-         di MATTEO MARIA ZUPPI
 e MARIANO CROCIATA

-          

Cara Unione Europea, darti del tu è inusuale, ma ci viene naturale perché siamo cresciuti con te. Sei una, sei “l’Europa”, eppure abbracci ben 27 Paesi, con 450 milioni di abitanti, che hanno scelto liberamente di mettersi insieme per formare l’Unione che sei diventata. Che meraviglia! Invece di litigare o ignorarsi, conoscersi e andare d’accordo! Lo sappiamo: non sempre è facile, ma quanto è decisivo, invece di alzare barriere e difese, cancellarle e collaborare. Tu sei la nostra casa, prima casa comune. In questa impariamo a vivere da “Fratelli Tutti”, come ha scritto un tuo figlio i cui genitori andarono fino alla “fine del mondo” per cercare futuro.

Nel cuore un desiderio

Ti scriviamo perché abbiamo nel cuore un desiderio: che si rafforzi ciò che rappresenti e ciò che sei, che tutti impariamo a sentirti vicina, amica e non distante o sconosciuta. Ne hai bisogno perché spesso si parla male di te e tanti si scordano quante cose importanti fai! Durante il Covid lo abbiamo visto: solo insieme possiamo affrontare le pandemie. Purtroppo, lo capiamo solo quando siamo sopraffatti dalle necessità, per poi dimenticarlo facilmente! Così, quando pensiamo che possiamo farcela da soli finiamo tutti contro tutti.

Dagli inizi ad oggi

Non possiamo dimenticare come prima di te, per secoli, abbiamo combattuto guerre senza fine e milioni di persone sono state uccise. Tutti i sogni di pace si sono infranti sugli scogli di guerre, le ultime quelle mondiali, che hanno portato immense distruzioni e morte. Proprio dalla tragedia della Seconda guerra mondiale – che ha toccato il male assoluto con la Shoah e la minaccia alla sopravvivenza dell’umanità intera con la bomba atomica – è nato il germe della comunità di Paesi sovrani che oggi è l’Unione Europea. C’è stato chi ha creduto che le nazioni non fossero destinate a combattersi, che dopo tanto odio si potesse imparare a vivere assieme. Tra quelli che ti hanno pensata e voluta non possiamo dimenticare Robert Schuman, francese, Konrad Adenauer, tedesco, e Alcide De Gasperi, italiano: animati dalla fede cristiana, essi hanno sentito la chiamata a creare qualcosa che rendesse impossibile il ritorno della guerra sul suolo europeo. Hanno pensato con intelligenza, ambizione e coraggio. Non sono mancati momenti difficili, ma la forza che viene dall’unità ha mostrato il valore del cammino intrapreso e la possibilità di correggere, aggiustare, intendersi.

La Comunità Europea venne concepita nel 1951 attorno al carbone e all’acciaio, materie allora indispensabili per fare la guerra, per prevenire ogni velleità di farne uso ancora una volta l’uno contro l’altro. In realtà quei tre grandi uomini, e tanti altri con loro, hanno cercato di più, e cioè la riconciliazione tra i popoli e la cancellazione degli odi e delle vendette.

Trovare qualcosa su cui lavorare insieme, anche solo sul piano economico, come dimostrano i Trattati firmati a Roma nel 1957, è stato l’inizio di un cammino che ha visto poco alla volta nuovi popoli entrare nella Comunità e, dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1989, il cambiamento del nome, nel 1992, in Unione Europea, e l’allargamento, nel 2004, ai Paesi dell’allora Patto di Varsavia, ben dieci in una volta. I problemi non sono mancati, ma quanto sono stati importanti la moneta unica e l’abbattimento delle barriere nazionali per la libera circolazione delle persone e delle merci! Ultimo, l’accordo sulla riforma con il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009.

Il senso dello stare insieme

Cara Unione Europea, sei un organismo vivo, perciò forse viene il momento per nuove riforme istituzionali che ti rendano sempre più all’altezza delle sfide di oggi. Ma non puoi essere solo una burocrazia, pur necessaria per far funzionare organizzazioni così complesse come quella che sei diventata. Direttive e regolamenti da soli non fanno crescere la coesione. Serve un’anima! In questi anni abbiamo visto compiere passi avanti significativi, quando per esempio hai accompagnato alcuni Paesi a superare le crisi economiche, ma abbiamo anche dovuto registrare fasi di stallo e difficoltà. E queste crescono quando smarriamo il senso dello stare insieme, la visione del nostro futuro condiviso, o facciamo resistenza a capire che il destino è comune e che bisogna continuare a costruire un’Europa unita.

Il ritorno della guerra

Perciò, qualche volta ci chiediamo: Europa, dove sei? Che direzione vuoi prendere? Sono questi anche gli interrogativi del Papa: «Guardando con accorato affetto all’Europa, nello spirito di dialogo che la caratterizza, verrebbe da chiederle: verso dove navighi, se non offri percorsi di pace, vie creative per porre fine alla guerra in Ucraina e ai tanti conflitti che insanguinano il mondo? E ancora, allargando il campo: quale rotta segui, Occidente? » ( Discorso, Lisbona, 2 agosto 2023).

In tutti questi anni siamo molto cambiati e facciamo fatica a capire e a tenere vivo lo spirito degli inizi. Dopo un così lungo periodo di pace abbiamo pensato che una guerra su territorio europeo sarebbe stata ormai impossibile. E invece gli ultimi due anni ci dicono che ciò che sembrava impensabile è tornato. Abbiamo bisogno di riprendere in mano il progetto dei padri fondatori e di costruire nuovi patti di pace se vogliamo che la guerra contro l’Ucraina finisca, e che finisca anche la guerra in corso in Medio Oriente, scoppiata a seguito dell’attacco terroristico del 7 ottobre scorso contro Israele, e con essa l’antisemitismo, mai sconfitto e ora riemergente. Lo dice così bene anche la nostra Costituzione italiana: è necessario combattere la guerra e ripudiarla per davvero!

Se non si ha cura della pace, rischia sempre di tornare la guerra. Lo diceva Robert Schuman nella sua Dichiarazione del 9 maggio 1950, che ha dato avvio al processo di integrazione europea: «L’Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra». Egli si riferiva al passato, ma le sue parole valgono anche oggi. L’unità va cercata come un compito sempre nuovo e urgente. Non dobbiamo aspettare l’esplosione di un altro conflitto per capirlo!

Il ruolo internazionale e la tentazione dei nazionalismi

Che ruolo giochi, Europa, nel mondo? Vogliamo che tu incida e porti la tua volontà di pace, gli strumenti della tua diplomazia, i tuoi valori. Risveglia la tua forza così da far sentire la tua voce, così da stabilire nuovi equilibri e relazioni internazionali. Le tue divisioni interne non ti permettono di assumere quel ruolo che dalla tua statura storica e culturale ci si aspetterebbe. Non vedi il rischio che le tue contrapposizioni intestine indeboliscano non solo il tuo peso internazionale ma anche la capacità di far fronte alle attese dei tuoi popoli?

Tanti pensano di potere usufruire dei benefici che tu hai indubbiamente portato, come se fossero scontati e niente possa comprometterli. La pandemia o le periodiche proteste, ultima quella degli agricoltori, ci procurano uno sgradevole risveglio. Capiamo che tanti vantaggi acquisiti potrebbero svanire. Il senso della necessità però non basta a spingere sempre e tutti a superare le divisioni. Alcuni vogliono far credere che isolandosi si starebbe meglio, quando invece qualunque dei tuoi Paesi, anche grande, si ridurrebbe fatalmente al proverbiale vaso di coccio tra vasi di ferro. Per stare insieme abbiamo bisogno di motivazioni condivise, di ideali comuni, di valori apprezzati e Non bastano convenienze economiche, poiché alla lunga devono essere percepite le ragioni dello stare insieme, le uniche capaci di far superare tensioni e contrasti che proprio gli interessi economici portano con sé nel loro fisiologico confrontarsi.

