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sabato 16 agosto 2025

DOV'E' TUO FRATELLO ?



Zuppi: 

dov’è Abele, 

tuo fratello?

I nomi dei bambini uccisi 

dalla guerra 

in Palestina 

Dai fratellini israeliani Bibas agli oltre 12mila bimbi palestinesi uccisi dalla guerra, ci sono volute 424 pagine e diverse ore di lettura per fare memoria delle vittime innocenti.

«Non c’è classifica nel dolore»


- di CHIARA PAZZAGLIA

Kfir Bibas, pochi mesi. Ariel Bibas, 4 anni. Poi Abdullah Mohammed Riyad Abdullah Al-Sayed Kul, pochi mesi. Mohammed Amer Yasser Al-Masri, pochi mesi. E via così, per una lettura lunga 424 pagine. Prima i 16 bambini israeliani morti nel raid del 7 ottobre 2023, poi gli oltre 12.000 palestinesi, tra zero e 12 anni. Il doloroso elenco di quelli che non avevano ancora compiuto l’anno d’età impegna ben 34 pagine. Il cardinale Matteo Maria Zuppi, tra le rovine della chiesa di Casaglia a Monte Sole, in Comune di Marzabotto, teatro della più sanguinosa strage di civili (tra cui centinaia di bambini) della seconda guerra mondiale, legge nomi ed età delle vittime del conflitto israelo-palestinese insieme alla Piccola Famiglia dell’Annunziata, cui la Diocesi ha affidato questo luogo che è anche meta giubilare nell’Anno Santo, purtroppo funestato da guerre e violenza. « La sofferenza dei bambini è quella che deve colpire più di tutti» dice Zuppi, che cita Dossetti e Dostoevskij, ricordando che «le lacrime dei bambini sono la cosa più insopportabile e quindi ci rendono insopportabile la violenza». Lo scopo di questa iniziativa è soprattutto quello di scuotere le coscienze affinché si possano «scegliere altre vie», senza «mettere più in pericolo la vita degli innocenti». E, come ricorda Paolo Barabino, superiore della Piccola Famiglia dell’Annunziata, non si tratta solo di una cerimonia di denuncia civile, ma soprattutto di una preghiera, alla vigilia dell’Assunzione di Maria, cui è dedicato quel che resta della chiesa di Casaglia. Lo scopo, dice il monaco, non è solo commemorativo, ma «riportare il grido degli innocenti ha anche il senso di affidarci a loro, credendo che sono vivi in Dio». I bambini, infatti, esulano da ogni possibile polemica e «disarmano le coscienze. 

La nostra presenza di preghiera – prosegue Barabino - è attaccata alla storia. I sentieri dove passiamo, dove preghiamo, sono intrisi di sangue, di grida, di chi scappava, di chi inseguiva. Tutto questo ci fa ancora oggi, così come anche Dossetti desiderava, una presenza orante, ma non per noi stessi, bensì con il senso di una preghiera per il mondo». Come si può cominciare a lavorare adesso per una possibile riconciliazione dei conflitti che stiamo vivendo? «Questo è un problema enorme. Vediamo un odio che cresce e ci chiediamo come far vincere nelle coscienze anche cristiane la parola del Vangelo rispetto al grido della pelle, perché il grido della pelle chiede di vendicare il sangue, l'ingiustizia, l'occupazione. E allora bisogna compenetrare la giustizia e anche la ricerca della fratellanza con l'altro. E questo è difficilissimo: è molto importante certamente la fede, per chi ce l'ha. Qui a Marzabotto e Monte Sole anche chi non ha avuto fede è riuscito a fare un cammino per cessare di odiare, per non volere il male dell'altro. Un cristiano forse riesce più a dire la parola perdono, ma ci sono tante coscienze che sono riuscite a dire “io non odio”. Questo è già uno scalino importantissimo».

E così, il cardinale Zuppi cerca di trasformare il dolore presente in speranza futura. « La preghiera non ci porta fuori dal mondo, ma dentro. La sofferenza diventa intercessione, perché la creazione e le creature chiedono vita, futuro, speranza. Non chiedono guerra, ma pace! Ogni nome di bambini uccisi è una richiesta a Dio, ma anche agli uomini, perché li ascoltiamo, ci lasciamo toccare dall’ingiustizia che ha travolto la loro fragilità. La loro morte, di tutti loro e di ognuno, susciti le lacrime di commozione e le scelte finalmente lungimiranti di pace e non tragicamente opportunistiche. Non c’è classifica nel dolore. Siamo qui per chiedere che nella Terra Santa ogni persona, a cominciare dai più piccoli, non perda la sua vita per colpa di suo fratello».

Il cardinale ha poi invitato a riflettere intorno a due domande. « La prima: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Dio custodisce Abele e difende sempre la fraternità. Noi? E la seconda: “Che hai fatto?”, come hai potuto farlo, ma anche “cosa non hai fatto quando mi hai visto che avevo fame, sete, ero nudo, carcerato, malato?”. “Dove sei tu, dove sta il tuo cuore?». Sullo sfondo, Zuppi pone un terzo interrogativo, «la domanda - dice - che ci deve inquietare: abbiamo fatto tutto quello che potevamo per la pace?».

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venerdì 15 agosto 2025

L'ASSUNTA e UNA CHIESA DAL CUORE GIOVANE

 


LA FORZA UMILE DEL

 VANGELO”




- + Matteo Maria Zuppi

La Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente celebrano assieme la festa dell’assunzione di Maria al cielo.

