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giovedì 15 maggio 2025

C'E' SPAZIO PER L'ETICA?


 L’etica stanca

 in una società 

senza più domande

 Interrogarsi sull’etica pubblica significa riflettere sul nostro modo di stare al mondo per realizzare un progetto di vita.

Rocco D'Ambrosio parla del suo nuovo libro che esplora temi cruciali e dibattuti di etica pubblica. Una serie di riflessioni sulla responsabilità di ciascuno nel vivere quotidiano

 

-Stefano Leszczynski - Città del Vaticano

 Nell’istante in cui varchiamo la soglia di casa, prendiamo i mezzi pubblici o ci tuffiamo nel traffico, ci relazioniamo con il mondo circostante e ci confrontiamo con le regole del vivere quotidiano, noi decidiamo che persona essere. Possiamo essere scostanti e brutali verso il prossimo, irrispettosi delle regole perché così ci conviene, adottare comportamenti egoisti; oppure avere una visione della realtà orientata al bene comune, incentrata su principi e valori universalmente riconosciuti come tali. Insomma, spetta a noi chiederci se lasciare liberi i nostri istinti o adottare un comportamento diretto a realizzare il nostro progetto di vita. Sembra scontato, ma non lo è.

L'etica stanca, ma è preziosa

Rocco D’Ambrosio, ordinario di Filosofia politica presso la Pontificia Università Gregoriana, nel suo ultimo libro “L’etica stanca. Dialoghi sull’etica pubblica” edito da Studium, cerca di delineare un percorso di etica pubblica, ossia una riflessione su come ci comportiamo nelle reti di relazioni che frequentiamo e quali principi etici ci aiutano a risolvere piccoli e grandi dilemmi. “Si tratta di scoprire – spiega D’ambrosio – se l’etica pubblica stanca, annoia o infastidisce; oppure se l’etica pubblica si è stancata di essere trascurata o maltrattata”. E’ così che nasce questa rassegna che esplora temi cruciali e dibattuti di etica pubblica. Scrive D’Ambrosio: “Che stanchi o meno, che si sia stancata o meno, l’etica resta sempre necessaria, indispensabile, preziosa per diventare sé stessi, ovunque e comunque. E ciò vale non solo per la singola persona ma anche per ogni famiglia, gruppo, organizzazione, comunità, istituzione”.

La dimensione pubblica è anche nel web

La sfera pubblica è molto più ampia della sfera prettamente politica e ci permette di ritornare alle persone, a considerare le persone per come si comportano nel pubblico, anche in quella fetta di pubblico che abita le nostre case attraverso internet, attraverso i social network, con il quale ci colleghiamo a un mondo ‘virtuale’ che spazia da casa nostra fino agli angoli più oscuri della terra. “Come dice Salvatore Natoli – spiega Rocco D’Ambrosio parlando con i media vaticani - l'etica é il nostro modo di stare al mondo, l'etica pubblica, invece, il nostro modo di stare nel mondo pubblico, nella sfera pubblica, e riguarda tutti, ognuno con le proprie responsabilità”. Insomma, un particolare ambito dell'etica che allo stesso tempo ha forti e anche gravi ripercussioni sul nostro essere interiore. Soprattutto se facciamo riferimento a una situazione in cui l'etica ci provoca una situazione di forte disagio nel nostro rapporto con gli altri, nel rapporto con la società nella quale viviamo. “Aumenta la rabbia e purtroppo aumenta anche la violenza. Basti pensare - nota l’autore - alle cronache quotidiane su quello che avviene in ambito domestico oppure nei luoghi di lavoro: se rispettiamo i canoni etici rispettiamo anche la sicurezza del lavoro e quindi abbiamo meno morti. Eppure il numero delle vittime non diminuisce mai.

 Il populismo nemico dell'etica

Nel libro di Rocco D’Ambrosio ci sono dei riferimenti molto diretti anche al mondo della politica, e cioè al rapporto tra la politica e i cittadini, al modo in cui la politica rappresenta il mondo e rappresenta le idee, cerca di carpire consensi. “Alla politica spetta avere un progetto architettonico di tutta la comunità politica, come dice il Concilio. E in questo progetto vanno considerati tutti i soggetti, la finalità - cioè perché stiamo insieme, che cosa vogliamo realizzare insieme - e i mezzi con cui vogliamo raggiungere questo progetto”.  Non manca, infine, il riferimento a un tema particolarmente dannoso a livello sociale, che è quello del populismo. In questo caso è l'assenza di etica a diventare un elemento condiviso, un ‘valore’ comune. “Il problema del populismo che è uno dei mali contemporanei e istituzionali fra i più forti e fra i più marcati - osserva l’autore - è un problema molto serio. Prima di tutto perché i populisti non amano né rispettano il pubblico, ma soprattutto non rispettano le persone, di cui si servono invece come delle risorse pubbliche per accrescere il proprio potere o per confermare il consenso”.

L'impegno individuale

Tornare all’etica pubblica richiede un impegnativo esercizio individuale le cui ricadute hanno tuttavia un impatto sociale fondamentale. “Dovremmo tornare a imparare a metterci in discussione nel quotidiano e a farlo insieme. Dobbiamo liberarci dell’attitudine all’autoreferenzialità acquisita frequentando i social e tornare a guardarci negli occhi”.

 Vatican News

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venerdì 11 aprile 2025

GLI ANTICORPI DELLA DEMOCRAZIA

Sono gli “anticorpi” della democrazia cioè le difese che essa può mettere in campo per opporsi ad ogni tentativo di corruzione dei propri valori se non di annullamento dell’ intrinseco significato cui il termine riconduce.

 

-         di Luigi Sanlorenzo

 

 
Platone l’esecrava e Aristotele non l’amava.

Occorrerà attendere lo storico Polibio e poi Marco Tullio Cicerone, un avvocato del Foro di Roma, per avere della democrazia una descrizione positiva che poi si farà strada nel pensiero filosofico e politico.

In tempi non lontani è stata invocata, ottenuta, ridimensionata, oltraggiata, negata, perduta e riconquistata.

Winston Churchill ne coglieva i limiti ma ammetteva di non avere idea di una forma migliore di convivenza e ne diventò il campione nell’Europa funestata dai fascismi.