Ha detto Papa Francesco: « In questo frangente storico l’Europa è fondamentale. Perché essa, grazie alla sua storia, rappresenta la memoria dell’umanità ed è perciò chiamata a interpretare il ruolo che le corrisponde: quello di unire i distanti, di accogliere al suo interno i popoli e di non lasciare nessuno per sempre nemico. È dunque essenziale ritrovare l’anima europea » ( Discorso, Budapest, 28 aprile 2023).

Vorremmo che tutti sentissimo l’orgoglio di appartenerti, Europa. Oggi appare distante, a volte estraneo, tutto ciò che sta oltre i confini del proprio Paese. Eppure, le due appartenenze, quella nazionale e quella europea, si implicano a vicenda. La tua è stata fin dall’inizio l’Unione di Paesi liberi e sovrani che rinunciavano a parte della loro sovranità a favore di una, comune, più forte. Perciò non si tratta di sminuire l’identità e la libertà di alcuno, ma di conservare l’autonomia propria di ciascuno in un rapporto organico e leale con tutti gli altri.

Valori europei e fede cristiana

Le nostre idee e i nostri valori definiscono il tuo volto, cara Europa. Anche in questo la fede cristiana ha svolto un ruolo importante, tanto più che dal suo sentire è uscito il progetto e il disegno originario della tua Unione. Come cristiani continuiamo a viva responsabilità; e del resto troviamo in te tanta attenzione alla dignità della persona, che il Vangelo di Cristo ha seminato nei cuori e nella tua cultura. Soffriamo non poco, perciò, nel vedere che hai paura della vita, non la sai difendere e accogliere dal suo inizio alla sua fine, e non sempre incoraggi la crescita demografica.

«Penso – dice il Papa – a un’Europa che non sia ostaggio delle parti, diventando preda di populismi autoreferenziali, ma che nemmeno si trasformi in una realtà fluida, se non gassosa, in una sorta di sovra nazionalismo astratto, dimentico della vita dei popoli. […] Che bello invece costruire un’Europa centrata sulla persona e sui popoli, dove vi siano politiche effettive per la natalità e la famiglia […], dove nazioni diverse siano una famiglia in cui si custodiscono la crescita e la singolarità di ciascuno» ( Discorso, Budapest, 28 aprile 2023).

Il tema dei migranti e le sue implicazioni

Cara Europa, tu non puoi guardare solo al tuo interno. Non si può vivere solo per stare bene, ma stare bene per aiutare il mondo, combattere l’ingiustizia, lottare contro le povertà. Ormai da decenni sei il punto di arrivo, il sogno di tante persone migranti che da diversi continenti cercano entro i tuoi confini una vita migliore. Tanti vogliono raggiungerti perché sono alla ricerca disperata di un futuro. E molti, con il loro lavoro, non ti aiutano forse già a prepararne uno migliore? Non si tratta di accogliere tutti, ma che nessuno perda la vita nei “viaggi della speranza” e tanti possano trovare ospitalità. Chi accoglie, genera vita! L’Italia è spesso lasciata sola, come se fosse un problema solo suo o di alcuni, ma non per questo deve chiudersi. Prima o poi impareremo che le responsabilità, comprese quelle verso i migranti, vanno condivise, per affrontare e risolvere problemi che in realtà sono di tutti. Tu rappresenti un punto di riferimento per i Paesi mediterranei e africani, un bacino immenso di popoli e di risorse nella prospettiva di un partenariato tra uguali. Compito essenziale perché in realtà un soggetto sovranazionale come l’Unione non può sussistere al di fuori di una reciprocità di relazioni internazionali che ne dicano il riconoscimento e il compito storico, e che promuovano il comune progresso sociale ed economico nel segno dell’amicizia e della fraternità.

Compiti e sfide

Cara Europa, è tempo di un nuovo grande rilancio del tuo cammino di Unione verso una integrazione sempre più piena, che guardi a un fisco europeo che sia il più possibile equo; a una politica estera autorevole; a una difesa comune che ti permetta di esercitare la tua responsabilità internazionale; a un processo di allargamento ai Paesi che ancora non ne fanno parte, garanzia di una forza sempre più proporzionata all’unità che raccogli ed esprimi. Le esigenze di innovazione economica e tecnica (pensiamo all’Intelligenza Artificiale), di sicurezza, di cura dell’ambiente e di custodia della “casa comune”, di salvaguardia del welfare e dei diritti individuali e sociali, sono alcune delle sfide che solo insieme potremo affrontare e superare. Non mancano purtroppo i pericoli, come quelli che vengono dalla disinformazione, che minaccia l’ordinato svolgimento della vita democratica e la stessa possibilità di una memoria e di una storia non falsate.

Insieme alle riforme istituzionali democraticamente adottate, c’è bisogno di far crescere un sentire comune, un apprezzamento condiviso dei valori che stanno alla base della nostra convivenza nell’Unione Europea. Ci vuole un nuovo senso della cittadinanza, un senso civico di respiro europeo, la coscienza dei popoli del continente di essere un unico grande popolo. Ne siamo convinti: è innanzitutto questo senso di comunità di cittadini e di popoli che ci chiedi di fare nostro, cara Europa.

Le prossime elezioni

Le prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo e la nomina della Commissione Europea sono l’occasione propizia e irripetibile, da cogliere senza esitazione. Purtroppo, a farsi valere spesso sono le paure e il senso di insicurezza di fronte alle difficoltà. Anche questo andrebbe raccolto e ascoltato per mostrare come proprio tu sia lo strumento e il luogo per affrontare e vincere paure e minacce.

Facciamo appello, perciò, a tutti, candidati e cittadini, a cominciare dai sedicenni che per la prima volta in alcuni Paesi andranno a votare, perché sentano quanto sia importante compiere questo gesto civico di partecipazione alla vita e alla crescita dell’Unione. Non andare a votare non equivale a restare neutrali, ma assumersi una precisa responsabilità, quella di dare ad altri il potere di agire senza, se non addirittura contro, la nostra libertà. L’assenteismo ha l’effetto di accrescere la sfiducia, la diffidenza degli uni nei confronti degli altri, la perdita della possibilità di dare il proprio contributo alla vita sociale, e quindi la rinuncia ad avere capacità e titolo per rendere migliore lo stare insieme nell’Unione Europea.

L’augurio che ti facciamo, cara Unione Europea, è che questa tornata elettorale diventi davvero un’occasione di rilancio, un risveglio di entusiasmo per un cammino comune che contiene già, in sé e nella visione che proietta, un senso vivo di speranza e di impegno motivato e convinto da parte dei tuoi cittadini.

Un nuovo umanesimo europeo

Sogniamo perciò ancora con Papa Francesco: «Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, “un costante cammino di umanizzazione”, cui servono “memoria, coraggio, sana e umana utopia”» ( Discorso, Vaticano, 6 maggio 2016).

Desideriamo che tu incida, che porti gli strumenti della diplomazia. Risveglia la tua forza, fai sentire la tua voce, così da stabilire nuovi equilibri e relazioni internazionali

Il cardinale Matteo Zuppi

La fede ha svolto un ruolo importante, vediamo attenzione alla dignità della persona. Soffriamo nel vedere che hai paura della vita e non la sai accogliere dal suo inizio alla sua fine

Monsignor Mariano Crociata

www.avvenire.it

 

 

venerdì 3 maggio 2024

SCRIVETE GIORGIA ???