Sono passati 1700 anni dal primo grande Concilio ecumenico, quello di Nicea, dove, per custodire l’unità, tutti si riconobbero nel Simbolo di fede: “Noi crediamo”.

La dolce memoria della Tutta Santa aiuti a ricercare con rinnovata passione l’unità visibile e la comunione tra i fratelli, anche perché divisi siamo solo più deboli e meno credibili di fronte all’inquietante forza del male.

L’umile ragazza di uno sperduto villaggio della periferia dell’Impero è stata scelta per diventare la madre del Figlio.

Non ha risolto tutti i dubbi, ma crede nel compimento della Parola.

Lei è la prima a sperimentare la nuova ed eterna alleanza che solleva la nostra umanità mettendo pace tra terra e cielo.

Annalena Tonelli aveva detto parlando sé: « Luigi Pintor, un cosiddetto ateo, scrisse un giorno che non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi.

Così è per me.

È nell’inginocchiarmi perché stringendomi il collo loro possano rialzarsi e riprendere il cammino o addirittura camminare dove mai avevano camminato che io trovo pace, carica fortissima, certezza che tutto è grazia».

Gesù si è abbassato perché possiamo alzarci stringendoci a Lui e sollevarci fino in cielo, come nell’immagine della dormizione di Maria.

Papa Leone rivolgendosi al popolo di giovani radunati a Tor Vergata per il loro Giubileo con tanta paternità e fiducia in loro ha detto: « Aspirate a cose grandi, alla santità ovunque siate.

Non accontentatevi di meno».

Non vivacchiare e non avere paura di scegliere.

Erano giunti a Roma da tanti Paesi del mondo, compresi quelli in guerra.

In una generazione che ha perso le spinte unitive e la convinzione di amare e difendere la casa comune, i giovani hanno vissuto una esperienza della Chiesa veramente cattolica, famiglia universale che fa sentire a casa ovunque e chiunque.

Abbiamo vissuto concretamente tanta comunione.

« L’amicizia può veramente cambiare il mondo.

L’amicizia è una strada per la pace», ha detto Papa Leone, «perché è proprio vero che ama veramente il suo amico colui che nel suo amico ama Dio».

«Vogliatevi bene tra di voi!».

Viviamo una stagione fosca, attraversata piuttosto da tanta incertezza e crediamo poco possibile “volersi bene” e amare la vita dal suo inizio alla sua fine.

La speranza, però, attraversa i problemi, non li evita o non finisce quando sperimenta il veleno della delusione!

La spianata di Tor Vergata che ha raccolto, a perdita d’occhio, quei giovani del mondo, è stata come un abbraccio che smentisce l’insuperabilità dei conflitti: migliaia di migliaia, gli uni accanto agli altri, non gli uni contro gli altri o senza gli altri.

Quel popolo di giovani ha mostrato con chiarezza la forza dell’incontro, la potenza dell’abbraccio, la bellezza del noi, l’importanza dell’ascolto, la gioia della festa: tutto era teso ad unire mentre il mondo continua a dividersi.

È una realtà non perfetta.

Liberiamoci di un modo ipercritico, di letture negative che non sanno più vedere il bello e la presenza di Dio nella creta della nostra contraddittoria umanità.

Gli inizi sono sempre umili.

È un grande segno che le Chiese e le comunità civili devono saper decifrare.

Non perdiamo l’opportunità.

Gesù quando mancano quattro mesi alla mietitura, ci chiede di «alzare gli occhi e guardare i campi che già biondeggiano» ( Gv 4,35).

La speranza vede il futuro oggi.

Eccole le spighe mature!

Le abbiamo viste coi nostri occhi, sono cresciute anche sui sanpietrini, coprendo tutto lo spazio disponibile!

Questo popolo di giovani ci sollecita a una nuova audacia e a una nuova creatività.

Forse anche a una nuova allegria, non perché non soffriamo ma perché la gioia è forza e sappiamo che non ci mancherà un vestito bellissimo che neanche Salomone aveva.

Non vogliamo minimizzare le sfide che abbiamo di fronte, la congiuntura drammatica dei popoli, ma cerchiamo di avere la gioia della speranza, nutrita dalla fede che accende il sorriso della comunità di inespugnabile determinazione.

I campi già biondeggiano.

Sì, un cristianesimo più lieto che sa commuoversi davvero, e profondamente, sulle numerose folle – nel nostro come in molti altri Paesi, e persino quelle che sono senza Paese – che sono quelle evangeliche «stanche e sfinite come pecore senza pastore».

Lupi rapaci e mercenari interessati continuano purtroppo a venire al mondo.

Il contagio della guerra (59 sono quelle in atto), la logica del più forte che genera la supremazia, il nichilismo che non sa proteggere e curare la vita che è sempre fragile, il riarmo, la paura, godono di una congiuntura favorevole.

Per un attimo ci erano sembrati relitti del passato, disinnescati dal progresso civile del diritto, dell’economia, della tecnica. Invece, ecco arrivare un diritto, una economia e una tecnica, che premiano i nuovi barbari.

Quanto è lontano questo mondo da quel popolo giovanile che esorta invece a recuperare il “primato dell’incontro”, del dialogo, dell’amore, della testimonianza!

La guerra – la persecuzione, la sopraffazione, l’eliminazione, devono diventare motivo globale di vergogna e cessare di raccontarsi come potenza degna di ammirazione.

Come non vedere in quel popolo giovanile la Chiesa che papa Francesco auspicava, ossia una Chiesa che «cammina insieme» agli uomini, partecipando ai travagli della storia e coltivando il sogno di una società fraterna e universale?

