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giovedì 4 settembre 2025

SEGNI PROFETICI IN TEMPI DI GUERRA

 

Al punto in cui siamo, non tratta più di stabilire chi abbia torto e chi abbia ragione. Il problema è che ogni soglia viene superata. Non c’è più distinzione tra combattenti e innocenti, obiettivi militari e popolazioni civili, adulti e bambini. La crudeltà è praticata alla luce del sole, quasi esibita

- di Mauro Magatti 

I tempi sono violenti. Non è solo il numero insopportabile di guerre che insanguinano il mondo. È la sensazione che la sopraffazione sia diventata la regola dei rapporti sociali. La politica parla con il linguaggio delle armi. Le relazioni internazionali si determinano con missili e droni. Mentre un po’ ovunque crescono polarizzazione, rabbia, aggressività. Nella seconda metà del secolo scorso avevamo creduto che il mondo potesse essere governato da istituzioni comuni, dal diritto internazionale, dal fragile equilibrio della diplomazia. Oggi quella speranza sembra svanita. 

 Lo ha di recente messo nero su bianco, senza tanti giri di parole, il politologo russo Aleksandr Barishov, che in una recente intervista ha dichiarato: «Ormai bisogna riconoscere che il diritto internazionale è smantellato: quello che funziona è solo il diritto della forza». Quasi fosse la cosa più naturale del mondo. 

I trattati, le convenzioni, le risoluzioni delle Nazioni Unite, la diplomazia: tutto sembra destinato a impallidire di fronte al discorso crudo della forza. Per decidere non servono più le regole condivise, ma la determinazione di imporre la propria potenza: militare, economica, tecnologica. In barba a tutti i progressi tecnologici e culturali, l’umanità sembra così regredire ad un tempo primitivo. 

Ogni giorno sembra andare peggio. Putin che, mentre discute di pace con Trump, continua a mandare missili sulle città ucraine. Netanyahu che, senza dare ascolto ai tanti appelli, prosegue l’orrenda opera di distruzione di Gaza ridotta a un ammasso di macerie. 

 Al punto in cui siamo, non tratta più di stabilire chi abbia torto e chi abbia ragione. Il problema è che ogni soglia viene superata. Non c’è più distinzione tra combattenti e innocenti, obiettivi militari e popolazioni civili, adulti e bambini. La crudeltà è praticata alla luce del sole, quasi esibita. E a trionfare è il superamento di ogni limite. Tutto sembra permesso. Il codice bellico ormai diventato parte del linguaggio di tutti i giorni. 

Con evidenti effetti di disumanizzazione: il nemico è sempre ridotto a meno-di-uomo. 

In mezzo a tutta questa oscurità, uno squarcio di luce arriva da Gerusalemme. La decisione del patriarca latino, Pierbattista Pizzaballa, e di quello greco ortodosso, Teofilo, di non lasciare Gaza nonostante Israele abbia annunciato di occupare l’intera Striscia introduce un elemento dirompente rispetto alla logica bellica. 

Rifiutando di abbandonare le loro comunità, i due patriarchi lanciano una provocazione profetica: restare là dove la vita è ferita. Non per alimentare lo scontro, ma per custodire una presenza diversa. Restare, quando tutto spinge a fuggire. Restare, quando il calcolo suggerirebbe di proteggersi. 

 Restare, per dire che non tutto è riducibile alla logica delle armi. Si tratta di scelta che ha un grande valore politico e umano perché dice che, al di là di quello che viene ripetuto all’infinito dai tamburi della propaganda, c’è sempre un’altra possibilità. Non siamo condannati a vivere solo sotto la legge della forza. 

Mettersi in mezzo. Non per restare neutrali, per non vedere o non scegliere. Ma per rifiutare di essere catturati dalla spirale violenza-contro-violenza. 

Mettersi in mezzo è affermare che, al di là delle ragioni e dei torti, c’è qualcosa che viene prima. Qualcosa di comune all’umano: la dignità di ogni vita. La possibilità del dialogo e la necessità dell’ascolto richiamate dal potente Appello interreligioso rivolto ieri alle Istituzioni italiane, ai cittadini e ai credenti in Italia «per favorire qualsiasi iniziativa di incontro per arginare l’odio». 

 Questa logica opposta alla violenza non è una fuga dalla realtà. È la sola alternativa realistica al disastro. Perché la forza può vincere una battaglia, ma non costruisce mai la pace. 

Solo il riconoscimento dell’altro, delle sue ragioni, può aprire un futuro diverso. La logica del mettersi in mezzo indica una via concreta. Invece di alimentare odio e aggressività, c’è sempre la possibilità di creare luoghi di incontro, ricostruire la fiducia reciproca, educare a riconoscere che la vita dell’altro vale quanto la nostra. 

Se la violenza ci trascina verso la chiusura, il sospetto, la contrapposizione, la scelta di mettersi in mezzo ci ricorda che esiste ancora un terreno comune. Fragile, certo. Ma reale. Siamo in un tempo di violenza, e sarebbe ingenuo negarlo. Ma proprio per questo, ogni gesto che rompe la logica della forza va valorizzato e moltiplicato. 

La decisione dei due patriarchi ‒ grande segno interconfessionale che dice di quello che i cristiani possono fare insieme ‒ è un atto concreto che dimostra che un altro modo di stare nel conflitto è possibile. 

 Mettersi in mezzo oggi è una sfida urgente. Non per nascondere le differenze, ma per affermare che prima di esse c’è la comune appartenenza all’umano. Solo da qui può ripartire la politica. Solo da qui si può sperare in un futuro che non sia consegnato alla barbarie.