 Perché io non scriverò “Giorgia”

 

-         - di Giuseppe Savagnone *

«Se volete dirmi che ancora credete in me scrivete sulla scheda “Giorgia”, perché io sono e sarò sempre una di voi. Il potere non mi cambierà, il Palazzo non mi isolerà».

Lo ha detto la premier e leader di FdI Giorgia Meloni, dal palco della conferenza programmatica del suo partito, a Pescara, annunciando alla platea in delirio dei suoi militanti la decisione «di scendere in campo per guidare le liste di Fratelli d’Italia in tutte le circoscrizioni elettorali» nelle prossime elezioni europee.

 Ma già nel simbolo elettorale di Fratelli d’Italia c’è scritto “Giorgia Meloni”, così come, del resto, in quello della Lega si legge “Salvini Premier” e in quello di Azione “con Calenda”.

 Ancora più eloquente il permanere, nel contrassegno di Forza Italia, dell’intestazione “Berlusconi presidente”, quasi a inverare la barzelletta secondo cui il cavaliere, in vita, avrebbe rifiutato di investire in un sepolcro, considerandosi destinato alla resurrezione, come Gesù.

 A mettere il proprio nome nel simbolo elettorale ci aveva provato anche la segretaria del PD, Elly Schlein, ma la sua proposta ha suscitato nel partito una rivolta che l’ha costretta a fare marcia indietro. L’obiezione, alla fine vincente, è stata che nel Partito Democratico una cosa simile non si era mai fatta e che gli elettori sarebbero rimasti sconcertati. Ma lei ha ceduto a malincuore.

 Il primato dell’ottica nazionale su quella europea

Questa personalizzazione delle liste è già evidente, del resto, nella scelta di ben quattro leader di partito – Meloni per FdI, Schlein per il PD, Tajani per FI, Calenda per Azione – di presentarsi come capilista in tutte o almeno in alcune circoscrizioni. Un fatto unico in Europa e che già di per sé merita una riflessione.

 Perché è chiaro che una simile scelta implica una profonda sfiducia nella lucidità dei propri elettori, ai quali viene fatto balenare, come uno specchietto per le allodole, il nome più prestigioso del partito, mettendolo in cima alla lista dei candidati e spingendo così a votarla.

 Magari aggiungendo, come nel caso della Meloni, uno spot sintetico ed efficace: «Con Giorgia l’Italia cambia l’Europa». Puntando sul fatto che il votante non si renda conto che la sua preferenza, in realtà, sarà inevitabilmente dirottata su qualcun altro, di cui egli  non sa nulla e che non avrebbe mai scelto come suo rappresentante.

 Perché, in realtà, si sa già benissimo che né la Meloni, né la Schlein, né Tajani, né Calenda, metteranno mai piede nel Parlamento europeo. Per impegnarsi a pieno tempo in Europa – come promettono negli spot e negli slogan – dovrebbero rinunciare a farlo in Italia, e ovviamente, per il loro ruolo, non possono né vogliono farlo.

 Il loro intento, nel candidarsi fittiziamente, è solo di attirare voti sul proprio partito e rafforzarlo, nella tornata elettorale dell’8-9 giugno, all’interno dello scenario italiano. 

 Una operazione evidentemente scorretta, che non si verifica in nessuno dei grandi Stati europei, e che Romano Prodi ha definito «una presa in giro dei cittadini», sottolineando che «si chiede agli elettori di dare il voto a una persona che di sicuro non ci va a Bruxelles, se vince. Queste sono ferite alla democrazia».

 Al di là della “presa in giro”, il significato di questo fenomeno, tutto italiano, è alla fine uno solo: la totale strumentalizzazione del problema dell’Europa a quello angustamente nazionale. Quello che conta è vincere in Italia.

 Da qui anche la tendenza, nel dibattito elettorale, a lasciare in secondo piano i problemi specifici dell’Unione europea – quelli che il nuovo Parlamento dovrà  realmente affrontare – , particolarmente urgenti e drammatici in questa congiuntura storica, per puntare su polemiche nostrane che appassionano l’opinione pubblica ed evidenziano il precipitare del livello di consapevolezza politica nel nostro paese.

 «Questa Italia che cambia oggi può cambiare l’Europa», ha detto Giorgia Meloni annunziando la propria candidatura. Proprio la sua scelta – come quella degli altri leader che l’hanno condivisa – induce spontaneamente a pensare: «Speriamo di no!».

 Il futuro dell’Europa dipende infatti dalla possibilità che finalmente i paesi membri escano dalla logica autoreferenziale che ancora appare predominante  e di cui proprio quello  che sta accadendo in Italia è l’espressione più lampante.

 L’avvento del populismo

Si inserisce in questa corsa alla personalizzazione l’inserimento dei nomi dei leader nei simboli elettorali, di cui si parlava all’inizio. Nella Prima Repubblica, fino al 1992, nessun partito ha mai messo il nome del suo leader nel simbolo.

 La politica era basata sul confronto tra visioni diverse – si pensi al conflitto tra quella democristiana e quella comunista -, e chi andava a votare sapeva di stare facendo una scelta di prospettive ideali e di valori.

 Con la fine di questa fase storica, dovuta anche al tramonto delle grandi ideologie, e con l’avvento della Seconda Repubblica, al posto delle idee hanno acquistato sempre più un ruolo centrale i personaggi.

 Così, per la prima volta, nelle elezioni politiche del 1992, si è assistito alla presentazione di una «lista Pannella». Ma la svolta decisiva è stata  in quelle del 2001, quando Berlusconi ha inserito il proprio nome nel simbolo di un partito – Forza Italia – nato da lui e in funzione di lui.

 Scelta emblematica, che ha espresso bene l’avvento di una nuova stagione, in cui è stata la sua persona, più che le sue idee, a condizionare la politica italiana. E le tornate elettorali si sono ridotte a un plebiscito sul suo “personaggio”, con la stessa intensità idolatrato dai suoi fans e detestato dai suoi avversari.

 Significativo il fatto che il suo non fosse un programma politico, valido o meno in sé, ma un personale “contratto con gli italiani”, un appello ad avere fiducia in lui.

 Questo dialogo diretto tra il leader e il “popolo” è tra le novità che hanno segnato l’avvento del populismo in Italia. Mentre venivano sempre più svalutate le mediazioni istituzionali (il parlamento) e culturali (gli intellettuali) – la “casta” – , la figura di Berlusconi è diventata, nell’immaginario collettivo, l’icona delle aspirazioni dell’italiano medio (le donne, i soldi, il successo).

 E nell’italiano medio il cavaliere ha voluto identificarsi mediaticamente, riproducendo la sua carica di umanità e strizzando l’occhio ai suoi vizi (come quando ha pubblicamente giustificato l’evasione fiscale) . “Uno di noi”, vicino alla gente, capace di ascoltare tutti e di comunicare con tutti, mai prigioniero di un ruolo ingessato, anche a costo qualche volta di scandalizzare i suoi interlocutori stranieri con le sue battute e i suoi comportamenti ben poco istituzionali.

 Da qui anche uno stile politico personalistico, insofferente delle regole, considerate inutili fardelli formali, e delle opposizioni, accusate di “remare contro”, soprattutto in costante polemica con la magistratura, vista come un impaccio o una minaccia, invece che come espressione della divisione dei poteri prevista dalla nostra Costituzione.