La forza umile del Vangelo cambia il mondo e insegna a volersi bene.

Quel popolo di giovani – ma vorrei dire anche la meraviglia della società intera stupita dalla bellezza e dalla forza di questo popolo giovanile radunato assieme – ci sollecita ad abbandonare l’idea depressiva del nostro confinamento in una minoranza insignificante – in certo modo, il cristianesimo è stato sempre minoranza.

Il Concilio invitava a guardare la Chiesa anzitutto come «mistero» di unità e di “comunione” tra gli uomini.

Questo è il suo lievito.

Le nostre Chiese in Italia – sono stato edificato nel vedere i numerosi giovani italiani dare la loro bella testimonianza a quelli degli altri Paesi – sono affettuosamente incalzate dal cammino sinodale a liberarsi da ogni sterile autoreferenzialità, per riscoprire la vera destinazione della fede ecclesiale, che è la liberazione dell’amore di Dio nell’altro e per l’altro.

Poniamo i giorni e i mesi che verranno sotto lo sguardo di Maria Assunta nel cielo per vivere anche noi la sintonia dell’invito che ha inaugurato il ministero petrino di papa Leone: «Costruiamo una Chiesa fondata sull’amore di Dio segno di unità, una Chiesa missionaria, che apre le braccia al mondo, che annuncia la Parola, che si lascia inquietare dalla storia e che diventa lievito di concordia per l’umanità».

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lunedì 5 maggio 2025

NON ARRENDIAMOCI

     Non arrendiamoci 

alla paura, all’indifferenza, all’egoismo.



E' un dialogo,  questo, che passa in rassegna le principali questioni del nostro quotidiano: il molto piccolo e il molto grande, la vita dentro casa e quella nel mondo.

Non rassegniamoci alla solitudine e a un mondo che ci appare spesso disumano, ma che può essere ancora riscattato dalla nostra azione consapevole.

È da questa esortazione che nasce l’appassionata discussione tra Matteo Zuppi, presidente della CEI e arcivescovo di Bologna, e Walter Veltroni, politico, scrittore e regista, guidati da Edoardo Camurri, i due autori si confrontano sui temi decisivi del nostro presente.

Viviamo infatti in un’epoca cruciale, in cui molti sembrano essersi rassegnati alle guerre, alla crisi ambientale e alla minaccia nucleare.

In Non arrendiamoci Zuppi e Veltroni vanno invece alla ricerca di un antidoto alla sfiducia dilagante, ricordandoci i progressi compiuti dagli esseri umani in questi decenni e le risorse a nostra disposizione per poter dare il nostro contributo attivo come singoli e come collettività.

Perché il cambiamento, quando lo si desidera davvero, è sempre possibile, e tutti noi abbiamo il dovere di batterci per orientare il futuro verso il bene dell’umanità.


Zuppi, Veltroni, NON ARRENDIAMOCI, ed BUR

martedì 8 aprile 2025

IL DIRITTO ALLA SPERANZA

 


Il cardinale presidente della CEI invia un messaggio al convegno “La speranza cura: quale diritto nella malattia inguaribile?” tenutosi   presso il Complesso Monumentale di Santo Spirito in Sassia, a Roma

 


Vatican News

“Riflettere se ci sia, in questi tempi di cambiamento d’epoca e di guerre palesi e latenti, un diritto alla speranza”. Questo lo spunto alla riflessione offerto dal cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della CEI, ai partecipanti al convegno La speranza cura. Quale diritto nella malattia inguaribile?. L’appuntamento si svolge oggi, 4 aprile, nel Complesso Monumentale di Santo Spirito in Sassia, in occasione dei quindici anni dall’entrata in vigore della legge n. 38 del 2010 sulle cure palliative e la terapia del dolore e nell'ambito del Giubileo degli Ammalati e del Mondo Sanitario. 

L'ombra dell'eutanasia

In un messaggio letto durante i lavori e indirizzato ai relatori - medici, psicologi, avvocati, docenti di Diritto costituzionale – il cardinale parla di una doppia dimensione del diritto alla speranza: “La prima – scrive - nasce dalle relazioni umane, dalla vicinanza, dalla solidarietà, quella per cui nessuno deve mai essere lasciato da solo”. Zuppi cita le parole di un discorso del 2018 di Papa Francesco – quello ai partecipanti al IV Seminario sull’Etica nella gestione della salute: “Stiamo vivendo quasi a livello mondiale una forte tendenza alla legalizzazione dell’eutanasia. Sappiamo che, quando si fa un accompagnamento umano sereno e partecipativo, il paziente cronico grave o il malato in fase terminale percepisce questa sollecitudine. Persino in quelle dure circostanze, se la persona si sente amata, rispettata, accettata, l'ombra negativa dell'eutanasia scompare o diviene quasi inesistente, poiché il valore del suo essere si misura in base alla sua capacità di dare e ricevere amore, e non in base alla sua produttività”.

Ecco, scrive il presidente della Conferenza Episcopale italiana, “questa è vera speranza e a questa tutti hanno diritto. E una terapia umana integrale. Si nutre di relazione e di cura. È lo sguardo della persona malata sulla propria malattia, cui si unisce la prospettiva sia del curante sia della comunità tutta”.