Tra le due epoche ed oltre, esiste una bibliografia sterminata che il lettore potrà facilmente reperire e che, pertanto, ometterò.

Tralasciate le definizioni scolastiche, l’etimologia della parola e le declinazioni peggiorate da aggettivi non sempre appropriati, più utile può essere ragionare su quegli elementi che possono preservarla e se, del caso, estenderla e migliorarla.

Sono gli “anticorpi” della democrazia cioè le difese che essa può mettere in campo per opporsi ad ogni tentativo di corruzione dei propri valori se non di annullamento dell’ intrinseco significato cui il termine riconduce.

I tempi che viviamo ci hanno reso familiare il lessico della biologia e della medicina e mai come oggi si parla di anticorpi, di sistema immunitario, di difese dell’organismo e di barriere, naturali o chimiche, contro l’attacco quotidiano che virus e batteri sferrano ogni giorno contro tutti gli esseri viventi.

Risulterà così più facile analizzare il processo mediante il quale la democrazia si difende, sopravvive, supera momenti drammatici o, per converso, si indebolisce, vacilla e soccombe.

Il primo e più immediato riferimento è l’analisi del termine “anticorpo” che sta a significare come ad un’ entità sia pure microscopica si oppone a difesa un’altra di segno contrario e portatrice di un contenuto cellulare diverso.

Perché ciò avvenga è necessario che quest’ultima esista, in base al principio logico di non contraddizione che distingue A da non A.

Applicato a ciò che ci occupa in questo scritto, vuol dire essenzialmente che il principale anticorpo di cui la democrazia dispone è la conoscenza e la consapevolezza di ciò che essa è e delle potenzialità che possiede.

Se in una società gli individui partecipano di una definizione, generica, vaga e imprecisa, si è già in presenza di un forte deficit immunitario e il corpo estraneo troverà facile breccia per farsi strada, assumendo due principali caratteri: il populismo che fa leva sulle emozioni profonde e sulle pulsioni istintive abilmente evocate e provocate e l’egalitarismo che azzera competenze, meriti e valore, tradendo di fatto il termine “democrazia” specifico contesto sociale e politico in cui non si è affatto tutti uguali, se non davanti alle leggi contenenti diritti e doveri che autonomamente e liberamente essa ha prodotto con il contributo di tutti e a tutela di ciascuno.

I migliori e i peggiori

In ogni società esistono i “migliori” per eredità genetica, capacità personali, inclinazioni naturali, livello culturale, abilità nel fare le cose o nel farle accadere.

Si tratta di elementi che troppo spesso si vogliono far risalire al censo o alle opportunità offerte dall’ambiente familiare e sociale; spesso non è così, come dimostrano le biografie di personalità eccellenti provenienti da condizioni sociali svantaggiate, contesti culturali carenti, situazioni familiari devastanti.

Allo stesso modo, esistono, senza giri di parole, i “peggiori” portati naturalmente a negarsi ad ogni opportunità di migliorare se stessi e di confidare, in modo parassitario, sull’assistenza da parte degli altri, pretesa come un diritto.

Essi adducono quale esimente del proprio destino il “sistema” quale entità astratta cui attribuire le proprie sventure.

Avvinti da bisogni crescenti ed incapaci di emanciparsi, perché non educati ed aiutati a farlo, costituiscono il milieu in cui si sviluppano le peggiori tentazioni antidemocratiche alimentate da quanti sanno come costruirvi sopra il proprio successo personale.

L’anticorpo di cui la democrazia dispone al riguardo è il concetto di pari opportunità quale condizione di partenza offerta a tutti in egual misura e consistenza, lasciando poi a ciascuno la libertà, ma anche la responsabilità, di farne tesoro in ogni parte del mondo.

Istruzione, formazione e internazionalizzazione agevolate, se non gratuite, per i meritevoli meno abbienti sono i suoi migliori alleati e non mancano mai, quando ben gestiti, di dare i propri frutti.

Spesso gli ingenti fondi a ciò destinati sono stati stornati altrove o restituiti, con vergogna, all’Unione Europea che ancora aspetta di capire come mai l’Italia meridionale (cui si sono aggiunte nel 2020 anche Sardegna e Molise) sia ancora tra le aree meno sviluppate del continente.

Un argomento inoppugnabile che abbiamo regalato ai “paesi frugali” che di quei fondi hanno fatto tesoro per decenni.

Tra i “migliori” e i “peggiori” si estende il mare interno dei mediocri in cui prevalgono la difesa di privilegi illegittimamente acquisiti, l’appartenenza acritica a partiti o movimenti, il qualunquismo più cinico, il perseguimento di interessi particolari, familiari o personali, messi davanti a tutto ciò che può sapere di collettivo, di civile, di comunitario.

Denunciano ogni appartenenza come deviata, ogni competenza come potere e, mentre attendono di salire sul carro del vincitore di turno, pretendono di calpestare secoli di cultura e di progresso scientifico esprimendo giudizi apodittici quanto banali, che in altri tempi non avrebbero oltrepassato la soglia dell’osteria.

Oggi essi hanno a disposizione i social media su cui “pubblicano” rutti in forma scritta o video, con cui intendono mettersi in pari con quanti fino ad allora hanno invidiato e snobbato e che oggi odiano.

La democrazia dei like

Forse sarebbe meglio insistere sulla differenza tra “pubblicare” e “postare” per ridimensionare il fenomeno e ricondurlo nell’alveo di opinioni che, con i limiti invalicabili dell’insulto e della palese e morbosa oscenità, tali sono e rimangono, se non suffragate da studi adeguati, faticosi approfondimenti, antiche e recenti letture, concrete esperienze professionali e di vita.

E’ la democrazia dei “like” come qualcuno ha voluto connotare la nostra epoca.

E dai “like” alle piattaforme digitali che hanno sostituito il processo di selezione delle classi dirigenti oggi magna pars nel governo del Paese, il passo è breve.

Medesimo ragionamento può essere fatto su influencer di vario genere e personaggi televisivi che avrebbero solo l’imbarazzo della scelta se volessero candidarsi a ruoli cruciali per la vita democratica del Paese.