 L’esempio di Berlusconi non è rimasto isolato. Esso ha contagiato e contaminato il clima politico e continua a condizionarlo fino ad oggi. Tutti i partiti ne sono stati profondamente influenzati, perdendo progressivamente la loro identità. E ne è stata influenzata la gente. Ne vediamo gli effetti. Mai come oggi la politica si è ridotta a una corsa al consenso e al gradimento espresso nei sondaggi.

 Un solo esempio: pochi giorni fa, nel Parlamento europeo, i rappresentanti dei partiti italiani, sia di governo che di opposizione, sono stati gli unici – su 27 paesi – a rifiutarsi, per timore dell’impopolarità, di approvare la proposta del nuovo Patto di stabilità, che potrebbe comportare dei sacrifici e che alla fine anche il governo italiano non ha potuto che sottoscrivere.

 Ma è tutto lo stile del dibattito politico che è molto cambiato, rispetto a quello della Prima Repubblica. Invece di proporre idee, si gridano slogan. Invece di veri programmi, contano i nomi e le facce. Non a caso le prossime elezioni europee vengono presentate spesso come un duello tra due donne, Meloni e Schlein (alla faccia del patriarcato…), che chiedono entrambe fiducia nella loro persona.

 «Scrivete Giorgia»

In questo quadro rientra e spicca per coerenza l’atteggiamento della nostra presidente del Consiglio. Non per nulla, quando è morto il fondatore e padre della Seconda Repubblica, ha voluto il lutto nazionale. Anche per lei, come per Berlusconi, i magistrati sono un ostacolo e, in particolare, quelli di loro che, basandosi sulla legge, «contrastano le misure del governo» relative ai migranti, «remano contro».

 Anche lei, come Berlusconi, non vuole restare prigioniera dell’istituzione: «Io sono fiera di essere una persona del popolo». E anche lei col popolo vuole avere un contatto diretto, senza passare dalle mediazioni (già oggi il Parlamento è praticamente azzerato) che attualmente sono previste dalla Costituzione.

 Tutto previsto: nel programma elettorale della destra si prevedeva la riforma del premierato, al fine di «assicurare la stabilità governativa e un rapporto diretto tra cittadini e chi guida il governo». Non a caso questa viene definita «la madre di tutte le riforme».

 E, se verrà fatta, lo sarà davvero, perché comporterà un radicale stravolgimento della nostra Carta costituzionale, rendendo istituzionale  quel dialogo personale tra il “capo” e il “popolo” che Berlusconi già aveva realizzato mediaticamente e che trasforma il discorso politico in un atto di fede personale.

 L’approccio ideale, in passato, per tutti i totalitarismi, e che oggi si potrà ancora più facilmente realizzare nelle forme nuove consentite dalla realtà virtuale, grazie a cui il leader carismatico diventa un ologramma in cui tutti si riconoscono.

 Rileggiamo le parole del discorso di Pescara: «Se volete dirmi che ancora credete in me scrivete sulla scheda “Giorgia”, perché io sono e sarò sempre una di voi».  Ci sono persone che hanno pianto di commozione, ascoltandole.

 A me sono venute in mente le amare riflessioni che ho espresso in queste righe. E molti elettori, l’8 e il 9 giugno, scriveranno “Giorgia” sulla scheda elettorale. So di essere in minoranza, ma io non lo farò.

 *Scrittore ed Editorialista – Pastorale della Cultura della ‘Arcidiocesi di Palermo

 www.tuttavia.eu

 

ELEZIONI EUROPEE



Alcune questioni cruciali



Benoît Willemaers

Segretario per gli Affari europei del Jesuit European Social Centre di Bruxelles. 


Le elezioni europee del 2024 si svolgeranno da giovedì 6 a domenica 9 giugno, giorni in cui i cittadini degli Stati membri dell’Ue saranno chiamati a eleggere i propri rappresentanti al Parlamento europeo. In un anno caratterizzato da elezioni in molti Paesi chiave – Stati Uniti, Brasile, India, Indonesia, Pakistan, per citarne solo alcuni –, le elezioni europee rappresentano forse un’eccezione, non essendo a carattere nazionale, ma non sono certamente le meno importanti. Infatti, hanno diritto di voto quasi 400 milioni di cittadini europei. Ciò rende tali elezioni seconde a livello mondiale solo a quelle federali indiane, in termini di democrazia rappresentativa. Nella misura in cui influenzano le politiche dell’Ue, il loro impatto è globale: sebbene l’Unione europea non sia più la potenza economica di un tempo, essa appartiene ancora, insieme agli Stati Uniti e alla Cina, a un gruppo molto selezionato di attori che definiscono la politica mondiale.

 Le elezioni europee sono anche un caso unico, in quanto coinvolgono Paesi diversi, con storia, tradizioni e lingue molto differenti. Mobilitano decine, se non centinaia, di partiti politici a livello nazionale, che offrono il loro punto di vista sulle questioni attuali. Riguardano un sistema sovranazionale che collega gli Stati-nazione in una rete di istituzioni e obblighi comuni, per comporre un assetto che è ancora pressoché unico nel suo genere.

 Non si pretende qui di offrire una visione esaustiva di tutta la posta in gioco nelle elezioni europee del 2024. Ovviamente poche pagine non basterebbero. Lo scopo è piuttosto quello di presentare alcune delle sfide che tali elezioni si trovano ad affrontare, di evidenziarne le potenziali ripercussioni e di identificare alcune questioni essenziali per l’Europa di oggi, in una prospettiva cattolica.

 Per che cosa votano gli europei, di preciso?

Innanzitutto, che cosa possono decidere gli elettori europei con il loro voto? È una domanda importante, dal momento che le conseguenze del voto dei cittadini variano molto a seconda del sistema democratico in cui lo si esprime. L’architettura europea è sostanzialmente basata su un sistema di tre attori. Il primo, il Consiglio europeo, riunisce i rappresentanti degli Stati membri (ministri o capi di governo, a seconda dei casi). È allo stesso tempo una istituzione che opera, in un certo senso, analogamente a un presidente dotato di poteri – fissa orientamenti, trova compromessi ecc. – e a una Camera alta, che condivide equamente il potere legislativo con il Parlamento. Questa è l’istituzione meno toccata dalle elezioni europee. La sua legittimità proviene dalle elezioni nazionali, non da quelle comunitarie, e il suo equilibrio politico può essere molto diverso da quello parlamentare. In effetti, il Partito popolare europeo – che attualmente è il gruppo più numeroso in Parlamento – non ha molto potere a livello nazionale, soprattutto nei grandi Paesi. Per il Consiglio, le elezioni europee sono, tutt’al più, un indicatore dello stato d’animo della popolazione, percepito attraverso una prospettiva nazionale.

 Possiamo intendere la Commissione europea come l’organo amministrativo dell’Ue, sebbene sia dotata di competenze solitamente riservate a un governo in un contesto nazionale. La Commissione prepara proposte legislative, aiuta a negoziarne l’adozione da parte del Consiglio e del Parlamento, e poi le attua, anche emanando sotto delega la legislazione secondaria. Dovrebbe essere un attore indipendente e garante dei trattati. Questa neutralità non si ottiene facendola gestire interamente da figure apolitiche, ma piuttosto selezionando figure politiche diverse – in termini di origini nazionali e politiche –, che vengono messe a capo dei settori politici della Commissione, attraverso un processo che coinvolge gli Stati membri, il futuro capo della Commissione e il Consiglio.

 La Commissione risente in misura limitata delle elezioni europee. Una volta selezionati, i potenziali commissari vengono esaminati dal Parlamento, che poi vota per accettare la Commissione che è stata composta. Ciò dà in pratica al Parlamento la possibilità di respingere i candidati, negandone l’approvazione. Si tratta di una scelta che è ben lungi dal costituire una selezione diretta dei commissari attraverso il voto popolare, ma in compenso garantisce un equilibrio tra la legittimità del Consiglio e quella del Parlamento riguardo alla costituzione della Commissione.