"Non siamo soli nella speranza"

L’altra dimensione del diritto alla speranza, “nasce dalla Croce e dalla Risurrezione di Cristo”, assicura il cardinale Zuppi. “La speranza è un rapporto di cooperazione tra noi, tra ciascuno di noi, e il Signore della Vita. Non siamo soli in questa speranza: questa è virtù teologale perché impregna il nostro agire e il nostro pensare, impregna positivamente la nostra esistenza. Ci allontana dai nostri egoismi impegnandoci nella costruzione di società fraterne. Questa speranza è un diritto che non è sancito da una qualche umana convenzione, o carta valoriale, ma da un impegno già compiuto da parte di Dio”. Da qui un invito conclusivo: “Lasciamoci inserire in questo cammino giubilare di speranza”.

 Vatican News

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venerdì 28 marzo 2025

PORTARE SPERANZA

Portare speranza in un mondo di divisioni e trincee


Il cardinale presidente della Cei ha guidato Il pellegrinaggio giubilare dell’arcidiocesi di Bologna: mentre oggi si prepara la pace armandosi è quanto mai necessario accendere la speranza ed "essere il riflesso dell’amore di Dio.

 

-         di Isabella Piro – Città del Vaticano

-          Una notizia che “ci riempie di gioia”: così il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), ha commentato le dimissioni, avvenute ieri 23 marzo, di Papa Francesco dal Policlinico Gemelli di Roma, dopo 38 giorni di ricovero per curare una polmonite bilaterale. “Durante questa lunga degenza — ha scritto il porporato in una nota —, ci ha mostrato ‘la benedizione’ che si nasconde dentro la fragilità, perché proprio in questi momenti impariamo ancora di più a confidare nel Signore (Angelus, 2 marzo). Dalla cattedra dell’ospedale, ci ha ricordato quanto è necessario ‘il miracolo della tenerezza’, che accompagna chi è nella prova portando un po’ di luce nella notte del dolore (Angelus, 9 marzo)”. Infine, il porporato ha esortato i fedeli a continuare a sostenere il vescovo di Roma con la preghiera, “così come è accaduto nei dodici anni di pontificato”.

La processione verso la Porta Santa

L’invito a pregare per Papa Francesco e a guardare al suo servizio, che “ricorda a tutti noi di essere servi” nei confronti del prossimo, il cardinale Zuppi lo aveva rivolto in particolare, il 22 marzo, ai circa duemila fedeli di Bologna giunti a Roma in pellegrinaggio giubilare. Nel pomeriggio dello scorso sabato, il porporato ha guidato la processione dei pellegrini bolognesi lungo via della Conciliazione fino alla basilica Vaticana. Quindi, dopo aver attraversato la Porta Santa, all’altare della Confessione, l'arcivescovo ha presieduto la Messa, concelebrata, fra gli altri, dai vicari generali dell’arcidiocesi, i monsignori Stefano Ottani e Giovanni Silvagni, e da alcuni sacerdoti diocesani.

Ripudiare la guerra invece di preparare la pace con le armi

Nell’omelia, il cardinale Zuppi ha sottolineato l’importanza, per i cristiani, di essere “il riflesso dell’amore di Dio” e diventare “segni di speranza”, soprattutto in un mondo che “si divide e si chiude”, in cui i confini sono diventati “trincee e non cerniere”; in un mondo che “esclude il povero”, non accetta lo straniero e ritiene “normale” il fatto che “i nostri fratelli muoiono in mezzo al mare”; in un mondo attraversato da semi di odio, ingiustizia e ignoranza, “che non ripudia la guerra e che pensa di preparare la pace armandosi, invece di investire nelle realtà capaci di risolvere pacificamente e con il diritto i conflitti”; in un mondo che “scarta la vita e la rende insignificante perché non amata”. In un mondo così, ha aggiunto il porporato, è quanto mai necessario sentire “la grazia” di essere del Signore per accendere la speranza, perché “la speranza, a differenza del fatalismo, affronta il male”.

Voler cambiare il mondo non è ingenuità, ma speranza

In fondo, il senso del pellegrinaggio e del Giubileo, ha aggiunto l’arcivescovo di Bologna, è proprio questo: convertirsi per “prendere sul serio la misericordia”, per “essere pieni di speranza” e rianimarla anche nel prossimo, rendendola “contagiosa per quanti la desiderano”. Perché “non è da ingenui voler cambiare il mondo, ma da figli della speranza”.

La Chiesa è comunione

“Abbiamo camminato insieme — ha concluso l’arcivescovo di Bologna — per ritrovarci. La Chiesa è questo: è legame di comunione che ci accompagna anche quando siamo lontani, e che si ritrova attorno a Gesù. Ringraziamo di questo luogo che ci riporta alle origini dell’avventura cristiana, ci aiuta a capire con Pietro chi è il più grande, e a seguire Gesù che ci dà l’esempio, perché anche noi saremo beati se laveremo i piedi gli uni gli altri”.

L’indulgenza è il coinvolgimento nell’Amore

Partiti da Bologna nelle prime ore del mattino, prima di raggiungere San Pietro i pellegrini si sono radunati nella chiesa romana di San Giovanni Battista dei Fiorentini per un momento di catechesi. “L’esperienza del pellegrinaggio — ha spiegato il porporato — ravviva in noi il concetto di indulgenza, che non significa chiudere un occhio o ‘Fai come ti pare!’, ma ci ricorda il nostro coinvolgimento in una storia d’amore”. Citando quindi don Primo Mazzolari, il “parroco di Bozzolo”, il presidente della Cei ha ribadito: “La speranza è un contadino che, nel freddo e nella nebbia di ottobre, vede le messi di giugno”, esortando quindi a far prevalere questa virtù teologale e ad andare “controcorrente” là dove “sembra prevalere l’immobilismo, l’egoismo e il calcolo”.