La chiamano “democrazia diretta” e su tale altare vengono sacrificati secoli di elaborazione critica, di riflessione filosofica o religiosa, di testimonianze concrete del ruolo svolto dalle Idee nel progresso dell’Umanità.

Dal mancato rispetto del già citato principio di non contraddizione che impone di distinguere tra ciò che è e ciò che non è, spesso accompagnato da un ruolo non sempre obiettivo e trasparente dell’informazione, origina l’assenza del principale anticorpo posto a difesa della democrazia.

Il bastione è stato demolito e i nemici della democrazia possono procedere nella propria strategia di attacco.

Una seconda famiglia di anticorpi è costituita dai cosiddetti “valori non negoziabili” posti a fondamento di ogni democrazia e quasi sempre fissati in carte costituzionali su cui si innestano ogni successiva attività legislativa, la legittimità dei comportamenti individuali e sociali, i limiti del potere, i contrappesi istituzionali.

Va detto chiaramente che l’evoluzione della società, il mutamento dei costumi, l’emergere di nuove soggettualità politiche e di nuove aspirazioni ideali hanno il proprio limite invalicabile nel rispetto dell’integrità fisica e spirituale di ciascun individuo e nel suo diritto a difenderla direttamente nei limiti consentiti e, in ogni altro caso, a vederla difesa dallo Stato democratico.

In quanto strettamente legato alla dignità di tutti gli esseri umani, l’elenco dei valori non negoziabili contiene tutto ciò che fa crescere una società in tale direzione ed espelle con determinazione tutto ciò che limita e minaccia tale spinta vitale tesa verso il miglioramento della condizione umana, come correntemente intesa nei paesi democratici.

I valori non negoziabili

Fermi i valori non negoziabili, contenuti in Italia nella parte iniziale della Costituzione repubblicana del 1948 i cui primi dodici articoli sono immodificabili, la dinamica legislativa si esprime senza ulteriori condizionamenti ed ha lo scopo di attualizzare nella forma e mai nella sostanza quei principi fondamentali per renderli fattuali e misurane nel tempo l’efficacia sull’evoluzione della vita comunitaria.

Qui entra in gioco ancora una volta la dialettica democratica che, garantita dalla citata permanenza dei valori fondamentali, è tenuta ad applicare il principio della legittimità degli atti legislativi e regolamentari, secondo la volontà espressa dalla società in libere elezioni in cui si sono confrontate forme diverse di attuazione dei diritti e di rispetto dei doveri.

Forme attuative, ribadisco, e non modificative dei valori fondativi.

Tale vigilanza è affidata, com’è noto, al vaglio del Presidente della Repubblica nel momento della promulgazione e in un’ultima istanza alla Corte Costituzionale, se adita nelle forme previste da chi ne ha titolo.

Tuttavia tale sofisticata architettura voluta dai Padri Costituenti spesso viene aggirata da interventi legislativi o di decretazione d’urgenza ad opera del Governo.

Va detto una volta per tutte che anche tali decisioni, che vogliamo credere essere sempre urgenti, indifferibili e nell’interesse supremo del Paese, non possono oltrepassare i confini costituzionali né sospendere le libertà individuali garantite dalla Repubblica. Qualsiasi cedimento in tale direzione fa cadere come birilli una serie di anticorpi essenziali per la vita democratica e consente l’avanzamento di parecchi metri a chi sta scavando una galleria di mina sotto i bastioni.

E’ a tale punto che intervengono altri anticorpi che, impossibili da fissare sul vetrino del microscopio legislativo, rappresentano l’ultima barriera all’infezione.

Si tratta della vasta gamma dei comportamenti individuali assunti da ciascuno come parte integrante dell’identificazione nel contesto sociale.

Non potendo essere regolati né, grazie al cielo, controllati o sanzionati dall’impianto normativo, essi sono espressione dei principi di autonomia e di responsabilità e del grado di civismo raggiunto e praticato dalla cittadinanza.

Volendo essere estremamente chiari, significa che una collettività che rispetta le leggi per timore delle sanzioni mentre le aggira con furbizia ed espedienti è la più esposta al rischio del tramonto della democrazia.

A maggior ragione se assume tali comportamenti come protesta verso disposizioni che non ritiene le appartengano perché espresse da una maggioranza politica rispetto alla quale si percepisce come oppositrice.

Il crollo della democrazia

E’ il crollo dell’architrave democratica che si regge proprio sul riconoscimento della volontà della maggioranza, cui può e deve opporsi il dibattito politico e il diritto di manifestazione pubblica ma mai l’inosservanza o la violazione della legge, finchè la medesima è in vigore.

Ci fu chi bevve volentieri la cicuta per non contraddire tale profondo convincimento.

I comportamenti individuali sono dunque l’ultima spiaggia della democrazia, quella più esposta ai frangenti dell’umore popolare, all’azione di erosione da parte di persuasori più o meno occulti e dei mestatori di caos e disinformazione.

Da cosa sono dettati i comportamenti individuali in una democrazia in buona salute?

Innanzitutto dal pieno convincimento dell’esistenza di un patto che, oltre a quelli scritti, fonda la convivenza civile e la mette al riparo dal diritto del più forte, delle menzogne del più furbo, dalle seduzioni del più convincente.

Il paradosso è che mentre tale logica viene accettata e pretesa ad ogni livello sociale dalla stragrande maggioranza dei tifosi sportivi, è rifiutata da molti nella vita di tutti i giorni.

La ragione non è arcana: lo sport si fonda sulla passione ed è amato e rispettato, la democrazia non è ancora, nel nostro paese, oggetto di tali sentimenti e viene percepita da molti più come una tecnicalità politica che come un valore, più come uno strumento che come un fine ideale in progressiva realizzazione.

Come ogni amore ha nell’ affidamento al partner il proprio principale anticorpo per la tenuta del rapporto, anche nell’esercizio della democrazia la fiducia non è solo un sentimento ma anche una tappa formalizzata per l’esercizio del potere e il collante tra le istituzioni chiamate in solido a perseguire lealmente, ai diversi livelli territoriali ogni miglioramento.

Il fenomeno della sottovalutazione della democrazia non riguarda tutti ma trova manifestazione laddove sin dall’atto originario, l’espressione del voto, tale esperienza è vissuta all’insegna della superficialità e spesso con il ricatto sui bisogni primari, scientemente mantenuti tali in molte aree geografiche, perché unico modo di nascondere l’incompetenza e l’inadeguatezza di singoli e di partiti sostituendovi forme di protezione di questo o di quell’interesse particolare.