 Avvenire 

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martedì 2 settembre 2025

SCUOLA IN PALESTINA


Lettera del Patriarca di Gerusalemme  

agli alunni 



Ai nostri amati studenti,
Agli stimati genitori,
Ai sacerdoti e ai religiosi che prestano servizio nelle nostre scuole della Chiesa,
Ai presidi, agli insegnanti e agli educatori,
Ai Segretariati Generali delle Scuole Cristiane in Terra Santa,

Il Signore vi dia la pace!


Siamo alle porte di un nuovo anno scolastico. Ancora una volta, le nostre scuole in Terra Santa aprono le loro porte per accogliere decine di migliaia di studenti, cristiani e non, che siedono fianco a fianco sugli stessi banchi, uniti dall'amore per l'apprendimento e animati dalla speranza nel futuro. Ognuno di loro è un dono prezioso di Dio, una fiducia sacra affidata alle nostre cure.

Eppure, con profondo dolore, questa gioia non si estende ai nostri bambini di Gaza, che per il terzo anno consecutivo sono privati del loro diritto all'istruzione a causa della guerra. Le loro scuole sono state distrutte, le loro aule sono state chiuse. Li portiamo nelle nostre preghiere, implorando che la pace prevalga presto affinché possano tornare sui loro banchi e reclamare la loro infanzia.

L'apertura dell'anno scolastico non è un momento passeggero, ma un tempo di grazia, un rinnovamento della nostra missione educativa. Nella nostra visione, la scuola non è solo muri e libri, ma una casa dove la conoscenza e la fede abitano insieme: dove la mente è illuminata dalla luce della verità, il cuore cresce nell'amore per Dio e per gli altri, e l'anima è ancorata nella speranza. In un tale ambiente, il carattere dello studente viene plasmato da valori e virtù e preparato a servire la società nello spirito della fede, della speranza e dell'amore.

I nostri alunni di prima elementare intraprendono per la prima volta il loro viaggio di apprendimento; che il loro anno sia coronato dalla gioia, ricco di scoperte e fecondo di amicizia e crescita. I nostri alunni di seconda media sono alla soglia della conclusione degli anni scolastici e si preparano a entrare in un nuovo capitolo della vita, chiamati alla perseveranza, alla maturità e alla serietà. Tra questi inizi e queste fine c'è il percorso scolastico di ogni studente, che non si misura solo con i voti, ma con i valori forgiati nel carattere, la resilienza e la diligenza coltivate, la speranza e l'apertura nutrite nel cuore.

Le nostre scuole sono chiamate a rimanere case di apprendimento, di incontro e di dialogo, campi che seminano la pace, salvaguardano la dignità e aprono a ogni studente le porte del futuro, indipendentemente dalla provenienza. Gli splendidi risultati ottenuti dai nostri studenti in vari campi, i valori autentici che incarnano e le personalità creative che rivelano sono una testimonianza vivente della fecondità di questa missione educativa e un motivo di orgoglio e gratitudine per tutti noi.

A nome dell'Assemblea degli Ordinari Cattolici di Terra Santa, esprimo la profonda gratitudine della Chiesa a tutti coloro che prestano servizio nelle nostre scuole: ai consacrati che accompagnano la missione con spirito di cura; agli insegnanti che piantano i semi della conoscenza e della virtù nelle menti e nei cuori dei nostri bambini; ai presidi che guidano con discernimento e fedeltà; a tutto il personale che lavora per assicurare che le nostre scuole rimangano vibranti di vita. La vostra dedizione quotidiana, i sacrifici silenziosi e l'impegno costante in questa missione sono una testimonianza vivente del fatto che l'educazione nelle scuole della Chiesa non è solo una professione, ma un ministero sacro svolto con amore, pazienza e speranza.

Estendo anche le benedizioni e l'incoraggiamento alle famiglie dei nostri studenti, che sono il primo fondamento dell'educazione - la scuola primaria dove si forma la fede, si coltivano i valori e i bambini imparano il significato della responsabilità e del rispetto. Il ruolo dei genitori non si limita a seguire le lezioni o a controllare i successi accademici, ma si estende a piantare l'amore nel cuore, a dare un esempio vivente di pazienza e generosità e ad accompagnare il cammino dei figli con consapevolezza e tenerezza. L'educazione è una responsabilità condivisa tra casa e scuola, fondata sulla fiducia reciproca e sulla collaborazione continua.

A tutti i nostri studenti dico: fate di quest'anno un'opportunità per crescere nella conoscenza e nella fede, per forgiare il vostro carattere nella perseveranza e nell'impegno.
Che lo Spirito Santo illumini le vostre menti e i vostri cuori e che la Beata Vergine Maria, sede della Sapienza, vi protegga durante questo anno.

Con la paterna benedizione a tutti voi e con i migliori auguri per un nuovo anno scolastico benedetto.

Gerusalemme, 28 agosto 2025, festa di sant'Agostino, vescovo e dottore della Chiesa.

+ Pierbattista Card. Pizzaballa
Patriarca di Gerusalemme per i latini 
Presidente dell'ACOHL

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sabato 23 agosto 2025

LA PORTA STRETTA


 -24 agosto 2025-

XXI Domenica del Tempo Ordinario C

*Lc 13, 22-30*


Commento del Card. Pierbattista Pizzaballa, 

Patriarca L. di Gerusalemme


Il tema centrale del brano di Vangelo di oggi (Lc 13, 22-30) è quello della salvezza.