Combattere il male con la preghiera e la carità

A prendere la parola è stato anche don Andrea Lonardo, originario del capoluogo emiliano-romagnolo, e attualmente docente all’Istituto di scienze religiose “Ecclesia Mater” di Roma, nonché direttore del Servizio per la cultura e l’università della diocesi di Roma, il quale ha ricordato che “attraverso il pellegrinaggio, la carità e la preghiera, il cristiano trova la forza di combattere contro il male”. “Il Giubileo — ha concluso — è un’intuizione antica, ma essenziale anche per l’oggi, perché ci ricorda che il cristianesimo non è un mito: a Roma veramente Pietro è stato ucciso. Dunque, non si può non avere una relazione con la Città eterna e con il suo vescovo”. Infine, c’è stato lo spazio per un momento di animazione e gioco che ha visto protagonisti i numerosi bambini presenti.

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lunedì 9 dicembre 2024

DUE GENERAZIONI, UNA RIVOLUZIONE


 Esce in libreria per Rubbettino “Due generazioni, una rivoluzione”, di Vannino Chiti e Valerio Martinelli, un’opera che propone una riflessione approfondita e costruttiva sulle grandi sfide del nostro tempo, viste attraverso il dialogo tra due generazioni diverse ma complementari. Gli autori, guidati dalle domande di Chiara Pazzaglia, costruiscono un ricco confronto su temi cruciali con uno sguardo attento alla società ma anche alla dimensione spirituale. 


Il testo è arricchito dalla prefazione del Cardinale Matteo Maria Zuppi e dalla postfazione di Romano Prodi. 

Pubblichiamo la prefazione del presidente della Cei.

 

Papa Francesco ha ripetuto spesso che la cosa peggiore dopo una pandemia è restare quelli di sempre, non fare tesoro della sofferenza vissuta per cambiare, per migliorare, rafforzare la consapevolezza che solo insieme c’è salvezza. Quando l’uomo imparerà? La tragica esperienza del Covid ha rivelato la fragilità della nostra condizione e ci ha insegnato che il nostro futuro si gioca tutto sul dialogo tra le generazioni e sulla solidarietà, l’unica che può permettere di affrontare le pandemie. E il male stesso è sempre pandemio. 

 Il primo aspetto è quello, molto concreto e vasto, del ruolo degli anziani nella società e nella Chiesa. 

Ritengo sia decisivo permettere agli anziani un coinvolgimento attivo nella vita sociale. Il primo problema di questa generazione è la lotta contro la solitudine e il senso di inutilità, l’idea di essere “scarto”, nonostante tutto quello che si è potuto dare nella vita. Anche da questa condizione non se ne esce da soli. La solitudine è come una pandemia invisibile che avvolge la vita di tante persone, spegne l’esistenza perché non siamo un’isola e solo nella relazione la persona trova sé stessa. La vecchiaia, ma non solo, è accompagnata da tanta solitudine che rende la condizione di fragilità insostenibile. 

 Dall’altra parte, ai giovani serve riscoprire il gusto di una vita senza paura, non perché senza consapevolezza ma con il vero antidoto alla paura: la speranza, la passione, il gusto del futuro, il desiderio di costruirlo e la consapevolezza di poterlo fare, per non arrendersi ai primi inevitabili ostacoli o cercare tante sicurezze da essere sempre insicuri. In queste due semplici indicazioni è racchiuso il senso di questo volume: tutti gli argomenti su cui si confrontano le voci delle due generazioni, dal lavoro al welfare, dall’Europa alla pace, dalla partecipazione al multiculturalismo, partono dal presupposto che solo aiutandosi e sostenendosi, scoprendosi complementari e non escludenti, giovani e anziani possono superare solitudini e paure. 

 Sappiamo bene che la denatalità è uno dei mali del nostro tempo: anche questa è frutto della paura del futuro, minacciosa proiezione del presente che fa rinchiudere nel consumo dell’oggi e, nonostante tante certezze impensabili nelle generazioni precedenti, queste non appaiono mai sufficienti. Senza passione e speranza restiamo prigionieri delle nostre paure. Occorre conciliare il lavoro con la famiglia, la giusta rivendicazione di un ruolo sociale unito a quello familiare. C’è davvero ancora molto da fare su questo che mi appare uno dei problemi principali da risolvere, senza dimenticare il precariato e la casa. 


Serve allora un’alleanza che metta da parte, come già diceva papa Giovanni XXIII, ciò che ci divide e ci faccia scegliere ciò che ci unisce. Serve un sistema Paese che dia sicurezze, che punti sul benessere e sulla stabilità economica e lavorativa, senza dubbio. Ma serve anche, forse soprattutto, una riscoperta del gusto di una vita senza paura. È nella famiglia, come dice Papa Francesco, che si costruisce la speranza e la vita si mostra nella sua piena forza: è questa il migliore esempio di come si costruisca la storia, di generazione in generazione. E la famiglia è il primo laboratorio dove impariamo a pensarci insieme. 

 La conversazione che queste pagine ci affidano è frutto di due persone che si offrono l’un l’altro, senza fretta e senza concessioni all’epidermico o al sensazionale. Ho apprezzato il tentativo di Vannino Chiti e Valerio Martinelli, guidati dalle precise domande di Chiara Pazzaglia, di operare un confronto intergenerazionale su temi importanti. Ho notato che, quasi sempre, c’è piena convergenza di opinione. Ecco l’utilità del dialogo: ascoltarsi, confrontarsi, anche discutere, per far risaltare ciò che unisce più di ciò che divide, per pensarsi insieme. L’augurio è che, oltre le pagine del libro, questa capacità di ascolto e confronto tra generazioni possa essere di ispirazione e di stimolo a tanti, anche nella quotidianità. 