Quanto vale un singolo consenso in alcune periferie italiane?

In media, secondo le indagini svolte dalle Forze dell’Ordine nei casi conclamati di voto di scambio, una ventina di euro, spesso anche meno.

Ed è gratis davanti a promesse di piccoli o grandi vantaggi assicurati al singolo, magari in danno della collettività.

Troppo ampia è la casistica per trarne alcuni esempi, ma mi colpì a suo tempo l’indignazione di un noto politico che in anni non troppo lontani ebbe a dire «Quanti parroci hanno venduto il proprio voto ed impegnato la propria influenza per vedere realizzato un campetto di calcio?»

L’ultima serie di anticorpi della democrazia è costituita dal complesso degli atti ricompresi nella categoria della solidarietà universale ed è ciò per cui ciascuno riconosce kantianamente nell’altro l’intera Umanità, quindi se stesso, e come tale agisce senza bisogno di una legge, di un regolamento, di una sanzione che lo costringa a qualcosa che non percepisce come valore.

Quando la casa brucia non sono solo i Vigili del Fuoco a salvare le persone ma anche coloro che, nell’attesa, immediatamente si lanciano tra le fiamme per aiutare chi è in difficoltà. Quale molla scatta in un giovane immigrato, magari considerato clandestino, per farlo tuffare in un canale traendone un bambino che sta annegando o per consegnare ad un poliziotto un portafogli smarrito?

Cosa induce una nazione in piena emergenza sanitaria a non negare assistenza in mare a chi fugge verso un futuro migliore?

Cosa può portare un popolo ad osservare le regole, a collaborare con la giustizia, ad essere guardiano della legalità, ad autoimporsi limitazioni alla libertà individuale nel superiore convincimento di fare la cosa giusta, innanzitutto per la comunità di cui si sente parte viva ed attiva?

Soltanto il possesso di una profonda spiritualità civile e la democrazia è una religione laica che non conosce chiese, sinagoghe o moschee ma solo la dimensione della solidarietà tra esseri consapevoli della propria e dell’altrui finitudine.

Fortificare gli anticorpi

Esiste una cura per fortificare gli anticorpi della democrazia?

Un complesso vitaminico che somministrato costantemente rafforzi le difese immunitarie insidiate dagli egoismi, dai particolarismi, dall’ignavia e dall’indifferenza nei confronti degli altri?

Bastano alcune alte autorità morali a ricordare che tra gli scartati dalla società fanno proseliti i principali nemici della democrazia?

Basterà quell’esercito di maestri elementari invocato da Gesualdo Bufalino, se poi i migliori insegnamenti verranno rinnegati in famiglia tra le mura domestiche?

Abbiamo abbastanza guide che accompagnino in età adulta la crescita della consapevolezza democratica ? Nel dubbio ne ho scritto qualche tempo fa.

https://www.linkiesta.it/.../italia-intellettuali.../

Nel gorgo della pandemia, come in un gigantesco maelstrom, si è corso il rischio che emergessero i fantasmi del passato, trascinando sul fondo i vecchi ritenuti inutili, i disabili considerati costosi, i giovani lasciati preda di cattivi maestri sin dalla più tenera età.

Un tempo, almeno, nel corso di un naufragio risuonava il grido “Prima le donne e i bambini!“ quasi rassegnandosi a salvare la generatività futura, sacrificando il passato.

Quasi mai succedeva e tutti tranne i più coraggiosi si accalcavano sulle scialuppe.

La verità è che non esistono alternative a salvarsi tutti insieme.

O meglio, ne esiste solo una ed è quella di perdersi tutti insieme.

In tale drammatica prospettiva l’unica arca a disposizione è la difesa della democrazia, rafforzandone la paratie perché resistano ad abbietti demolitori e alle onde suscitate dal vento panico di una società smarrita che sull’orlo della disperazione potrebbe anche accettare di vendere la propria anima al primo diavolo di passaggio che sa come illudere la fragilità della natura umana.

In caso contrario a naufragare sarà l’intera umanità per come ci è stata raccontata https://www.linkiesta.it/.../robinson-crusoe-naufragio.../

In un articolo pubblicato dal quotidiano Avvenire il 13 ottobre del 2006, sir Ralph Dahrendorf, il politologo di estrazione liberale scomparso nel 2009 e autore di “Quadrare il cerchio: benessere economico, coesione sociale e libertà politica” scrisse: “Bisogna poi stare attenti alla falsa democrazia i cui rappresentanti in realtà non danno ascolto alla voce della gente.

La repubblica di Weimar è stata correttamente definita come una democrazia senza democratici ed è questa una delle ragioni per cui non è durata.

Il suo contrario offre forse maggiori speranze.

Anche se non possiamo avere una democrazia mondiale e neppure europea, almeno abbiamo i democratici: persone coscienti dei propri diritti che prendono sul serio la responsabilità di difenderli attivamente“

La democrazia è un’idea filosofica venuta da lontano e, nonostante abbia sulle spalle duemilacinquecento anni, affascina ancora il mondo, può salvarlo dagli errori che esso stesso ha commesso e riaprire il sentiero, pur costellato di dolori individuali e sociali, verso quella cima che abbiamo imparato a chiamare resilienza e che con nomi diversi ha salvato i superstiti nel corpo e nello spirito di altri tremendi riti di passaggio tra un’epoca e un’altra della storia.

Se con determinazione, la democrazia e la solidarietà diventeranno per tutti sentimenti profondi e istinti perfino più potenti di quello della sopravvivenza, allora anche la prova che stiamo affrontando avrà avuto il significato di un insegnamento profondo in grado di generare una nuova umanità.

 

Nuovi approdi



 

 

SOCIAL e POPULISMO


 È la faccia oscura della democratizzazione introdotta dalla rete. L’autorizzazione data a tutti di parlare di tutto non solo produce effetti di pericolosa mistificazione ma attiva dinamiche aggressivo-invidiose.