 Quanto al presidente della Commissione, le cose vanno in maniera leggermente diversa. In vista delle elezioni del 2014, era invalsa l’idea di dare più peso democratico a tale carica, secondo il sistema dello spitzenkandidat. Di che si tratta? I partiti politici europei presentano un candidato a capo della loro campagna e, a suo tempo, il Consiglio individua come presidente della Commissione il candidato del partito che ha ottenuto più seggi. Così è accaduto ai tempi della Commissione Juncker, nel 2014. Tuttavia, in seguito gli Stati membri, poco convinti del tenore democratico di quella modalità e ancor meno convinti circa Manfred Weber, allora candidato del Partito popolare europeo (Ppe), nel 2019 hanno accantonato questa pratica, per scegliere invece Ursula von der Leyen (connazionale e dello stesso partito di Weber).

 In teoria, il sistema dello spitzenkandidat è stato ripreso per il 2024, ma in modo poco convinto. Nessuna formazione politica può rea­listicamente sperare di detronizzare il Ppe come primo partito in Parlamento. A sua volta, il Ppe, sapendo di non avere punti di riferimento nelle capitali nazionali, ha scelto di nuovo von der Leyen come candidata, con una votazione piuttosto deludente, non tanto perché ella incarni l’attuale linea del partito, ma piuttosto perché è ritenuta accettabile dagli Stati membri.

Il terzo e ultimo attore principale dell’Ue è il Parlamento. Esso ovviamente è il più legato alle elezioni, che ne determinano in modo diretto la composizione. Negli ultimi decenni, soprattutto dopo il Trattato di Lisbona, esso si è rivelato un vero e proprio contrappeso del Consiglio. Nell’ambito della procedura legislativa ordinaria, che oggi costituisce la forma più comune di adozione delle leggi europee, i testi vengono proposti dalla Commissione. Dopo un periodo di negoziati tra Commissione, Consiglio e Parlamento, noto come «trilogo», i progetti, previa approvazione, vengono adottati sia dal Parlamento sia dal Consiglio. Poiché per lo più i testi vengono ratificati anche da maggioranze qualificate in seno al Consiglio, il Parlamento ha più margine di manovra nei negoziati, non dovendo affrontare il compito, spesso impossibile, di accontentare ogni singolo Paese. Oltre al ruolo legislativo, esso ha voce in capitolo sul bilancio dell’Ue e controlla il lavoro della Commissione. Funge anche come luogo d’influenza, dove gli eurodeputati – i membri del Parlamento europeo –, attraverso mozioni e dichiarazioni, cercano di attirare l’attenzione sia del pubblico in generale sia dei responsabili politici su varie questioni.

 Recenti sondaggi danno un’idea della direzione che prenderà il Parlamento nel 2024. I cristiano-democratici (Partito popolare europeo) dovrebbero più o meno mantenere i loro seggi e rimanere il primo gruppo del Parlamento. I socialisti (Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici, S&D) potrebbero subire un lieve calo, che tuttavia non impedirà loro di mantenere la loro posizione come seconda forza. I centristi-liberali (Renew Europe) probabilmente andranno incontro a un calo più sensibile, passando dal terzo al quarto posto. Un destino analogo potrebbe toccare ai due gruppi più piccoli: gli ecologisti (Verdi – Alleanza libera europea) e la formazione della sinistra radicale (La Sinistra). Nel frattempo, i conservatori euroscettici (Conservatori e riformisti europei, Ecr) e gli euroscettici di estrema destra (Identità e democrazia, Id), sono destinati ad aumentare in modo rilevante, al punto da ottenere il terzo posto, sottraendolo a Renew.

 Queste evoluzioni potrebbero comportare un significativo spostamento a destra del Parlamento. Finora la coalizione centrista (Ppe+S&D+Renew) è stata compatta riguardo a molte questioni fondamentali, come il bilancio, gli affari economici e monetari, quelli esteri o il mercato interno. A volte è stata superata da una coalizione di centrosinistra (Sinistra+Verdi+S&D+Renew), soprattutto per quanto concerne le libertà civili, le questioni sociali o l’ambiente. Esisteva anche una possibile coalizione di centrodestra (Renew+Ppe+Ecr+qualche Id), soprattutto su agricoltura, politica industriale e commercio. Ovviamente si tratta di un quadro molto semplificato, perché la disciplina di gruppo non è rigida come nelle assemblee nazionali e non tiene conto dei partiti non allineati [1].

 Il grande cambiamento avverrà nel segno dell’impossibilità numerica di una coalizione di centrosinistra. Questo darà al Ppe un grande potere d’influenza sul passaggio a norme ambientali meno vincolanti o a politiche migratorie più rigide. Il Ppe avrà la possibilità di pretendere testi di suo gradimento nel quadro di una coalizione centrista, oppure di spingere tali questioni verso una coalizione di centrodestra. Quanto ai partiti populisti e di estrema destra, essi eserciteranno un’attrazione ben maggiore al momento di convincere il Ppe a formare una coalizione.

 Concezioni divergenti del progetto europeo

Veniamo ora alle questioni chiave in gioco nelle elezioni del 2024. Una prima linea di frattura c’è tra i partiti che sostengono il perseguimento di una più stretta integrazione europea e quelli convinti che l’integrazione sia già andata troppo oltre e debba essere arginata, se non ridotta – o addirittura azzerata –, per preservare la sovranità degli Stati.

 La Commissione delle Conferenze episcopali della Comunità europea (Comece) ha reso noto il suo punto di vista su questo argomento. Riflettendo sulle origini del progetto dell’integrazione europea, i vescovi della Comece affermano, in termini inequivocabili, di credere «che per noi europei questo progetto iniziato più di settant’anni fa debba essere sostenuto e portato avanti»[2]. Essi invitano inoltre i cristiani a votare per «persone e partiti che chiaramente sostengano il progetto europeo e che riteniamo ragionevolmente vorranno promuovere i nostri valori e la nostra idea di Europa, come il rispetto e la promozione della dignità di ogni persona umana, la solidarietà, l’uguaglianza, la famiglia e la sacralità della vita, la democrazia, la libertà, la sussidiarietà, la salvaguardia della nostra “casa comune”».

 La dichiarazione della Comece si basa sulla convinzione che il progetto di integrazione europea stia effettivamente portando pace, libertà e prosperità nel nostro continente e promuova ancora gli ideali della comunità e della dignità della persona umana che hanno ispirato i suoi padri fondatori, molti dei quali erano cristiani. Sebbene non sia perfetta, l’Ue riesce comunque a riunire attorno a un tavolo molti Paesi, che altrimenti potrebbero considerarsi concorrenti tra loro. Qualsiasi tentativo di indebolire i meccanismi che vincolano insieme gli Stati europei potrebbe spingerli verso una dinamica centrifuga. Una visione lucida della storia europea e della situazione attuale dimostra che la buona volontà, da sola, non è sufficiente.

 Inoltre, si può sostenere che l’integrazione europea rientri a pieno titolo in una migliore comprensione del principio di sussidiarietà. Nell’insegnamento sociale cattolico, la sussidiarietà non è soltanto un principio legalistico riguardante l’attribuzione dei poteri, ma costituisce un’ingiunzione positiva, e valida a qualsiasi livello del potere politico, a responsabilizzare attivamente tutti gli attori a esso affidati: famiglie, organizzazioni della società civile, entità economiche e politiche o territori. Non si tratta di preservare il potere di qualcuno, ma piuttosto di condividerlo, al servizio del bene comune. Aprendo le sue frontiere, l’Ue ha anche dischiuso opportunità di cooperazione transfrontaliera e ha dato la possibilità a molti cittadini, organizzazioni e imprese di creare reti o di cogliere opportunità che fino ad allora il proprio ordinamento nazionale aveva tenuto fuori dalla loro portata.