Gesù è diretto a Gerusalemme, e passa per città e villaggi. Lungo la via, un tale gli chiede: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” (Lc 13,23). Ancora una volta la risposta di Gesù va oltre la domanda: non è importante sapere quanti sono quelli che si salvano, se sono pochi o tanti. L’importante è salvarsi.

E la salvezza, come sempre, ha qualcosa di paradossale, che non rientra negli schemi della nostra logica umana e che Gesù lascia trasparire attraverso il racconto che offre come risposta, piena di paradossi.

C’è una porta stretta (“Sforzatevi di entrare per la porta stretta” - Lc 13,24), che però fa entrare molta gente, da oriente ad occidente, da settentrione a mezzogiorno (“Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio” - Lc 13,29).

C’è qualcuno che sembrerebbe avere tutte le credenziali per entrare (“comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza” - Lc 13,26), eppure rimane fuori (“Voi, non so di dove siete” - Lc 13,27).

Ci sono ultimi che saranno primi, e primi che saranno ultimi (Lc 13,30).

Ci soffermiamo solo su una particolarità presente nel testo, quella che riguarda la porta, e la sua chiusura.

Molti, dice Gesù, cercheranno di entrare, ma troveranno la porta chiusa (“molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno” - Lc 13,24).

Costoro busseranno, ma la porta non si aprirà. Ci si potrebbe aspettare che il motivo della porta chiusa sia l’orario: ad un certo punto la porta si chiude e, chi arriva in ritardo, rimane fuori.

Ma non è così.

Chi arriva, trova la porta chiusa e bussa, e non gli viene aperto non perché sia tardi. Per entrare, infatti, non è mai troppo tardi, e c’è sempre una possibilità ulteriore, l’occasione dell’ultima ora.

La porta non viene aperta a chi pensa di avere dei meriti, a chi dà per scontato di averne il diritto.

“Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza, hai insegnato nelle nostre piazze” (Lc 13,26). Per costoro, che pensano di avere il biglietto assicurato, la porta rimane chiusa. E non per una sorta di rivalsa, non per puntiglio, ma solo per il fatto che la salvezza è donata per grazia, e l’accoglie solo chi sa di non meritarla.

Un esempio di tutto questo è riportato più avanti nel Vangelo di Luca, al capitolo 23: Gesù è appeso alla croce e uno dei due malfattori, crocifisso accanto a lui, gli chiede di essere ricordato quando sarà nel suo regno. In qualche modo, sta bussando alla porta. Non ha nessun merito, sembrerebbe essere arrivato ben oltre il tempo limite. Eppure, per lui la porta si apre: “Oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43).

Quindi la porta non è stretta perché dobbiamo guadagnarci l’ingresso attraverso opere di giustizia, attraverso una grande ascesi. Si tratta semplicemente di riconoscere che siamo piccoli e poveri. Tutto ciò che ci viene chiesto, come al malfattore crocifisso, è di ammettere il nostro peccato e il nostro bisogno di redenzione: questa è la “parola d'ordine” che apre la porta.

Gesù chiama “operatori di ingiustizia” (Lc 13,27) coloro che rimangono fuori dalla porta. Il testo però non fa pensare che abbiano fatto qualcosa di male. L’ingiustizia che li condanna a rimanere estranei al Signore è proprio quella di sentirsi giusti. È l’unica ingiustizia che impedisce la salvezza.

Verso costoro, Gesù ha dunque parole pesanti: “Non di dove siete” (Lc 13,27). Ovvero non vi conosco, non appartenete al mio Regno, non condividete la mia logica, il mio modo di vedere la vita, di vivere la fede.

Al contrario, i lontani, che arrivano come dei poveri senza meriti, loro sederanno alla mensa del Regno.

Oriente, occidente, settentrione e mezzogiorno (Lc 13,29): cioè da ogni parte, perché ogni punto di partenza è buono per camminare verso la porta che apre al banchetto del Regno.

A patto però di rimanere come il ladrone sulla croce del capitolo 23, che può solo implorare ciò che può solo essere gratuito, che può solo essere donato.

+ Pierbattista

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venerdì 15 agosto 2025

IL SANGUE DEGLI INNOCENTI


Pizzaballa: 

il sangue di ogni innocente 

a Gaza 

e nel mondo

 non è dimenticato


Il Patriarca di Gerusalemme dei Latini celebra la Messa dell'Assunzione nel monastero benedettino di Abu Gosh. Rileggendo il brano dell'Apocalisse, ammette che “questi mesi carichi di dolore” non consentono discorsi sulla pace "edulcorati e astratti, e perciò non credibili". Con realismo invita a considerare che il potere di Satana sarà sempre all'opera; compito del cristiano è continuare a seminare vita, a restare sotto il manto protettivo di Dio, affinché il "drago" non abbia l'ultima parola.

 -Antonella Palermo - Città del Vaticano

 Il dolore di questo tempo, osserva il cardinale Pierbattista Pizzaballa, "non ci permette di fare discorsi sulla pace edulcorati e astratti, e perciò non credibili, né di limitarci alle ennesime analisi o denunce. Piuttosto - insiste -, si tratta di stare da credenti dentro questo dramma, che non è destinato a finire così presto". Nell'omelia della Messa celebrata dal patriarca di Gerusalemme dei Latini nella abbazia benedettina di Abu Gosh, nella Solennità dell'Assunzione, una meditazione sul testo dell'Apocalisse, brano che, dice, ha accompagnato la comunità dei cristiani ed è stato all’origine delle riflessioni più volte, "in questi mesi carichi di dolore". 