Sono molti gli argomenti trattati, spaziando sui temi di maggiore passione sociale, in particolare il tema della transizione digitale ed ecologica, della partecipazione e, soprattutto, della pace, rappresentano davvero le sfide più importanti del nostro tempo. Attrezzarsi per affrontarle significa proprio farlo in una piena alleanza tra i più e i meno giovani, ognuno sostenendo l’altro con l’esempio della memoria passata e la fiducia nel futuro comune, che sia davvero di pace. 

 Come hanno scritto i nostri autori «È quel tutti insieme di Don Milani che ci piace: la sfida vera della nostra collettività è riscoprire la coesione come comunità di uomini e donne, il gioco di squadra, anche fra generazioni diverse che condividono un Cammino comune». La spiritualità si sottende a tutto ed è la passione che può generare il nuovo anche da quello che è vecchio.

 Famiglia Cristiana

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domenica 1 settembre 2024

INSIEME, PER VINCERE LA PAURA

 


NON RASSEGNIAMOCI ALLA 

PAURA


 Il presidente della Cei parla di «collaborazione globale» per i migranti, di «patto sociale» sull’autonomia, di ius scholae come «strumento di inclusione». E dei «buoni» rapporti col governo.

di Marco Ferrando e Matteo Liut

Il mondo mette paura, ma «non ci possiamo rassegnare».

Con il coraggio del futuro, con la forza della speranza, con tutti quegli sforzi di «mediazione al rialzo» che questo momento storico esige, e a cui la Chiesa è pronta a contribuire «non contrapponendosi ai processi culturali ma cogliendo la domanda umana e spirituale» che portano con sé. In un’intervista in uscita domani su Avvenire, il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana affronta tutti i grandi temi, dalle guerre ai migranti, fino all’agenda d’autunno che attende l’Italia: la tenuta sociale del Paese, le riforme, lo stato di salute e il contributo che può dare la Chiesa. Ecco in anticipazione alcuni estratti.

«Siamo dentro la pandemia della guerra, che proietta ombre pericolose su tutti.

Qualche volta mi sembra che stia vincendo la paura della vita, tanto che cerchiamo prima tutte le risposte e sicurezze per scegliere e pensiamo di avere sempre tempo», dice Zuppi.

«Non ci possiamo rassegnare.  È proprio vero, ma lo crediamo poco: nessuno si salva da solo.

Coltivo il sogno ingenuo che anche in Italia sia possibile mettere da parte le ideologie - ma non gli ideali, la conoscenza, la passione – per evitare una politica ridotta a rissa e polarizzazione.

Coltivo il sogno che sia ancora possibile su temi fondamentali per la nostra convivenza ricercare un consenso ampio, il più ampio possibile».

Il Papa ha rilanciato mercoledì il suo grido di dolore e speranza per i migranti: questione di regole e di atteggiamento con cui si guarda loro.

Da dove partire?

Salvare chi è in pericolo è un dovere gravissimo, primario.

Il Papa invita sempre a un approccio integrale del fenomeno dell’immigrazione (i famosi quattro verbi: proteggere, accogliere, integrale e promuovere) e a una collaborazione globale (delle istituzioni e dei governi, come delle comunità e delle famiglie.

È un approccio, ripeto, di grande realismo sul quale speriamo l’Europa si decida a un approccio comune e a non lasciare solo il nostro Paese.

Che cosa pensa del nuovo dibattito sullo ius scholae?

Quando un problema umanitario e per certi versi tecnico diventa un problema di scontro politico non si capisce più chi ha ragione e chi no.

Aprendo una sessione del Consiglio Permanente della Cei già nel luglio del 2022 osservavo che concedere la cittadinanza italiana ai bambini che seguono il corso di studi con i nostri ragazzi, il cosiddetto Ius Scholae, costituisce uno strumento importante di inclusione delle persone ed è un “tema di cultura”.  E si trattava di una istanza da tempo ribadita dalla Cei.

Dibattito aperto e acceso anche sull’Autonomia differenziata, un processo che affonda in realtà le sue radici nella riforma del titolo V della Costituzione.

Ne siamo ben coscienti.

Per questo, la Nota approvata dal Consiglio Episcopale Permanente nel mese di maggio richiamava i principi di solidarietà e sussidiarietà a livello nazionale.

Preoccupati che possa venir meno il vincolo di solidarietà tra le diverse Regioni, abbiamo auspicato un «patto sociale e culturale» (Evangelii gaudium, 239) perché si incrementino meccanismi di sviluppo, controllo e giustizia sociale per tutti e per ciascuno.

Come sono i rapporti con il governo Meloni?

Con questo Governo, così come avvenuto con quelli passati, c’è una buona interlocuzione e su certi temi una ottima collaborazione.

Se la Chiesa esprime un’opinione non è per entrare nel dibattito politico, o per dare indicazioni socio-politiche specifiche, che competono alle forze politiche e sociali, ma solo per promuovere la persona e senza interessi di parte.

E questa è proprio la libertà della Chiesa.

Cosa è lecito aspettarsi dall’Europa, spesso così afona?...