 Neanche la sovranità dello Stato è un idolo. Pur riconoscendo l’importanza di preservare il patrimonio culturale e spirituale delle nazioni e sottolineando la necessità di uno Stato ben ordinato che sappia tutelare il benessere dei suoi cittadini, l’insegnamento sociale cattolico non esita a trasferire i poteri a entità sovranazionali, quando se ne presenta la necessità, soprattutto quando i Paesi vi si sono liberamente vincolati. L’esortazione apostolica Laudate Deum offre un esempio recente di questa visione, perché chiede esplicitamente la creazione di meccanismi applicativi, comprese le sanzioni, per salvaguardare l’efficacia degli impegni internazionali sul clima. E ciò vale ancora di più quando il livello sovranazionale si dota di proprie strutture democratiche.

 Rapporto con i valori cristiani

Anche l’atteggiamento che i partiti presentano rispetto al retaggio cristiano dell’Europa è una questione impegnativa, che invita gli elettori alla prudenza di giudizio. Da un lato, alcuni partiti hanno elevato l’identità cristiana a vessillo di battaglia. Bisogna valutare, tramite un esame attento, se tali riferimenti vengano esibiti con sincerità e con rette intenzioni. È opportuno verificare, in particolare, se i valori cristiani vengano promossi prestando attenzione alla più ampia cornice della dottrina sociale cattolica, compresi i valori della compassione e dell’attenzione ai più vulnerabili, o se vengano sostenuti in modo selettivo, solo nella misura in cui contribuiscono a propugnare un sistema nazionale identitario, a creare divisione tra gruppi o a far sì che elementi sensibili sotto il profilo culturale vengano sfruttati per ottenere vantaggi politici. Se così fosse, ci si potrebbe chiedere se il partito che fa tali riferimenti stia effettivamente cercando il bene comune o se non stia semplicemente strumentalizzando il cristianesimo per i suoi interessi particolari.

 Per questo motivo un comunicato redatto dalla Comece, insieme con le istituzioni rappresentative europee protestanti e ortodosse[3], ha osservato che «la paura motiva alcuni [elettori] a cercare soluzioni e sostegno spirituale in una versione oggettificata e strumentalizzata della tradizione, a volte mascherata da un appello ai “valori tradizionali”. In questi casi, i concetti di “patria” e “religione” vengono usati come armi». Di conseguenza, la dichiarazione invita a «lottare contro la strumentalizzazione dei valori cristiani per interessi politici e nella prospettiva delle narrazioni etno-razziali».

 Allo stesso tempo, «l’Unione europea non è perfetta e […] molte delle sue proposte politiche e legislative non sono in linea con i valori cristiani e con le aspettative di molti dei suoi cittadini», riconosce il comunicato Comece. Nella dichiarazione congiunta delle Chiese si sottolinea inoltre che «gran parte dei cittadini che guardano con fiducia al futuro europeo attraverso il prisma dei valori cristiani […] si sentono ora emarginati, in quanto non hanno la possibilità di esprimere le proprie posizioni e opinioni in modo autonomo e distinto. Notiamo inoltre l’esclusione di qualsiasi riferimento adeguato ai valori cristiani in testi rilevanti dell’Ue». In effetti, molti partiti e uomini politici sono cauti riguardo all’essere associati a istituzioni religiose. Anche negli ambienti europei si è spesso visti con sospetto, quando si ha a che fare con istituzioni basate sulla fede, soprattutto per quanto riguarda l’evoluzione delle norme sociali nel campo della sessualità, dell’etica e dell’uguaglianza di genere.

 A questo punto, però, la soluzione non può venire dall’ingaggiare una guerra culturale. Probabilmente questo sarebbe uno sforzo inutile e distruttivo. I rappresentanti delle maggiori confessioni cristiane in Europa auspicano il dialogo, non la guerra. Ciò richiede che i politici europei riconoscano l’importanza della loro eredità cristiana. Occorre anche trasformare il modo in cui viene condotto il dialogo tra Chiese, istituzioni e partiti politici, in modo che le prospettive cristiane possano essere ascoltate e considerate equamente, come previsto dall’articolo 17 del Trattato Ue. I politici di cui l’Europa ha più urgente bisogno non sono quelli che si proclamano strenui difensori della tradizione: sono piuttosto quelli disposti a entrare in buona fede e con buona volontà nel dialogo con le Chiese e con la società civile, alla ricerca di soluzioni politiche che siano nella linea del maggior bene comune.

 Ecologia e cambiamento climatico

La tutela dell’ambiente e la mitigazione del cambiamento climatico sono probabilmente due delle questioni più controverse di questa campagna elettorale. Negli ultimi mesi si è assistito a uno sgretolamento, o addirittura a un’inversione, delle politiche del Green Deal (che mira a preparare l’Europa alla transizione climatica) e della Farm to Fork Strategy (indirizzata a introdurre l’agricoltura in una prospettiva più sostenibile). Progetti di legge che un tempo sembravano avere discrete possibilità di essere approvati sono stati pesantemente ridimensionati, quando non furtivamente accantonati. Nei discorsi politici si sono fatte strada narrazioni tossiche, in primo luogo quella che i partiti populisti sfruttano in tutta Europa, ossia l’ondata di reazioni popolari contro le politiche «verdi» e la contrarietà delle popolazioni a tutto ciò che comporta costi aggiuntivi, tenta di imporre comportamenti particolari o semplicemente sembra «punitivo».

 Un’altra narrazione si oppone alla tutela dell’ambiente e alla capacità di finanziare la transizione verso le energie verdi. Secondo questa visione, l’eccessiva regolamentazione in materia ambientale sovraccarica l’economia, rendendo le imprese europee incapaci di competere con quelle americane e cinesi. E se l’economia è debole, le risorse fiscali saranno insufficienti per finanziare il passaggio alle energie verdi. Una narrazione simile dice che gli agricoltori europei sono sovraccarichi di obblighi ecologici e quindi impossibilitati a coprire i costi e a competere sul mercato mondiale. Un’altra ancora è che l’iperprotezione ambientale contrasta con la necessità di estrarre più minerali per alimentare la transizione verso le zero emissioni di carbonio.

 Sebbene al centro di ciascuna di queste narrazioni ci siano questioni reali, il modo in cui esse vengono inquadrate tende a condurre alle stesse conclusioni errate: gli obiettivi o gli impegni ecologici devono essere ridimensionati, in quanto indesiderati e controproducenti. Invece, il buon comportamento dovrebbe essere incoraggiato con incentivi finanziari, iniziative private e innovazione tecnologica. In effetti, il monito di papa Francesco nella Laudate Deum suona più che mai attuale: «Corriamo il rischio di rimanere bloccati nella logica di rattoppare, rammendare, legare col filo, mentre sotto sotto va avanti un processo di deterioramento che continuiamo ad alimentare. Supporre che ogni problema futuro possa essere risolto con nuovi interventi tecnici è un pragmatismo fatale, destinato a provocare un effetto-valanga»[4].

 Alla luce dell’ecologia integrale promossa dal Magistero recente e in linea con i moniti scientifici, gli elettori dovrebbero considerare quanto seriamente i diversi partiti politici si prendano cura della nostra casa comune. Considerata l’urgenza di contrastare il degrado del nostro Pianeta, non è sufficiente che come soluzione per uscire dalla crisi si dia priorità alla crescita economica. Come minimo, i partiti politici devono presentare alternative credibili alle leggi e alle politiche che denunciano.