Consapevoli che il male continuerà a operare nel mondo

Pizzaballa condivide con realismo ciò che si evince per l'oggi dalla lettura del testo; in particolare si sofferma sul potere di Satana, raffigurato come il drago, Satana, che "non cesserà mai di affermarsi e accanirsi sul mondo, in modo particolare 'contro quelli che custodiscono i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù'. Noi tutti vorremmo che il male fosse sconfitto quanto prima - ammette -, che scomparisse dalla nostra vita", ma non è così. "Lo sappiamo, ma dobbiamo sempre di nuovo imparare a convivere con la dolorosa consapevolezza che il potere del male continuerà ad essere presente nella vita del mondo e nella nostra. Noi non potremo con le nostre sole forze umane sconfiggere il potere enorme di quel drago. È un mistero, per quanto duro e difficile, che appartiene alla nostra realtà terrena. Non è rassegnazione. Al contrario - precisa -, è presa di coscienza delle dinamiche della vita del mondo, senza fughe di alcun genere, ma anche senza paura, senza condividerle ma anche senza nasconderle".

In Terra Santa sembra ci sia la più alta manifestazione di Satana

Tuttavia, sottolinea ancora il cardinale alla luce della Solennità odierna, "sul seme di vita, frutto di amore, il drago non può prevalere". Ed evidenzia che nella Bibbia il deserto non è luogo di assenza, ma luogo in cui Dio provvede. "Nella nostra esperienza attuale, così dura e difficile, Dio continua a provvedere a noi, avvertendoci innanzitutto della forza del male, del potere mondano che in questa Terra e in questo tempo sembrano davvero prevalere", prosegue. È molto chiaro Pizzaballa quando afferma che "non dobbiamo farci illusioni". La fine della guerra, avverte, non segnerebbe comunque la fine delle ostilità e del dolore che esse causeranno. "Dal cuore di molti continuerà ancora ad uscire desiderio di vendetta e di ira. Il male che sembra governare il cuore di molti, non cesserà la sua attività, ma sarà sempre all’opera, direi anche creativo. Per molto tempo ancora avremo a che fare con le conseguenze causate da questa guerra sulla vita delle persone. Sembra proprio che questa nostra Terra Santa, che custodisce la più alta rivelazione e manifestazione di Dio, sia anche il luogo della più alta manifestazione del potere di Satana. E forse proprio per questo, perché è il Luogo che custodisce il cuore della storia della salvezza, che è diventato anche il luogo nel quale 'l’Antico Avversario' cerca di imporsi più che altrove".

Pochi, mai allineati, "fastidiosi", saremo il rifugio di Dio

Di fronte a un contesto di morte e distruzione, il patriarca incoraggia ad avere fiducia, a confermare l'alleanza con chi desiderare e semina il bene, e "creare con essi contesti di guarigione e di vita". Amaramente consapevole che il male continuerà ad esprimersi, Pizzaballa invita a essere luogo di vita, così che il 'drago' non avrà l'ultima parola. "Non saremo dunque il centro della vita del mondo. Non seguiremo la logica che accompagna buona parte della vita dei potenti. Saremo probabilmente pochi, ma sempre diversi, mai allineati, e forse per questo diventeremo anche fastidiosi. Saremo comunque il luogo dove Dio provvede, un rifugio custodito da Dio. Meglio ancora, siamo chiamati a diventare noi rifugio per quanti vogliano custodire il seme di vita, in tutte le sue forme".

Il sangue degli innocenti non è dimenticato

Proseguendo ancora conl a metafora biblica, il cardinale è convinto che prima o poi il drago cederà, ma che ora bisogna sopportare, che il sangue degli innocenti, non solo in Terra Santa, a Gaza come in qualsiasi altra parte del mondo, "non è dimenticato". Il sangue "non è buttato via in qualche angolo della storia", scorre sotto l’altare, "mischiato al sangue dell’Agnello, partecipe anch’esso dell’opera di redenzione al quale siamo associati. Lì noi dobbiamo stare. È quello il nostro luogo, il nostro rifugio nel deserto". La vita cristiana, capovolge i criteri del mondo, conclude il cardinale Pizzaballa ricordando anche la testimonianza di santa Francesca Romana, ostacolata da Satana nel suo desiderio di vivere per Dio ma che, alla fine, ha compiuto l’opera di Dio. Il modo di operare di Dio è proprio questo con chiunque: entra e rovescia. 

Guardare dunque al mistero dell’assunzione di Maria Vergine, alla cui intercessione Pizzaballa infine affida tutti, come anticipo della redenzione eterna.

 Vatican News

 

sabato 14 giugno 2025

UNO e TRINO

 


*Domenica 15 giugno*


Solennità 

della SS Trinità


Gv 16,12-15

 

Meditazione Di S.B. Card. Pizzaballa

 Nel brano di Vangelo di oggi (Gv 16,12-15) ascoltiamo che Gesù, parlando dello Spirito Santo, ripete per due volte un’espressione un po’ particolare. Dice infatti che lo Spirito “prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà” (Gv 16,14.15).

Per provare a comprendere ciò che Gesù vuole dirci con quest’espressione, facciamo un passo indietro e arriviamo ad un brano dell’Antico Testamento in cui vediamo una situazione opposta rispetto a ciò di cui Gesù sta parlando.

Il brano in questione è Genesi 3,1-12. Dio aveva appena creato l’uomo ed era entrato in dialogo con lui. Il brano è noto: Dio consegna all’uomo tutta la creazione bella che era appena uscita dalle sue mani e, attraverso il comando riguardo all’albero della conoscenza del bene e del male, gli chiede però di rimanere in un atteggiamento mite, l’atteggiamento di chi non possiede nulla, ma tutto accoglie come dono. L’atteggiamento filiale di chi sa di non essere il padrone di tutto.