Speriamo che la prossima Commissione scelga di difendere le radici più profonde e vere dell’Europa che significano anche il ripudio della guerra e la scelta di trovare vie di soluzione alternative ai conflitti.

Continuo a pensare che è necessaria una “Camaldoli per l’Europa”.

Che ruolo punta ad avere la Chiesa nella società italiana, al centro di un processo di secolarizzazione che sta accelerando?

Il ruolo della Chiesa non è tanto quello di contrapporsi ai processi culturali, ma di sapere cogliere in questi la domanda umana e spirituale.

La secolarizzazione spegne il desiderio, la sete, la nostalgia?

Non è una domanda di maggiore prossimità?

La Settimana sociale di Trieste ha mostrato incoraggianti segnali di vivacità e passione civile: come li legge?

La Settimana Sociale è stata un dono di grazia.

Mi hanno colpito tanti credenti, anche giovani, che nel nostro Paese non si rassegnano alla crisi della democrazia.

Mai come in questo momento avvertiamo il terreno fertile per superare steccati e per offrire atteggiamenti costruttivi.

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lunedì 8 maggio 2023

ACCORCIATORI DI DISTANZE


 L’intervento del card. Matteo Zuppi, Presidente della CEI, 

al Convegno nazionale 

degli Uffici per la pastorale per la scuola e lrc

“Vi ringrazio per il vostro costante lavoro che implica mettersi in gioco con i ragazzi, avere un’intelligenza antopologico-affettiva, uscire dal ruolo per esporsi con passione”, ha esordito il Card. Matteo Zuppi, presidente della CEI, nel suo incontro del 2 maggio con i partecipanti al Convegno nazionale degli uffici diocesani per la pastorale della scuola e l’IRC.

“Dobbiamo aiutare la scuola a essere scuola”, ha proseguito, “vale a dire comprendere cosa significa educare dinanzi all’inverno educativo che scontiamo sotto molti profili: crisi demografica, difficoltà degli insegnanti, pregiudizi nei confronti dell’insegnamento della religione cattolica, scarso investimento istituzionale”.

“La vostra fatica”, ha aggiunto il presidente della CEI “è quella di esserci in un mondo che ci percepisce distanti, un mondo in cui sembra sempre più difficile spiegare sempre da capo la bellezza del Vangelo, fronteggiando le tante fragilità dei ragazzi di oggi. Eppure proprio oggi più che mai occorre il coraggio di esporsi, perché c’è un enorme bisogno di senso e di riaffermazione, di capirsi di nuovo, da capo, soprattutto con i più giovani”.

Sulla scorta del suo ricordo come giovane insegnante di religione a Roma, il Card. Zuppi ha voluto sottolineare l’importanza non solo di creare collegamenti con gli studenti “ma di mantenerli attraverso il patrimonio di relazioni che ciascun insegnante di religione esprime. Un patrimonio da mettere a frutto uscendo dall’idea strettamente funzionalista del proprio ruolo, per riscoprire l’essenziale funzione di essere accorciatori di distanze fra parola e vita che appartiene al cristiano, così come al docente”.

Un’ultima riflessione ha toccato l’esempio spendibile che proviene dai cantieri del cammino sinodale e che il Card. Zuppi ha offerto ai partecipanti durante la parte finale dell’incontro.

“Il cammino sinodale della Chiesa italiana ci riguarda, poiché nessuna prospettiva operativa è possibile se il nostro cammino non è cadenzato sui passi di quello della Chiesa e proprio il cammino ci sta insegnando molte cose belle che rischiavamo di scordarci. Prima fra tutte: l’importanza dell’ascolto. Metterci in ascolto ci insegna ad appassionarci di nuovo alla nostra vocazione, anche a quella professionale, senza vittimismi, senza sconforto inutile e sterile, ma ripartendo dalle domande inascoltate o date, invece, per scontate quando non lo sono per nulla”.

Un sogno per essere efficaci insegnanti oggi? “Diventare dei baluardi rispetto alla banalizzazione dell’esigenza spirituale che è ancora profondamente avvertita”, ha concluso il presidente della CEI prima di dialogare con i partecipanti che durante i loro interventi hanno toccato molteplici temi: dalla formazione primaria nelle scuole di teologia, all’esigenza di rimotivazione degli insegnanti di religione, dal precariato ancora molto presente, alle conseguenze del Covid, fino a una progettazione pensata sulla concreta fisionomia dei giovani che frequentano la scuola.

ALLEGATI

 

lunedì 15 agosto 2022

RIAPRIRE VITA E SPERANZA

 “Zuppi: riaprire

 ora vita e speranza.

Disincanto, valori 

e scelte forti”

- Card. Matteo Zuppi *

Nel cuore del mese di agosto, in quasi tutti i paesi e le città del nostro Paese, si celebra la festa dell’assunzione di Maria al cielo.

Un mistero che ci dice qual è la nostra destinazione: ossia essere assunti con il nostro corpo risorto nel cielo di Dio.

Maria, la prima che ha creduto alla Parola del Signore, è la prima a entrare nel cielo di Dio con il suo corpo.

Questa festa è celebrata da tutti i cristiani di tutte le confessioni, ovunque nel mondo. In Occidente la chiamiamo, appunto, Assunzione.

In Oriente l’iconografia la trasmette con l’icona della "Dormizione": gli apostoli circondano in preghiera la madre di Gesù "addormentata" nel suo letto di morte (la morte dei credenti non è mai da sola, ma sempre circondata dalle presenze degli amici di Gesù).

Gesù è raffigurato sopra di lei e tiene tra le sue mani una piccola Maria - quasi "bambina". Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli.