 


-         di Massimo Recalcati 

 Secondo Pasolini l’ingresso della televisione nelle case degli italiani era stato una delle cause non secondarie della grande mutazione antropologica che aveva trasformato il popolo da un insieme politico di cittadini a un insieme commerciale di consumatori. Non solo la società dei consumi trovava nella televisione il suo strumento elettivo di promozione, ma lo spettatore era costretto ad assumere nei suoi confronti una posizione necessariamente passiva. Il messaggio era a senso unico e non dava luogo a nessuna possibilità di interazione. 

Spettatore-consumatore

Di qui l’accusa pasoliniana relativa all’esistenza di un nuovo fascismo che imponeva i suoi comandi senza bisogno di usufruire di un potere autoritario e repressivo, ma per la via edonistica di una seduzione permissivista. Lo spettatore rappresentava la forma più pura del consumatore costretto a ingoiare passivamente valanghe di messaggi e di offerte che avevano come denominatore comune lo spegnimento della sua capacità di iniziativa critica. 

La televisione diveniva così lo strumento di propaganda di un neo-totalitarismo che aveva trasferito il potere dal sovrano agli oggetti di consumo. 

Un potere che plasmava corpi e cervelli dei suoi fruitori uniformandoli conformisticamente ai modelli valoriali imposti dal nuovo regime. 

Gli psicoanalisti hanno visto nell’età dove la televisione imperava nelle nostre case una sorta di conferma della tesi relativa al declino dell’autorità paterna e allo smarrimento più generale del discorso educativo. La televisione aveva preso il posto di genitori sempre più distratti o assenti, incapaci di svolgere il proprio ruolo. 

Spettatori passivi

L’affermazione progressiva della rete e dei social sta profondamente ridimensionando questo quadro. E non solo perché i giovani oggi non guardano più la tv. Quello che i social hanno modificato è innanzitutto il carattere necessariamente passivo dello spettatore. Il nuovo schermo social è infatti strutturalmente movimentato. Tutto si consuma in maniera accelerata. Non c’è tanto l’ipnosi televisiva — che richiede tempo — ma lo sprofondamento in una realtà parallela. Non a caso l’uso dello smartphone e delle sue potenzialità social non è più, come accadeva per la tv, circoscritto in un luogo, ma appare come una sorta di protesi del corpo del soggetto. Mentre infatti la televisione condannata da Pasolini fabbricava i corpi e i cervelli offrendo loro i modelli di identificazione imposti dalla società dei consumi, lo smartphone appare piuttosto come una parte post-umana del corpo. 

Anche la partecipazione alla vita dei social riflette questa compenetrazione. Non si tratta di guardare un programma imposto da un palinsesto, ma di formare il proprio palinsesto personale non solo nella scelta di ciò che voglio vedere, ma nella possibilità inedita di proporsi come assoluti protagonisti sulla scena. La distinzione rigida imposta dalla tv tra il messaggio offerto dallo schermo e il suo fruitore viene così sovvertita. Lo schermo non è più un confine rigido che separa, ma è stato radicalmente traumatizzato: gli attori e i protagonisti della scena sono divenuti milioni. 

Lo schermo ha perso la sua centralità verticale per disseminarsi orizzontalmente. 

E lo stesso accade per la scrittura. Era ciò che sollevava la rassegnazione malinconica di Umberto Eco quando constatava con amarezza la quantità di imbecilli che la rete avrebbe autorizzato a scrivere. Anche in questo caso il confine tra il lettore e lo scrittore è stato frantumato: sui social chiunque può scrivere di qualunque cosa. In questo senso, diversamente da ciò che accadeva con lo spettatore ipnotizzato dalla tv, i social si fondano sulla valorizzazione estrema dell’interazione.

Esibirsi per celebrarsi

Essa non assume solo la forma della manifestazione del like o dell’avversione, ma soprattutto quella dell’esibizione del proprio corpo e del proprio pensiero senza censure. Ma la psicoanalisi avverte che quando i confini simbolici vengono meno c’è sempre il rischio della caduta catastrofica nell’indifferenziazione. 

È la faccia oscura della democratizzazione introdotta dai social. È questo il cuore di ogni populismo, compreso quello mediatico. L’autorizzazione data a tutti di parlare di tutto — l’uno uguale a uno — non solo produce effetti di pericolosa mistificazione — pensiamo ai danni di coloro che sui social si esprimono senza titoli su malattie o su cure mediche — ma attiva potentemente dinamiche aggressivo-invidiose. Mentre la televisione spegneva il senso critico esercitando una funzione di controllo biopolitico, l’uso collettivo dei social sembra esasperarlo abnormemente a tal punto da legittimare il suo palese e sconcertante sconfinamento nell’odio invidioso quando non addirittura nell’incitazione aperta alla violenza. 

Surriscaldamento pulsionale

È il surriscaldamento pulsionale che lo schermo dei social genera in continuazione e di cui sono eloquenti manifestazioni la contraffazione sistematica della verità, la brutalità degli insulti, le campagne individuali o collettive di diffamazione che possono portare i soggetti più giovani o fragili anche a comportamenti autolesivi gravi. Non a caso per la psicoanalisi il luogo per eccellenza dell’indifferenziazione è quello dell’incesto dove il confine simbolico della differenza generazionale scompare e dove, soprattutto, la passione smarrisce il suo limite divenendo non più passione per la vita ma passione per la morte. Non a caso figli e genitori tendono a comportarsi allo stesso modo nell’uso violento dei social. Adulti che si comportano stupidamente come adolescenti e adolescenti che manifestano la stessa stupida violenza che anima il mondo degli adulti. 

 La Repubblica


 

 

sabato 20 luglio 2024

LA SFIDA DEI POPULISMI


-         di Giuseppe Savagnone*

-          

Il tentativo di Giorgia Meloni di sdoganare il populismo di destra

Negli stessi giorni, sulle due sponde dell’Atlantico, si sono svolte due vicende che hanno comportato la sfida del populismo alle tradizionali istituzioni democratiche. La prima è stata quella, successiva alle elezioni europee, che ha visto il fallito tentativo del gruppo dei Conservatori, guidati da Giorgia Meloni, di entrare a far parte – almeno indirettamente – della maggioranza della Commissione UE.