Ad un cero punto, però, compare il serpente e anch’esso entra in dialogo con la donna. Riprende le parole di Dio, ma non lo fa rispettando il pensiero di Dio. Ci aggiunge parole sue: piccole parole, insidiose, che bastano a generare nella donna il sospetto che Dio sia diverso da come si era manifestato nel giardino.

Dio aveva detto che l’uomo poteva mangiare di tutti gli alberi del giardino, tranne uno (“Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino” - Gn 2,16-17); il serpente chiede se è vero che non devono mangiare di nessun albero del giardino (“È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino?” - Gn 3,1). Le parole cambiano di poco, ma il senso cambia completamente.

Il serpente vuole separare l’umanità dal suo creatore, e lo fa dicendo parole che generano nel cuore dell’uomo una menzogna, un’immagine distorta di Dio. Ma non si tratta solo di un’immagine distorta di Dio. Ad essa, infatti, corrisponde un’immagine distorta dell’uomo, che cessa di essere una creatura amata, e vive nel senso di colpa, nell’inganno di chi deve riconquistare la benevolenza di Dio.

Quest’immagine rimane impressa nel profondo della memoria umana, e dilaga velocemente, come solo la menzogna sa fare. Per cui l’uomo diventa incapace di portare il peso della verità (“Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso” - Gv 16,12) e diventa schiavo di una menzogna, dalla quale da solo non riesce a liberarsi.

Cosa può portare di nuovo l’uomo alla verità di sé, alla verità di Dio? È ciò che Gesù descrive nel Vangelo di oggi.

Lo Spirito non fa come il serpente: non aggiunge nulla alle parole di Gesù e non toglie nulla. Non ci mette del suo, perché vive nella stessa realtà di Gesù, perché sa che sono parole vere, che bastano alla salvezza dell’uomo. Quelle parole sono anche sue.

Allora può prenderle, perché nella Trinità tutto è in comune, e ci si dona reciprocamente gloria prendendo l’uno dall’altro, senza timore. Se tutto è in comune, posso prendere ciò che è dell’altro e non gli tolgo nulla, anzi: così facendo, confermo la verità della comunione che ci unisce.

Per l’uomo questo modo di vivere è un peso, una fatica: se qualcuno ci toglie qualcosa ci sentiamo mancanti, defraudati.

Nella Trinità è il contrario. Allora l’opera di Dio è portarci pian piano dentro questo nuovo modo di vivere e di pensare, quello della comunione.

L’umanità che ascolta le parole menzognere del serpente si trova alla fine isolata, povera e dispersa.

L’umanità che accoglie le parole di Gesù, quelle che lo Spirito prende e fa vivere in noi, ritrova la verità di sé e la verità di Dio. La verità della comunione e dell’amore reciproco, che rende l’umanità ricca di bene, di relazioni, di vita.

Questa è la “cosa futura” di cui parla Gesù (“lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future” - Gv 16,13): ci è data, ma va accolta ogni giorno, sta davanti a noi come l’unica cosa che non passa, che rimane anche quando tutto il resto viene meno.

 

+ Pierbattista

Patriarcato Latino di Gerusalemme

 

 

 

sabato 24 maggio 2025

FARE MEMORIA


-- 25 maggio 2025-

VI Domenica di Pasqua 

Gv 14,23-29

L’invito a ricordare percorre

 tutto l’Antico Testamento.


Meditazione Di S.B. Card. Pizzaballa, 

patriarca L. Gerusalemme

 

In alcuni Libri, come ad esempio in Deuteronomio, l’invito si fa pressante, perché per il popolo che si prepara ad entrare nella terra promessa non c’è possibilità di vita se non a partire dal ricordo di ciò che Dio ha compiuto per esso, della liberazione che Dio ha operato.

L’invito a ricordare ritorna spesso, ed è pressante, proprio perché l’uomo, da parte sua, tende a dimenticare.

Per cui il grande lavoro dei profeti è quello di riportare alla memoria del popolo ciò che Dio ha fatto, e, prima ancora, quello di far vivere il popolo nella memoria stessa di Dio, ovvero nella sua presenza.

Perché il grande peccato del popolo è quello della dimenticanza: si dimentica Dio, e si rivolge agli idoli.

Ancora una volta, però, la storia della salvezza insegna che ricordare non è opera di cui l’uomo sia capace da solo, con le proprie forze. L’uomo sa dimenticare, ma non sa ricordare, e si allontana dalla forza sorgiva della storia di Dio. E quando dimentica, in realtà l’uomo perde la propria identità, perde se stesso, perde la vita, perché noi siamo la Parola che Dio dice in noi e per noi.

Il brano di Vangelo di oggi (Gv 14,23-29) custodisce proprio al centro questo verbo, ricordare: “Lo Spirito Santo vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,26). È un versetto centrale per la vita dei discepoli del Signore, e su questo ci soffermiamo.

La prima cosa da notare è che questa memoria è dono dello Spirito. Non è un movimento psicologico, uno sforzo umano. Sarà lo Spirito a operare questa memoria nei credenti, a far ricordare loro le parole del Signore, a mantenere viva in loro la memoria di Dio. Non si tratta quindi di sforzarsi di trattenere qualcosa di ciò che Gesù ha detto, ma di rimanere aperti allo Spirito, di lasciarlo agire.