 In contrapposizione alle narrazioni sopra ricordate, andrebbero poste le seguenti domande: se le politiche volte a cambiare lo stile di vita insostenibile della maggior parte degli europei sono impopolari, in che modo è possibile concepirle meglio e ripartirne meglio i costi? La transizione verso l’energia verde è un cambiamento esclusivamente tecnico della nostra produzione di energia, o piuttosto ci dà l’opportunità di mettere in discussione quanto produciamo e consumiamo? L’agricoltura europea potrà effettivamente essere salvata eliminando alcuni vincoli ambientali, o è necessario un ripensamento più globale, affinché essa possa resistere ai cambiamenti climatici futuri?

 Traiettoria economica e coesione sociale

Secondo un sondaggio Ipsos svolto per Euronews[5], quattro prio­rità su cinque indicate dai cittadini europei sono di natura economica: reperimento di soluzioni adeguate contro l’aumento dei prezzi; riduzione delle disuguaglianze sociali; sostegno alla crescita economica; contrasto della disoccupazione. La quinta è la lotta all’immigrazione clandestina.

Le opere d’arte possono rappresentare ancora uno stimolo per una riflessione sulle tematiche di oggi? Un viaggio in 10 episodi tra le opere di alcuni dei più grandi artisti della storia passata e contemporanea.

 Negli ambienti europei si è diffuso un sentimento di autogratificazione per come l’Ue ha affrontato la ripresa dalla pandemia e per la rapidità con cui ha domato la crisi energetica seguita all’invasione dell’Ucraina. In effetti sono state adottate soluzioni precedentemente inimmaginabili, incluso il fondo NextGenerationEu, che ha visto la Commissione prendere a prestito direttamente dai mercati quanto serviva per finanziare progetti di ripresa dalla pandemia negli Stati membri dell’Ue. Sebbene la maniera in cui l’Unione finanzierà in pratica quel debito resti ancora una questione aperta, quella solidarietà nel debito, che fino allora era un tabù, è stata riconosciuta come un simbolo di unità europea. Questa visione positiva dell’azione dell’Ue si è riflessa fortemente nel discorso sullo stato dell’Unione tenuto dalla presidente von der Leyen nel settembre 2023, che ha evidenziato i risultati della Commissione senza riconoscere la persistente crisi del costo della vita.

Gli ultimi mesi hanno visto l’umore guastarsi, perché i politici hanno messo in rilievo la discrepanza che c’è tra quel discorso e i sentimenti popolari. Sono cresciuti gli appunti sul ritardo dell’Ue rispetto agli Stati Uniti in termini di innovazione, sull’incapacità di competere e sulla concorrenza sleale che minaccia la prosperità dell’Europa. È emersa la consapevolezza che l’Europa potrebbe non trarre alcun vantaggio dalla transizione pulita, visto che il mercato dei pannelli solari e delle auto elettriche è minacciato dalla produzione cinese. L’eccessiva regolamentazione, la mancanza di flessibilità e i vincoli ecologici sono stati regolarmente indicati come le cause che ostacolano la crescita e la competitività.

 Il mandato dell’Unione europea è quello di promuovere la prosperità tra i suoi membri. Pertanto, non solo è legittimo, ma è anche necessario che il prossimo Parlamento affronti le questioni economiche. Tuttavia, è altrettanto necessario che venga garantito un giusto equilibrio tra sviluppo, sostenibilità e diritti sociali e umani. Il destino della direttiva Ue relativa alla due diligence di sostenibilità delle imprese è un esempio di ciò che è a rischio. Il testo mirava a incoraggiare la responsabilità aziendale, obbligando le aziende a identificare e ad affrontare le minacce ai diritti umani e all’ambiente presenti nella loro catena di fornitura. Il 15 marzo, in nome della competitività, il Consiglio ha deciso di fare marcia indietro rispetto a quanto concordato in precedenza con il Parlamento e di restringere fortemente la portata della legge: essa si applicherà solo alle imprese più grandi, e gli aspetti chiave di una filiera – per esempio, il riciclaggio – sono scomparsi dal testo.

 Gli elettori dovranno valutare attentamente quale partito offra il giusto equilibrio nel loro contesto nazionale. Sebbene il mandato diretto dell’Europa sulle questioni sociali sia limitato rispetto alle leve ancora in mano alle singole nazioni, restano ancora questioni su cui il prossimo Parlamento potrà agire, come individuato da Caritas Europa nel suo Memorandum elettorale[6]: «Un reddito minimo adeguato, assistenza a lungo termine e incentrata sulla persona, sostegno all’infanzia e alla famiglia, migliore accesso ai diritti dei lavoratori, accesso ad alloggi adeguati e convenienti, condizioni di lavoro dignitose, anche per gli operatori sanitari, e non discriminazione», in linea con i 20 princìpi del Pilastro europeo dei diritti sociali.

 Migrazione

In un discorso pronunciato a Marsiglia nel 2023,papa Francesco ha lanciato all’Europa un appello urgente: «I migranti vanno accolti, protetti o accompagnati, promossi e integrati. Se non si arriva fino alla fine, il migrante finisce nell’orbita della società. Accolto, accompagnato, promosso e integrato: questo è lo stile. È vero che non è facile avere questo stile o integrare persone non attese, però il criterio principale non può essere il mantenimento del proprio benessere, bensì la salvaguardia della dignità umana»[7]. Purtroppo, il tono attuale della campagna elettorale non va in quella direzione. I migranti sono spesso presentati come qualcosa da cui bisogna proteggersi, invece di essere visti come persone degne di protezione.

 Nello scorso dicembre, le istituzioni europee hanno raggiunto l’accordo su un nuovo patto sulle migrazioni, che tende a un forte inasprimento delle politiche sulle frontiere (compresa la normalizzazione della detenzione) e sul trasferimento delle responsabilità di protezione a Paesi terzi in cambio di limitati miglioramenti nella solidarietà tra gli Stati europei. Questo patto migratorio è stato giudicato con severità da molti osservatori, tra cui molte Ong cristiane. In una dichiarazione congiunta di più di 50 organizzazioni, tra cui la Caritas e il Jesuit Refugee Service, si è affermato che il patto sull’immigrazione «normalizzerà l’uso arbitrario della detenzione per immigrati, anche per bambini e famiglie, aumenterà la profilazione razziale, utilizzerà procedure di “crisi” per consentire i respingimenti e riportare le persone nei cosiddetti “Paesi terzi sicuri”, dove sono a rischio di violenza, tortura e detenzione arbitraria»[8].Ciò nonostante, le posizioni si stanno spostando ulteriormente verso politiche più repressive. Ne troviamo un esempio lampante nel manifesto del Ppe, in cui si suggerisce l’adozione di un sistema di Paesi terzi sicuri simile alla «soluzione ruandese» promossa dai conservatori nel Regno Unito.

 Considerando che l’Ue ha ampie competenze nel campo della migrazione e dell’asilo, il ruolo del Parlamento nel perfezionare e, auspicabilmente, umanizzare le politiche europee sarà decisivo. Occorre quindi prestare attenzione al modo in cui i partiti valutano la migrazione. Le legittime preoccupazioni per la situazione economica non possono essere utilizzate come giustificazione per ledere la dignità di una persona. La migrazione comporta certamente molti problemi e può esercitare una pressione sociale ed economica sulle benestanti società di destinazione che non può essere ignorata. Tuttavia, i migranti, in quanto persone, non possono essere strumentalizzati come capri espiatori.