La seconda ha avuto come sue tappe fondamentali l’attentato a Donald Trump, la sua scelta, come vice-presidente, di J. D. Vance e la convention repubblicana di Milwaukee. Vale forse la pena di soffermarsi su queste due storie per cogliere il significato di ciò che esse significano per il nostro presente e il nostro futuro.

Partiamo dall’Europa. Le ultime elezioni per il parlamento europeo erano state precedute da sondaggi e previsioni che davano per certa una forte crescita dei consensi per i partiti populisti di destra, anche se non era sicuro che essa avrebbe scalzato la maggioranza costituita dall’alleanza tra Popolari, Socialisti e Liberali.

Nel dubbio, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, si era molto avvicinata alla leader del Conservatori, la premier italiana Giorgia Meloni, da cui si aspettava un sostegno per un’eventuale rielezione, nell’eventualità di un crollo dei partiti che l’avevano sostenuta fino a quel momento.

Il crollo, in realtà, non c’è stato, anche se effettivamente l’estrema destra, costituitasi nel gruppo dei “Patrioti”, ha goduto dell’affermazione elettorale del Ressemblement National di Marine Le Pen (controbilanciato, però, dal drastico ridimensionamento della Lega) e i Conservatori hanno aumentato i loro consensi grazie all’affermazione di Fratelli d’Italia.

Così, i partiti della vecchia coalizione hanno conservato la maggioranza e hanno potuto rinnovare per altri cinque anni il loro accordo di governo, malgrado le ire di chi, come Salvini, schierato con i “Patrioti”, li ha accusati di misconoscere i risultati elettorali, parlando addirittura di «colpo di Stato».

Ma la vera sconfitta, in questa vicenda, è stata Giorgia Meloni, non solo perché sulla crescita del prestigio dell’Italia in Europa aveva investito molto della sua immagine in politica estera, ma soprattutto perché contava su questo rinnovo del Parlamento e della Commissione UE per rompere finalmente, a livello europeo, il “cordone sanitario” che confinava la destra  populista all’opposizione. E il suo rapporto privilegiato con la von der Leyen, sottolineato dai ripetuti viaggi diplomatici fatti insieme, aveva illuso sulla riuscita del suo progetto.

Di fatto, invece – una volta rassicurata sulla possibilità di essere rieletta dai partiti che l’avevano sostenuta in passato – , la presidente uscente ha lasciato che l’“amica” venisse lasciata fuori dalle decisioni sul futuro assetto dell’Unione.

Umiliata e furiosa per questa inattesa emarginazione, ma non ancora rassegnata, la Meloni ha cercato di far leva, per avere un peso politico, sulla esigenza della von der Leyen di garantirsi dei voti anche al di fuori della propria coalizione, per neutralizzare i probabili franchi tiratori. Ma la presidente in pectore ha preferito appoggiarsi ai Verdi, rendendo ininfluente il ruolo dei Conservatori, che alla fine hanno votato contro.  

La Meloni si è trovata così ancora una volta emarginata e il suo tentativo di assumere una pozione moderata – che la rendesse in qualche mediatrice e arbitra tra i partiti democratici e i  “Patrioti” – l’ha portata alla fine ad essere tra due fuochi: da un lato questi ultimi (rafforzati dalla confluenza di “Vox”, che ha abbandonato i Conservatori), che l’accusano di avere tradito le posizioni radicali del sovranismo; dall’altro la maggioranza di centro-sinistra, che non vuole avere a che fare con lei perché troppo di destra.

Isolamento – sia detto di passaggio – che, inevitabilmente, ricade sull’Italia, anche se l’UE non può certo prescindere dal nostro paese, che è tra i suoi fondatori, per cui – come da sempre si prevedeva – la Commissione affiderà comunque ad esso degli incarichi significativi. Solo che lo farà non per, ma malgrado, la politica del nostro governo.

Esito paradossale, per una destra populista che si è affermata al grido di «prima gli italiani!» e che aveva accusato aspramente e ripetutamente il governo Draghi (in realtà sempre molto considerato a livello europeo e a cui si deve, tra l’altro, lo stanziamento di 191,5 miliardi, il maggiore dato dall’UE ai suoi membri) di non sapersi fare valere a Bruxelles. Ora la svolta c’è, ma in senso opposto a quello auspicato.

E per di più non può non pesare sulla compattezza del governo italiano l’esplicitarsi e accentuarsi, in questo rinnovo dei vertici europei, della conflittualità tra Fratelli d’Italia e Lega, entrambi peraltro divisi da Forza Italia, che fa parte dei Popolari.

Sia a livello europeo che a quello italiano, questa situazione problematica dei partiti populisti non può far dimenticare la fragilità di quelli che difendono, contro di essi, le tradizionali logiche della democrazia rappresentativa – Popolari, Socialisti, Liberali – e la cui perdita, anche se limitata, di consensi è il sintomo di un progressivo esaurimento.

Non si tratta di difficoltà strettamente politiche, ma innanzi tutto culturali. È l’anima dell’Europa che essi, nei cinque anni trascorsi, si sono dimostrati incapaci di recuperare. Né l’inserimento dei Verdi sembra sufficiente a colmare questo vuoto. La logica dei diritti individuali – sempre più declinata, per di più, in chiave difensiva nei confronti dei migranti – ha finito per prevalere sul senso della solidarietà e della responsabilità verso il bene comune. Per non dire che il tenace nazionalismo dei singoli Stati ha reso difficile perfino individuare questo possibile fine condiviso e operare concordemente per raggiungerlo.

La debolezza della presidenza di Biden

Abbastanza diverso il quadro del populismo che, negli Stati Uniti, ha trovato il suo lancio definitivo, dopo l’attentato a Trump, nella convenzione repubblicana di Milwaukee. Sullo sfondo, il progressivo declino della candidatura dell’attuale presidente Biden, lo sbandamento dei democratici e la crescita esponenziale delle possibilità di Trump di vincere le ormai vicine elezioni di novembre.

In realtà anche in questo caso, come in Europa, il populismo si è alimentato con la debolezza della democrazia. La presidenza Biden è apparsa piena di contraddizioni, più protesa a cercare di non perdere consensi che ad assumere posizioni nette e dando spesso un’impressione di debolezza.