Per tanti anni l’ho contemplata nel mosaico absidale della Basilica di Santa Maria in Trastevere.

Ed è bello che la prima persona che transita direttamente al cielo di Dio, anima e corpo, sia l’anziana madre di Gesù: lei che ha inaugurato la storia della nostra fede e ospitato il Figlio del nostro riscatto, entra per prima, con un corpo risorto, nella pienezza del Regno.

Il corpo risorto vuol dire che non perderemo la sensibilità umana: al contrario, essa diventerà così pura, così profonda, così fine, da renderci capaci di intercettare direttamente la sensibilità di Dio per tutto il creato e per tutte le creature, dalle più piccole alle più emozionanti che abitano l’eterna fantasia dell’amore di Dio che genera e ispira da sempre i ritmi e i riti della vita che ha creato.

E Maria è il simbolo reale del legame profondo della generazione e dell’ispirazione divina della vita con l’origine e la destinazione.

In Gesù risorto questo legame irrevocabile abita per sempre l’intimità divina da cui proviene e la condizione umana nella quale si irradia.

L’intera storia dell’uomo e quella dell’umanità, lungi dall’essere abbandonata al suo destino mortale, vi appare destinata al riscatto di ogni abbandono che la umilia, la ferisce, la perde: nell’anima e nel corpo.

La cultura moderna ci ha resi gelosi della nostra libertà di vivere: e persino di morire. Ma siamo anche diventati molto rassegnati al corto respiro del nostro modo di godere la vita.

Possiamo chiamarlo disincanto, per dare un tono molto adulto e molto razionale a questo pensiero. 

Di fatto, da quando abbiamo abbassato il cielo dei nostri desideri restringendolo all’orizzonte del nostro io, anche la terra ci sembra più avara di vere soddisfazioni e di autentici entusiasmi.

A ragione si parla di passioni tristi. Non sappiamo più stupirci del tanto che pure abbiamo e scoprire l’incanto che è ogni persona che nasconde il riflesso di Dio.

Ci affanniamo giustamente ad aggiustare la società e l’habitat per tanti individui, ma non crediamo più nella comunità e nel mondo che dovrebbero ospitare la fraternità di cui abbiamo bisogno e alla quale apparteniamo.

Dobbiamo chiederci se per caso non ci stiamo rassegnando a essere una sorta di colonia di insetti, certo, evoluti e ingegnosi.

La società che stiamo costruendo rischia di avere paura della vita e diffidare della speranza. Scopriamo di avere politiche da amministrazione di condominio, aspettative di vita giovanilistiche, distanze umilianti e in crescita: fra ricchi e poveri, uomini e donne, vecchi e bambini, mediatici e anonimi, onesti e furbi.

Nello spaesamento dell’incertezza, cresce il fascino della chiusura in spazi ristretti e orizzonti chiusi e angusti.

L’autoreferenzialità porta a ripiegarci su noi stessi e contagia le persone, i popoli e le culture, anche noi credenti: non di rado appariamo senza idee, senza parole, senza azioni che riaprano i cuori al senso della destinazione dell’esistenza nostra e del mondo.

Come Maria troviamo forza facendo nostra la visione di Dio che si fa uomo per iniziare il suo Regno di amore, che sarà di tutto il popolo.

La rassegnazione a un mondo ingiusto non è l’effetto – che ora diventa particolarmente visibile – di una certa depressione escatologica che affligge lo stesso cristianesimo?

Il mistero dell’Assunta ci ri-apre al cielo della nostra destinazione. Mercoledì scorso il Papa, riferendosi proprio alla nostra destinazione finale, ha affermato con efficacia: «Il meglio deve ancora venire».

Il cielo – che pure pensiamo pieno di santi rimane forse povero di Vita. E quindi poco attrattivo.

Gesù quando parla del Regno lo descrive come un pranzo di nozze, una festa con gli amici, il lavoro che rende perfetta la casa, le sorprese che rendono il raccolto più ricco della semina.

Tutto ciò lo iniziamo già sulla terra. Con il "sì" di Maria a divenire la madre del Figlio.

Con il nostro sì a farlo nascere e crescere in noi. Il Signore è «nato da Donna», scrive l’Apostolo.

Come ogni essere umano: certo, la sua destinazione è il grembo di Dio; ma il rispetto per la qualità spirituale del grembo che l’ha portato da Dio a noi è la discriminante della qualità umana della nostra esistenza.

La donna comunica al corpo umano la sua sensibilità spirituale, fin dal concepimento, fin dalla gestazione. La donna che diventa madre non è una donna violata, consumata, di seconda scelta.

La maternità deve apparire – ed essere trattata – come un valore aggiunto dell’autodeterminazione femminile, non come un uso e un abuso che le fa perdere valore.

La società civile, la politica e tutta la comunità cristiana debbono impegnarsi a riconoscere il prestigio della maternità e il valore che la natalità rappresenta per i nostri tempi e per il Paese di cui siamo cittadini e cittadine.

L’Assunta è Vergine e Madre, senza pregiudizio di entrambe. Il riscatto dall’attuale depressione escatologica della vita cristiana (e dell’umano che ci è comune) incomincia forse proprio da qui: da una madre che, proprio perché umile, ha saputo dire di sé: «grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente».

Il nostro Paese – il mondo – ha sempre più bisogno di grandi visioni e di uomini e donne umili che se ne lasciano appassionare e non hanno paura di donare la vita per trovarla.

*Presidente CEI