Lo Spirito, però, non fa archeologia del passato, non ripete semplicemente quello che Gesù ha detto, ma piuttosto rende viva la sua Parola in noi. La memoria di Dio non è ritorno nostalgico a qualcosa che è passato, che è finito, ma esattamente il contrario. Lo Spirito ci ricorda la Parola perché la fa vivere dentro di noi, la rende sorgente della nostra vita, criterio di discernimento per ogni nostra scelta, desiderio e volontà di farla passare nelle nostre parole e nei nostri gesti.

Non bisogna aver paura di dimenticare qualcosa, bisogna piuttosto rendersi disponibili allo Spirito, farsi attenti alle sue ispirazioni, che nascono nel profondo nel nostro cuore, in qualsiasi momento.

Lo Spirito, dice il Vangelo, non solo ricorda, ma anche insegna. La memoria di Dio in noi passa anche attraverso una comprensione profonda della vita di Gesù. Non basta un ascolto superficiale, è necessario imparare a conoscere e a riconoscere i lineamenti del volto di Cristo, il suo pensiero, la logica profonda che lo ha animato. Se si comprende qualcosa, allora poi lo si ricorda.

Infine, un ultimo elemento legato a questo versetto, è il fatto che la memoria di Gesù operata dallo Spirito in noi ha una certa pretesa di totalità: lo Spirito insegnerà ogni cosa e ricorderà tutto quello che Gesù ha detto.

Questa totalità non indica tanto la somma di tutte le cose che Gesù ha detto e fatto.

Piuttosto sta a dire che si riferisce alla persona stessa di Gesù, alla sua presenza, al significato della sua vita. Lo Spirito in noi rende presente questo. Non ci spinge semplicemente a compiere un’azione piuttosto che un’altra, a ricordare una Parola piuttosto che un’altra, ma a rivivere ciò che Gesù ha vissuto, o, meglio, a vivere come Gesù ha vissuto.

E questa pretesa di totalità la troviamo sintetizzata nel versetto successivo a quello su cui ci siamo soffermati, dove leggiamo: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace” (Gv 14,27).

La pace è il primo dono del Risorto, è la pienezza dei doni, la presenza del Regno di Dio fra di noi. È la riconciliazione “totale”, con il Padre e tra di noi, che Gesù realizza grazie alla sua Pasqua, grazie al suo andare al Padre (Gv 14,28).

Allora, potremmo dire, che lo Spirito ci ricorda la pace, ci riempie di pace.

Rende presente in noi il Signore Gesù e la sua opera di pace, di riconciliazione, di comunione.

E per questo il nostro cuore può non essere turbato e, nonostante tutto, può non avere timore: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore” (Gv 14,27).

 + Pierbattista

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sabato 11 gennaio 2025

IL CIELO SI APRI'


 12 gennaio 2025

Battesimo del Signore

 Luc 3, 15-16.21-22


Commento di Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme

La festa dell’Epifania, che abbiamo da poco celebrato, ci dice qualcosa di fondamentale per la nostra fede.

Ci dice che Dio si rivela, che non rimane nascosto: il suo mistero d’amore, che era rimasto nascosto nei secoli, ora è rivelato, ed è rivelato pienamente. Gesù, il Verbo che ha preso la nostra carne, ci svela questo mistero, ci svela il Volto del Padre.

Tutta la storia della salvezza è costellata di piccole e di grandi teofanie. Ora tutto si condensa nella storia di Gesù: guardando a Lui noi vediamo, per quanto possiamo, il Volto del Padre, cioè la sua stessa essenza, il suo modo di essere.

Abbiamo visto nell’Epifania che il modo di rivelarsi di Dio è paradossale. Normalmente, chi vuole rivelarsi si mostra. Dio, invece, per rivelarsi si nasconde. Si nasconde non per il gusto di farsi cercare, ma perché la carità è così, è qualcosa che accade nel segreto, che si consegna senza clamore.

La festa del Battesimo, che celebriamo oggi, ci conferma in questa direzione.

Gesù scende al Giordano, dove Giovanni sta battezzando e, nascosto in mezzo a tutti gli altri, come tutti gli altri, riceve il battesimo (“Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì” - Lc 3,21). Dal racconto di Luca sembra proprio che nessuno se ne accorge, nessuno reagisce, nemmeno Giovanni il Battista. Accade, in fondo, quanto abbiamo ascoltato nel Prologo di Giovanni: è venuto in mezzo ai suoi, ma i suoi non lo hanno riconosciuto (Gv 1,11).

Uno solo vede quanto sta accadendo, cioè il Padre: solo Lui si accorge che il Figlio, sottomettendosi a questo gesto penitenziale, ha sposato in tutto la nostra umanità ferita.

Si è accorto ed ha esultato (“e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»” - Lc 3,22). Ha esultato perché l’uomo che si era perso all’inizio dei tempi e che il Padre incessantemente aveva cercato, ora, finalmente, è stato ritrovato. Il Padre lo ritrova proprio qui, immerso nel Giordano.

Sono tanti i significati legati al luogo e al momento. Qui, ad esempio, Gesù è presentato anche come il nuovo Mosè, che riparte dal Giordano il cammino di liberazione. Ma oggi ci soffermiamo su un altro aspetto, sempre legato al luogo.

Il fiume Giordano è il più misero dei fiumi.