Emblematica la difficoltà di gestire in modo chiaro e autorevole la crisi di Gaza. Da mesi Biden va ripetendo che l’unica soluzione possibile è quella prevista dalla risoluzione dell’ONU del 29 novembre 1947, e cioè la creazione di uno Stato palestinese accanto a quello ebraico.

Una posizione che il premier israeliano Netanyahu e, recentissimamente, anche la Knesset, hanno espressamente rifiutato. Un evidente contrasto, che avrebbe richiesto da parte degli Stati Uniti una ferma presa di posizione.

Invece quando, il 18 aprile scorso, è stata messa a votazione un bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU che raccomandava l’adesione della Palestina alle Nazioni Unite, il rappresentane americano è stato l’unico a votare contro, bloccando la risoluzione con il veto.

Non è l’unico caso in cui le buone intenzioni dichiarate da Biden sono state smentite dalle sue scelte concrete. La sua tardiva condanna dei metodi di guerra di Israele – l’embargo sul cibo, l’acqua e la luce, le deportazioni in massa, le sistematiche distruzioni e i massacri di civili nella Striscia -, a lungo da lui giustificate come espressione del «diritto di Israele di difendersi», non si mai tradotto in un preciso ultimatum per ottenere il cessate il fuoco immediato.

Si potrà dire che Israele è uno Stato sovrano e non può essere costretto a cambiare la sua politica. Ma anche gli Stati Uniti lo sono! Perché in questi mesi gli hanno continuato ad assicurare una costante fornitura di armi (comprese 7.800 bombe ad altissimo potenziale, che il Pentagono sconsiglia da sempre di usare in aree popolate per il loro effetto letale sui civili), permettendo così all’esercito israeliano di perpetrare i massacri che a parole venivano deprecati?

È solo un esempio. E, se diventerà presidente, Trump farà quasi sicuramente scelte molto peggiori. Ma saranno delle scelte. E gli Stati Uniti non appariranno, davanti all’opinione pubblica mondiale, succubi degli umori e dell’arroganza di uno Stato di dieci milioni di abitanti.

Dal “Berlusconi americano” alla ben più seducente figura di Vance

Il tratto che accomuna il populismo americano a quello europeo e italiano è il sovranismo, con la priorità assoluta data agli interessi nazionali – «America First» – e la chiusura delle frontiere ai migranti.

Ma c’è, al di là dei punti programmatici, lo stile di Donald Trump, che ricorda molto quello del fondatore del populismo italiano, Silvio Berlusconi, meritandogli la definizione di «Berlusconi americano».

E, in effetti, ad accomunare strettamente le due figure sono il ruolo del danaro nel loro lancio politico, una vita sessuale frenetica esibita senza remore, il grande carisma comunicativo, la tendenza a piegare le leggi e lo Stato ai propri interessi, l’ostilità nei confronti dei giudici, la sistematica e quasi spontanea manipolazione della verità.

Eppure, forse più pericoloso di Trump, per le istituzioni democratiche americane, sta cominciando ad apparire il giovane vicepresidente (39 anni), James David Vance, che ha galvanizzato la convention. A differenza di Trump, Vance non è l’erede di una dinastia di milionari e neppure è, come Salvini o Meloni, un militante cresciuto negli ambienti di partito.

Egli è cresciuto in una famiglia dove ha sperimentato miseria e violenze. Il padre fuggito, la madre alcolista e di facili costumi. Affidato, con la sorella, ai nonni materni, James e Bonnie Vance (il nonno era operaio in una acciaieria), ha cambiato in loro onore il suo originario cognome, che era Bowman.

Vance è stato in Iraq come marine, si è laureato in filosofia a Yale, si è fatto da sé nel mondo degli affari. Ha conosciuto la notorietà pubblicando, nel 2016, un best seller, Hillbilly Elegy (letteralmente: “Elegia del buzzurro”), in cui raccontava la sua storia, ma anche le difficoltà economiche delle famiglie bianche a basso reddito negli Stati più poveri d’America.

Molto più appropriatamente di Giorgia Meloni, rivendica perciò la sua provenienza dal popolo e ad esso si è rivolto, nel suo discorso, evidenziando una carica sociale che al populismo europeo è sconosciuta: «Alla gente di Middletown, Ohio, e a tutte le comunità dimenticate del Michigan, Wisconsin, Pennsylvania, Ohio e di ogni angolo della nostra nazione… non dimenticherò mai da dove vengo».

Non basterà lo stanco appello ai diritti individuali, su cui i democratici americani spesso si sono appiattiti – come quelli europei – , a fermare uno così. Le nostre democrazie, in America come in Europa, devono inventarsi un “supplemento d’anima”, se vogliono vincere non una battaglia, ma la guerra contro il populismo. Altrimenti saranno soppiantate dai Vance o, ancora più tristemente, dai Trump.

*Scrittore ed Editorialista- Pastorale della Cultura – Arcidiocesi Palermo

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venerdì 5 luglio 2024

LA SALVAGUARDIA DELLA DEMOCRAZIA

  


La democrazia 

va sempre 

di nuovo riconquistata

 

-         di Giuseppe Savagnone*

-          

Ha avuto grande eco sui mezzi di comunicazione il discorso sulla democrazia del presidente Mattarella, in apertura della Settimana Sociale dei cattolici, a Trieste. Per una pura coincidenza, proprio in queste settimane è in corso di svolgimento la campagna per la raccolta di firme in vista di un referendum abrogativo che modifichi la legge elettorale attualmente vigente, consentendo all’elettore di esprimere le proprie preferenze per singoli candidati.

 Una iniziativa che si pone come alternativa all’attuale sistema decisamente “partitocratico” e di cui infatti è promotore un comitato trasversale rispetto a tutti i partiti e non riconducibile a un univoco colore politico. 

 Il legame tra i due eventi è dato dal fatto che al centro del discorso di Mattarella c’è stato un monito riguardante «tutta la difficoltà, e a volte persino un certo affanno, nel funzionamento delle democrazie» e sul fatto che «la democrazia non è mai conquistata per sempre».

 A ridarle sempre nuovo vigore devono essere i cittadini con la loro attiva partecipazione. E proprio sotto questo profilo un segnale allarmante viene dall’astensionismo sempre crescente delle ultime consultazioni elettorali.

