in comune
le
«generazioni»?
-
di Alessandro D’Avenia
In
questi giorni in cui inauguravo l'anno con una nuova classe di quattordicenni
ho incontrato tre ex-alunni, guarda caso tre tornate di maturità: 30, 25 e 20
anni. Questi incontri mi hanno fatto riflettere
sull'unità di misura che segna il tempo di noi insegnanti: il lustro, cinque
anni, dal primo di superiori alla maturità. Un lasso di tempo che sembra
segnare anche i cambi di generazione. Se prima si contavano in quarti o quinti
di secolo ora le generazioni paiono mutare ogni lustro, tanto che lo stesso studente
ventenne, raccontandomi un episodio di interazione con alcuni quindicenni, si
diceva profondamente diverso da loro alla stessa età. Ma di che cambiamento
parliamo? Che cosa cambia e che cosa rimane uguale? E noi che re(si)stiamo in
cattedra che cosa abbiamo da dire o da dare a ragazzi che mutano così
rapidamente?
I
ragazzi di oggi
Alla
domanda che mi viene rivolta spesso: come sono i ragazzi di oggi? Rispondo:
come sempre, come te e me alla loro età. La risposta spiazza, convinti come
siamo che l'unico tempo esistente sia quello lineare e dettato
dall'accelerazione del progresso.
Allora,
parlando di «lustri» (dal latino lavare: la lustratio era il rito di
purificazione della città dai mali che nell'antica Roma avveniva ogni cinque
anni), provo a «illustrare» (pulire: rendere chiaro) qualche punto oscuro del
rapido divenire che rende più evidente ciò che invece non cambia mai.
Mutano
le abilità
Con
il cambio automatico guidare è più facile ma si diventa più disattenti; da
quando ci sono i cellulari molti ragazzi non sanno leggere l'orologio a
lancette ma sanno girare un video; si stanno diffondendo strumenti capaci di
tradurre istantaneamente il parlato in altre lingue: perderemo capacità e
voglia di imparare le lingue? Ci capiremo meglio o peggio? Vedremo. Già Platone
temeva che la scrittura ci avrebbe fatto «perdere» la memoria, nessuno avrebbe
più «mandato» a mente l'essenziale ma lo avrebbe «demandato» al supporto
scritto.
Aveva
ragione, ma proprio grazie a questo (oltre ad avere i suoi capolavori) la
memoria si sgravò dell'eccessivo peso di conservazione tipico delle culture
orali, aprendosi a nuove conoscenze. Ed è stato un bene tanto che nessuno si
sognerebbe di tornare indietro. Da questo punto di vista l'IA avrà un impatto
pari se non superiore all'uso della scrittura. D'altronde questo è lo scopo
della tecnica: sollevare l'uomo dal peso del lavoro per guadagnargli riposo e
tempo.
Però
oggi ci sono due novità paradossali.
La
prima è che il tempo liberato dalla tecnologia lo utilizziamo per altra
tecnologia (stare sul cellulare; le e-mail che dovevano alleggerirci sono
invece diventate un lavoro a sé...).
La
seconda è che nel XX secolo abbiamo creato per la prima volta strumenti che
invece di alleggerirci possono vaporizzarci (la bomba). E l'AI, a detta dei
suoi stessi inventori (si vedano su queste pagine le due recenti interviste di
Riccardo Luna ai Nobel e padri dell'AI, Geoffrey Hinton e Yoshua Bengio), avrà
derive simili se non sarà regolamentata e la si lascerà in mano all'industria
bellica e alle logiche di mero profitto delle big tech.
Ma
in mezzo ai mutamenti, più o meno profondi, delle nostre abilità mi chiedo:
qualcosa resta invariato? Che cosa mi permette ancora di educare i ragazzi nati
dopo Internet, quelli nati dopo il cellulare, quelli nati dopo l'AI e chissà
cos'altro?