Scorre sotto il livello del mare, e sfocia nel mar Morto, in un luogo dove come tutti sanno non ci può essere vita. Proprio nel capitolo successivo a questo capitolo terzo che stiamo leggendo, Gesù cita Naaman, il Siro (Lc 4,27). Naaman è un funzionario arameo, malato di lebbra: viene in Israele per farsi guarire, e il profeta Eliseo lo manda a bagnarsi sette volte nel fiume Giordano (2Re 5,1-19). Davanti a questa proposta, Naaman rimane scandalizzato, perché anche i più sconosciuti fiumi di Damasco sono migliori di tutte le acque di Israele, del Giordano e dei suoi miseri affluenti.

In questo fiume, invece, Gesù non ha vergogna di immergersi: si immerge nell’abisso della nostra umanità fragile, povera, e vi porta tutta la bellezza della sua vita filiale, al punto che le due cose diventano inseparabili e inscindibili. La nostra umanità diventa il luogo della vita di Dio.

Non ci deve sfuggire questa cosa: immergendosi nella nostra umanità, Gesù la trasforma, la porta a compimento, la rivolge verso il suo fine ultimo.

E c’è un salmo, il salmo 114, che dice bene questo cambiamento di corso, questa trasformazione: è un salmo che ricorda l’esodo, la liberazione dall’Egitto, che viene descritta con immagini simboliche e poetiche.

Una di queste immagini riguarda proprio il fiume Giordano, che, al passaggio del Signore, si volge indietro, cambia corso (“Che hai tu, mare, per fuggire, e tu, Giordano, per volgerti indietro?” - Sl 114,5). È così: quando il Signore si immerge nel Giordano, il Giordano cambia corso; non corre più verso la morte, ma ritorna verso la sua sorgente, verso Colui che gli dà vita.

La stessa cosa vale per noi: quando il Signore si immerge nella nostra vita, noi non siamo più in cammino verso la morte, la nostra storia non è più una storia destinata al nulla. Al contrario, camminiamo verso il nostro Principio, e diveniamo via via sempre più vivi, della vita stessa di Dio.

Ogni giorno ci è semplicemente chiesto di assecondare questo movimento, di partecipare a questo cammino, di ritornare alla sorgente, a ciò che ci fa veramente vivere.

+ Pierbattista

PATRIARCATO  L.  DI GERUSALEMME

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sabato 2 novembre 2024

AMARE DIO e I FRATELLI



*XXXI Domenica 

del Tempo Ordinario B*

3 novembre 2024-

Vangelo: Mc 12, 28b-34


Commento di S.B. Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme 

 Abbiamo visto, domenica scorsa, che per Gesù voler bene ad una persona significa fermarsi davanti a lei e per lei: Gesù è a Gerico e sta salendo a Gerusalemme, per donare la sua vita.

Ma durante quel cammino per Gesù donare la vita significa fermarsi e prendersi a cuore il dolore di quella persona, di Bartimeo, che grida e si rivolge a Lui per avere di nuovo la vista. Gesù si ferma, lo incontra, lo guarisce.

Ascoltare

Amare, dunque, è anche fermarsi ed ascoltare, prendersi a cuore.

Nel brano di oggi vediamo che Gesù è giunto a Gerusalemme. È la città dove si sale dove l’amore per Dio trova espressione concreta e visibile: offrire il culto e i sacrifici all’unico Dio e Signore.

Il brano, inoltre, è proprio ambientato nel tempio, nel luogo dove Dio abita, e dove si entra per adorarlo.

Ci troviamo al capitolo 12 di Marco. Nel capitolo precedente vi è la descrizione dell’ingresso di Gesù che entra solennemente nella Città santa. Nei giorni successivi al suo ingresso, si reca al tempio ed entra in dialogo con i capi religiosi, con i dottori della legge, che in fondo hanno già deciso di ucciderlo. E i dialoghi che Marco racconta non migliorano la sua situazione. Gesù parla con libertà, e questo non contribuisce certo a metterlo in buona luce. Eppure, ancora una volta, Gesù si ferma, non fugge l’incontro nemmeno con coloro che gli sono ostili.

Dentro questo contesto l’evangelista Marco inserisce il dialogo tra Gesù e uno scriba, che lo interroga su quale sia il primo comandamento: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?” (Mc 12,28).

Amare

La risposta sarebbe in fondo semplice: il primo comandamento è amare Dio.

Ma Gesù non si ferma a questa prima risposta, come a dire che questa risposta, da sola, è in qualche modo incompleta, e aggiunge anche quale sia il secondo: “Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi” (Mc 12,31).

Non basta salire a Gerusalemme, entrare nel tempio e rendere gloria a Dio. Non è solo in questo la pienezza della legge. La pienezza della legge passa anche da Gerico, e chiede di fermarsi davanti al dolore di un povero che non ha nulla e non conta nulla davanti agli occhi della gente. Non si può salire a Gerusalemme senza passare per Gerico.

Spesso, per noi, è facile scegliere qualcosa ed escludere qualcos’altro, e provare a semplificare la vita eliminando qualcosa di ciò che rende complesso il vivere e l’amare.

Servire

Se è vero che il fine del cammino di ciascuno è quello di arrivare ad avere un cuore capace di amare, il rischio è quello di tenere divisi gli ambiti e gli spazi: posso scegliere di amare Dio, senza preoccuparmi minimamente di chi mi sta accanto. Oppure, al contrario, posso amare appassionatamente le persone, tenendo fuori Dio dal mio cuore, come se Dio non c’entrasse con l’attenzione al povero. Come se necessariamente dovessimo scegliere.

Gesù chiede, invece, di non escludere né l’uno né l’altro, perché questi due amori non sono antagonisti, non si fanno mai la guerra. Anzi, nessuno di questi due amori basta a se stesso, per il semplice fatto che Dio e l’uomo sono uniti da un profondo legame, da una misteriosa unità: non si può amare l’uno senza amare anche l’altro. Dio non vuole essere amato da solo.