 Alla radice, nell’analisi del presidente, c’è la perdita della grammatica elementare della cittadinanza responsabile. Un “analfabetismo” che impedisce che «tutti prendano parte alla vita della sua società e delle sue istituzioni (…). Ogni generazione, ogni epoca, è attesa alla prova della“alfabetizzazione”, dell’inveramento della vita della democrazia (…). Battersi affinché non vi possano essere “analfabeti di democrazia” è una causa primaria, nobile, che ci riguarda tutti (…). Per definizione, democrazia è esercizio dal basso, legato alla vita di comunità, perché democrazia è camminare insieme».

 La proposta di referendum

Ebbene è a questa prospettiva che si spira l’iniziativa referendaria volta a cambiare l’attuale legge elettorale, nota come “Rosatellum” (dal nome di Ettore Rosato che fu uno dei proponenti,) in vigore dal 2017, dopo le sentenze della Corte Costituzionale che avevano modificato sia la legge elettorale per il Senato nota col significativo nome di “Porcellum”, sia quella, in realtà mai utilizzata, per la Camera, soprannominata “Italicum”.

 Il “Rosatellum” è una legge elettorale mista, in parte maggioritaria e in parte proporzionale. Non entriamo qui nel merito della sua struttura.

 Ciò che i promotori del referendum hanno di mira e chiedono di abrogare è il fatto che, in base ad essa al cittadino viene sottratta la possibilità di scegliere uno o più candidati, tra quelli presenti nella lista, e di esercitare così un ruolo decisivo nel determinare il successo dell’uno o dell’altro di sua fiducia. A gestire il voto da lui dato alla lista è alla fine la direzione del partito che ha composto la lista e che in buona sostanza ha scelto per lui i candidati destinati a entrare in Parlamento.

 Una manipolazione della volontà popolare che assume la forma di una vera e propria illusione ottica quando il leader del partito, o un altro soggetto di richiamo, per attirare sulla propria persona il maggior numero possibile di voti si presenta come capolista in più collegi, riservandosi di sceglierne uno, a elezione avvenuta, e far entrare in Parlamento i “secondi”, a cui in realtà chi aveva votato per loro non pensava affatto.

 L’iniziativa “Io voglio scegliere” vuole chiamare i cittadini a cambiare questo sistema, reintroducendo il voto di preferenza per i singoli candidati e abolendo le pluri-candidature.

 L’intento è quello di riavvicinare alla politica attiva frange sempre più consistenti di cittadini che ormai non si recano neppur alle urne, nell’ipotesi che questa disaffezione sia derivata, almeno in una certa misura, dalla consapevolezza che il proprio voto viene ormai incasellato all’interno di un meccanismo di cui solo i vertici dei partiti hanno il controllo.

 «Il diritto di scegliere» in una democrazia parlamentare

In questo senso, dopo la grande ondata di populismo che ha investito il nostro paese portando a una radicale svalutazione del Parlamento – in nome di una “democrazia diretta” e al primato di una volontà popolare, che poi in realtà veniva a identificarsi con quella degli iscritti alla fatidica «piattaforma Rousseau» (il nome non era casuale) – , qui la lotta contro la “casta” viene condotta seguendo la via opposta: non la svalutazione della rappresentanza parlamentare, ma la sua rivalutazione e personalizzazione.

 L’idea è che la democrazia non si garantisce meglio abolendo le mediazioni e puntando sull’adesione delle masse, come hanno sempre fatto e fanno tutti i regimi totalitari, bensì esprimendo dei rappresentanti qualificati, con cui gli elettori che li scelgono come espressione delle proprie idee e dei propri interessi possano avere prima e dopo l’elezione un rapporto dialogico e responsabile, impossibile nelle “adunate oceaniche” che caratterizzano il consenso incondizionato al “capo” di turno.

 Una prospettiva molto diversa da quella del disegno di legge sul premierato, appena passato al Senato, anche se per certi ha in comune con esso alcune esigenze. «Un primo passo in avanti per rafforzare la democrazia, dare stabilità alle nostre Istituzioni, mettere fine ai giochi di palazzo e restituire ai cittadini il diritto di scegliere da chi essere governati», l’ha definito la premier Giorgia Meloni.

 Ebbene, anche secondo i promotori di “Io voglio scegliere” questo «diritto di scegliere da chi essere governati» è stato in questi anni sottratto, in una certa misura, ai cittadini, e va restituito ad essi.

 Ma la soluzione da essi proposta non è di scavalcare il Parlamento – come nella più pura logica populista – sottraendogli la scelta del primo ministro e del governo , per affidarlo alla roussauiana “volontà generale”, bensì di rendere più personale e più limpido il rapporto dei cittadini con coloro che formeranno il Parlamento e che poi dovranno esprimere l’esecutivo.

 Non è certo questo l’intento del disegno di legge sul premierato. Basta pensare che in esso si prevede che alla lista del premier eletto spetti un «premio su base nazionale, che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere».

 Il dibattito parlamentare, a questo punto, sarebbe a priori vanificato e il Parlamento avrebbe solo il compito di sanzionare e tradurre in leggi le scelte del premier. Come in tutte le dittature. Non è un caso che proprio  grazie all’introduzione del premio di maggioranza, previsto dalla legge elettorale Acerbo, nel 1923, il fascismo abbia potuto dare al suo potere una vernice di legittimità costituzionale.

 Sempre in nome della fiducia nel “capo” («Se volete dirmi che ancora credete in me scrivete sulla scheda “Giorgia”) che rende superflua l’attenzione  alle persone e ai programmi dei membri del Parlamento.

 Ma perché un eventuale referendum sul “Rosatellum” abbia successo e non naufraghi nell’indifferenza generale, come tanti altri, per la mancanza del quorum, è necessario un risveglio della coscienza  politica degli italiani, da troppo tempo assuefatti a una logica di delega.

 Il vecchio e il nuovo populismo si possono sconfiggere solo attraverso quella effettiva, consapevole, personale assunzione di responsabilità dei cittadini verso il bene comune a cui il presidente Mattarella si appellava nel suo discorso a Trieste. È attraverso questo sforzo di consapevolezza, non con la fede in un leader, che potremmo riappropriarci della nostra democrazia.

 *Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo

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