Che
cosa hanno in comune le «generazioni» (oggi usiamo il termine per indicare
l'ultimo modello di telefono o di pc e non le persone)? Un ragazzo maturato nel
1995 e uno che si maturerà nel 2030, sette lustri dopo, fioriscono allo stesso
modo? Sì. E la risposta è proprio nella parola «generazione»: ciò che non
cambia è «essere generati». La radice (gen-) tanto antica quanto feconda
contiene l'insieme di generare, nascere e diventare come mostrano i molteplici
quotidiani esiti lessicali: genio, genitori, genuino, genitali, generoso,
gentilezza, genere, genetica, genoma, gene, genocidio, genealogia, fotogenico,
idrogeno, ossigeno, cosmogonia...
Tutti,
proprio tutti nella storia, abbiamo una sola cosa in comune: il fatto di essere
figli. Questa condizione è quindi per natura il cardine dell'esistenza, e
quindi rafforzare, aiutare, confortare – in una parola educare – questa
condizione è la chiave di ogni vita riuscita, in particolare se in
formazione.
Sentirsi
generato
Ma
che significa sentirsi (non basta esserlo materialmente) «generato»?
Sperimentare che la vita che abbiamo è ricevuta, non ce la siamo data da soli
ed è illusorio volerlo fare, e che per ri-generarla bisogna attingere a una
fonte che non è in noi. Diventare «sempre più» figli significa (imparare a)
ricevere la vita, sentirsi voluti al mondo e saper cercare nel mondo ciò che ci
serve per compierci, qualsiasi siano le condizioni contingenti. Quello che ha
fatto fiorire un ragazzo maturato nel 1995 e ne farà fiorire uno che si
maturerà nel 2030 è quanto si sente figlio, cioè, generato alla vita e voluto
in essa, in ogni istante.
Non
è un caso che il DNA letterario del Sapiens, l'Odissea, non cominci con Ulisse
ma con il figlio, Telemaco, che per diventare adulto deve prima trovare il
padre. Ma per farlo gli occorre una nave con la quale lasciare Itaca. E noi
quali strumenti scegliamo perché i ragazzi salpino verso la vita? Quelli che li
rendono più generati e quindi più generosi?
Il
cellulare
Per
esempio, il cellulare prima di una certa età non genera ma de-genera. E non è
questione di poco conto, perché poi da quanto sono e mi sento generato dipende
quanto sarò generativo, cioè capace di creare e ampliare la vita: è genuino,
generoso, gentile chi si sente voluto al mondo, solo chi è grato della vita
ricevuta ne provoca altrettanta. «Io ogni giorno porto felicità a qualcuno» ha
sentenziato una bambina di 7 anni che conosco. Non saprei esprimere meglio la
condizione di chi è e si sente figlio. Ci accade, a 7 o 77 anni, quando siamo
destinatari di un atto creativo o lo compiamo.
Amare
rigenera
Il
verbo che racchiude ogni atto creativo è «amare» ma si coniuga nei modi
originali in cui ciascuno di noi pro-crea, cioè, fa vita nuova o fa nuova la
vita: scrivere, dipingere, accarezzare, cucinare, incoraggiare, studiare,
suonare, raccontare, passeggiare, curare, guardare negli occhi, lavorare, fare
sport, prendere per mano, riposare, correggere, parlare, abbracciare, ascoltare,
sorridere...
Tutto
ciò che è fatto per amore e per amare ha un effetto d'essere: (ri-)genera. E
allora come sono i ragazzi oggi? Come sempre: più o meno generati, affamati di
sentirsi unici, voluti al mondo da chi li educa. Questo permette non solo di
imparare bene la matematica, la biologia e l'italiano, ma di servirsene per
essere e diventare se stessi, senza dover vendersi, tradirsi, fingere per
ricevere un po' di amore, perché in un mondo che cambia a ogni lustro, l'amore
non cambia mai.