È interessante che lo scriba non solo è d’accordo con Gesù, e aggiunge un suo commento: amare così vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici: “Hai detto bene, Maestro … amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici” (Mc 12,32-33).

Se pensiamo che queste parole sono pronunciate nel tempio, e che gran parte della religiosità di Israele ruotava intorno ad olocausti e sacrifici, allora vediamo che davvero questo scriba non è lontano dal regno di Dio (Mc 12,34). Perché il regno di Dio è esattamente questa esperienza di un amore gratuitamente ricevuto, e che va semplicemente condiviso con tutti coloro che, come Bartimeo, siedono ai cigli delle strade a chiedere pietà.

+ Pierbattista

 Patriarcato di Gerusalemme

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sabato 25 maggio 2024

UNO E TRINO


- Domenica 26 maggio 2024

 Solennità della SS Trinità

 

Vangelo: Mt 28, 16-20

Commento del Patriarca di Gerusalemme, Card. Pierbattista Pizzaballa

 

In questa festa della SS. Trinità ascoltiamo gli ultimi versetti del Vangelo di Matteo (Mt 28,16-20): è l’incontro del Risorto con i suoi discepoli, l’unico incontro raccontato dall’evangelista. Un incontro che coincide con un invio in missione, il mandato con cui Gesù invia i suoi discepoli a portare ovunque l’annuncio del Regno.

 Essendo un brano conclusivo, è anche un brano che fa da sintesi a tanti elementi centrali di questo Vangelo, e noi oggi ci soffermiamo su alcuni di essi.

 Il primo elemento lo deduciamo da un verbo importante, che in Matteo ritorna ben 57 volte, ovvero il verbo avvicinarsi (Mt 28,18): i discepoli raggiungono la Galilea, dove Gesù ha dato loro appuntamento tramite le parole delle donne (Mt 28, 10), ma è Gesù che si avvicina a loro, non viceversa.

 In effetti, la Galilea è il luogo dove Gesù si era già una volta, per primo, si era avvicinato alla loro vita, dove li aveva visti e li aveva chiamati. E, dopo la sua risurrezione, Gesù continua a fare sostanzialmente questo, a farsi vicino, ad incontrare, a cercare di instaurare una relazione.

 Con la sua vita e con la sua morte Gesù ha rivelato questo, ha rivelato il Volto di un Dio che si fa vicino. Un Dio che non rimane lontano dalla nostra vita, impassibile, ma si è messo in gioco, si è avvicinato.

 La Pasqua non ha interrotto questo cammino di avvicinamento, anzi, al contrario, l’ha reso possibile per sempre e per tutti, al punto che il nome stesso di Dio parla di questa vicinanza: nel Libro dell’Esodo, infatti, Dio si era rivelato a Mosè con il nome di “Io sono” (Es 3,14). Ma qui, alla fine del Vangelo di Matteo, Gesù completa questo Nome, lo rivela in modo definitivo, e dice che questo Nome è “Io sono con voi” (Mt 28,20). Noi siamo entrati nel nome stesso di Dio, facciamo parte di Lui, come se Lui non potesse più esistere senza di noi.

 E questo non per qualche giorno, non per un periodo, ma per sempre, tutti i giorni, fino alla fine del mondo. Per dire che non c’è un momento della storia, fosse il più buio e il più terribile, in cui Lui non è con noi, non si fa vicino, per portare insieme a noi il peso della vita, per aprire un cammino di speranza.

 Questo brano conclusivo, dunque, dice qualcosa di molto importante su chi è Dio, e su come questo Dio si è rivelato nella persona del Signore Gesù.

 Ma non solo. Dice anche qualcosa della comunità dei discepoli, e qualcos’altro ancora sull’umanità intera.

 La comunità dei discepoli che raggiungono la Galilea, a cui Gesù si avvicina, è una comunità molto particolare, perché è una comunità mancante e ferita.

 I discepoli non sono più dodici, ma sono undici (Mt 28,16), non solo perché uno è colui che ha tradito e si è allontanato, ma anche perché la sua assenza ricorda a tutti che tutti in qualche modo hanno tradito, hanno lasciato solo il loro Maestro nel momento della prova.

 In più, Matteo precisa che questa comunità è piena di dubbi (Mt 28,17), e fatica a riconoscere il suo Signore.  La comunità dei discepoli è una comunità imperfetta, e tale sempre rimarrà.

 Ma questo non impedisce al Signore di inviarla a tutti gli uomini, perché non dovrà annunciare se stessa, le proprie perfezioni e le proprie imperfezioni, ma solamente ciò che Gesù stesso ha fatto, ovvero avvicinarsi: Gesù li manda perché vadano tra la gente (Mt 28,19). Non devono aspettare che la gente vada da loro, ma dovranno esser loro a fare il primo passo, proprio come il Signore aveva fatto con loro.

 Tutti i popoli (Mt 28,19) sono destinatari di questo annuncio, perché tutti i popoli sono in attesa dell’incontro con il Signore. Un incontro che nessuno può darsi da solo, così come l’amore nessuno può darselo da solo, ma può solo esserci donato.

 L’incontro tra persone, il farsi vicini gli uni agli altri, questo sarà il luogo attraverso cui saremo immersi nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo e attraverso cui diventeremo discepoli del Signore Risorto, ovvero persone che imparano pian piano, giorno dopo giorno, a gustare il suo amore e a vivere in esso.

 + Pierbattista

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