 L’attenzione dovrebbe essere rivolta anche alle cause profonde della migrazione. Le proposte fatte dai partiti politici su come rendere più equo il sistema commerciale internazionale, su come perseguire meglio gli aiuti allo sviluppo, su come mediare i conflitti o affrontare il cambiamento climatico, non possono essere scisse dalla realtà dei migranti che arrivano alle porte dell’Europa. Questa non può né sperare né ambire a isolarsi dal suo ambiente e dalle sue responsabilità internazionali.

 Guerra in Ucraina e pace in Europa

È impossibile parlare delle elezioni europee senza toccare la guerra in Ucraina. Per l’Europa essa è un momento decisivo. A più di due anni dall’inizio dell’aggressione contro l’Ucraina, la valutazione fatta, in occasione del primo anniversario della guerra, dall’allora presidente della Comece, cardinale Jean-Claude Hollerich, fornisce tuttora un quadro di analisi rilevante, perché ha evidenziato «gli sforzi instancabili dei decisori europei nel fornire all’Ucraina adeguato e proporzionato sostegno umanitario, finanziario, politico, nonché militare. Il suo popolo ha il diritto di difendersi dalla brutale e ingiustificabile aggressione militare per vivere una vita animata da dignità, sicurezza e libertà nel proprio Paese indipendente e sovrano. Incoraggiamo fortemente i leader europei a mantenere la loro unità nella solidarietà con l’Ucraina durante e anche dopo la guerra, senza cedere alla stanchezza o all’indifferenza»[9].

 Se il perseguimento della pace dev’essere l’obiettivo finale di tutte le politiche relative all’Ucraina, tale pace dev’essere duratura. Inoltre, per una questione di principio, solo la società ucraina dovrebbe determinare il proprio futuro, in modo che vengano rispettati tutti i suoi membri nelle loro particolarità, senza essere soggetta ad assimilazione forzata da parte del vicino. Non esiste quindi alcuna opposizione tra la politica che consente all’Ucraina di resistere all’aggressione e il desiderio di pace.

 Non sembra per il momento che il monito espresso dal cardinale Hollerich, cioè che il sostegno militare sia proporzionato, corra alcun pericolo concreto di essere disatteso. Semmai, a questo punto la preoccupazione dovrebbe essere piuttosto quella se il sostegno dato all’Ucraina sia davvero adeguato, dato che la stanchezza si sta effettivamente facendo sentire. I leader europei si sono impegnati promettendo di sostenere l’Ucraina per tutto il tempo e nella misura che saranno necessari.

 Ciò non vuol dire che non vi siano preoccupazioni da prendere in considerazione. Lo spostamento dell’Europa verso il riarmo, con maggiori spese militari e crescenti sforzi per coordinare meglio questi intenti a livello dell’Ue, può essere giustificato, purché sia effettivamente orientato all’autodifesa e all’autonomia strategica, nonché adeguatamente calibrato rispetto alle minacce che l’Europa si trova ad affrontare. Allo stesso tempo, esso non dovrebbe trasformarsi in una corsa agli armamenti, per non suscitare profezie di conflitto autoavveranti. Anche i personaggi pubblici dovrebbero prestare attenzione a non cedere a pose teatrali che esacerbano tensioni e paure.

 Più in generale, il modo in cui i partiti politici si posizionano nei confronti dell’Ucraina rivela una concezione più ampia del progetto europeo. Si può accettare l’invasione di quel Paese come un dato di fatto, in un sistema internazionale dominato dal potere, sia esso economico o militare. In questa prospettiva, l’Unione non è quindi altro che un tentativo di tutelare gli interessi dei «membri del club» e, anche in questo caso, vanno innanzitutto preservati a tutti i costi gli interessi nazionali.

 Dalla prospettiva opposta, sottolineando la necessità di sostenere l’Ucraina, l’Unione europea può essere vista come un’area di prosperità, democrazia e rispetto dei diritti umani in lenta espansione. Questo è un obiettivo meritevole ed è certamente il modo in cui l’Ue vuole presentarsi. È anche una meta difficile, che ci prospetta molti dibattiti, errori e controversie. Quali Paesi dovrebbero essere accolti nell’Ue? Che impatto avranno i futuri allargamenti sulla posizione politica e sul benessere economico degli attuali Stati membri? Quanto tempo si può ragionevolmente far aspettare un Paese prima dell’adesione? Come possiamo preservare la coesione politica, sociale ed economica dell’Ue, se ammettiamo Paesi più poveri? Nessuna di queste domande ha risposte facili, soprattutto quando si tratta di Paesi vasti come l’Ucraina. Probabilmente, alcune di tali questioni restano ancora da risolvere, a seguito dell’allargamento dell’Ue ai Paesi dell’Europa centrale e orientale.

 In ciascun Paese, gli elettori dovranno valutare attentamente di chi si fidano per rappresentarli nell’affrontare tali questioni. Anche se il Parlamento europeo non avrà un ruolo guida in molte di queste tematiche (la difesa e l’allargamento rientrano nelle competenze del Consiglio), di sicuro l’umore catturato dalle elezioni influenzerà fortemente il modo in cui i politici nazionali e quelli dell’Ue affronteranno le decisioni future.

 Conclusione

Non esiste un partito o un candidato perfetto per cui votare. La realtà della politica nella maggior parte dei Paesi europei, così come la situazione della Chiesa nella maggior parte delle società europee, fa sì che quasi ogni opzione dovrà essere un compromesso. Ma bisogna fare delle scelte. I cristiani non possono abdicare al loro giusto posto nel processo democratico. Spetta a ciascuno valutare in coscienza, dopo un’adeguata informazione e riflessione, dove il suo voto possa promuovere al meglio il bene comune e i valori cristiani a livello europeo.

 [1].    Un’analisi approfondita della questione si può trovare in https://ecfr.eu/publication/a-sharp-right-turn-a-forecast-for-the-2024-european-parliament-elections/

 [2].    Comece, Dichiarazione in vista delle elezioni europee, 13 marzo 2024 (www.chiesacattolica.it/comece-dichiarazione-in-vista-delle-elezioni-europee).

 [3].    Cfr Churches affirm their role in shaping Europe’s future ahead of EU elections, 20 marzo 2024, in www.comece.eu/churches-affirm-their-role-in-shaping-europes-future-ahead-of-eu-elections/; www.agensir.it/quotidiano/2024/3/20/elezioni-europee-chiese-valori-cristiani-siano-il-fondamento-principale-del-progetto-europeo

 [4].    Francesco, Esortazione apostolica Laudate Deum, n. 57.

 [5].    Cfr Rising prices and social inequality could decide the European elections: Exclusive poll, 23 marzo 2024 (www.euronews.com/business/2024/03/23/rising-prices-and-social-inequality-could-decide-the-european-elections-exclusive-poll).

 [6].    Caritas Europa, A social Europe championing solidarity and global justice, 20 aprile 2023 (www.caritas.eu/european-elections-2024).

 [7].    Francesco, Discorso alla sessione conclusiva dei «Rencontres Méditerranéennes», 23 settembre 2023.

 [8].    An open letter to negotiators in the European Commission, the Spanish Presidency of the Council of the European Union, and the European Parliament ahead of the final negotiations on the EU Pact on Migration, 19 dicembre 2023 (www.caritas.eu/open-letter-for-better-migration-policies).

 [9].    One year of war in Ukraine | EU Bishops: «Stop this madness of war»!, 23 febbraio 2023 (www.comece.eu/one-year-of-war-in-ukraine-eu-bishops-stop-this-madness-of-war).

Civiltà Cattolica