- di Giuseppe Savagnone*
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Il tentativo di Giorgia
Meloni di sdoganare il populismo di destra
Negli stessi giorni,
sulle due sponde dell’Atlantico, si sono svolte due vicende che hanno
comportato la sfida del populismo alle tradizionali istituzioni democratiche.
La prima è stata quella, successiva alle elezioni europee, che ha visto il
fallito tentativo del gruppo dei Conservatori, guidati da Giorgia Meloni, di
entrare a far parte – almeno indirettamente – della maggioranza della
Commissione UE.
La seconda ha avuto come
sue tappe fondamentali l’attentato a Donald Trump, la sua scelta, come
vice-presidente, di J. D. Vance e la convention repubblicana di Milwaukee. Vale
forse la pena di soffermarsi su queste due storie per cogliere il significato
di ciò che esse significano per il nostro presente e il nostro futuro.
Partiamo dall’Europa. Le
ultime elezioni per il parlamento europeo erano state precedute da
sondaggi e previsioni che davano per certa una forte crescita dei consensi
per i partiti populisti di destra, anche se non era sicuro che essa avrebbe scalzato
la maggioranza costituita dall’alleanza tra Popolari, Socialisti e
Liberali.
Nel dubbio, la presidente
della Commissione, Ursula von der Leyen, si era molto avvicinata alla leader
del Conservatori, la premier italiana Giorgia Meloni, da cui si aspettava un
sostegno per un’eventuale rielezione, nell’eventualità di un crollo dei partiti
che l’avevano sostenuta fino a quel momento.
Il crollo, in realtà, non
c’è stato, anche se effettivamente l’estrema destra, costituitasi nel gruppo
dei “Patrioti”, ha goduto dell’affermazione elettorale del Ressemblement
National di Marine Le Pen (controbilanciato, però, dal drastico ridimensionamento
della Lega) e i Conservatori hanno aumentato i loro consensi grazie
all’affermazione di Fratelli d’Italia.
Così, i partiti della
vecchia coalizione hanno conservato la maggioranza e hanno potuto
rinnovare per altri cinque anni il loro accordo di governo, malgrado le ire di
chi, come Salvini, schierato con i “Patrioti”, li ha accusati di misconoscere i
risultati elettorali, parlando addirittura di «colpo di Stato».
Ma la vera sconfitta, in
questa vicenda, è stata Giorgia Meloni, non solo perché sulla crescita del
prestigio dell’Italia in Europa aveva investito molto della sua immagine in
politica estera, ma soprattutto perché contava su questo rinnovo del Parlamento
e della Commissione UE per rompere finalmente, a livello europeo, il “cordone sanitario”
che confinava la destra populista all’opposizione. E il suo rapporto
privilegiato con la von der Leyen, sottolineato dai ripetuti viaggi diplomatici
fatti insieme, aveva illuso sulla riuscita del suo progetto.
Di fatto, invece – una
volta rassicurata sulla possibilità di essere rieletta dai partiti che
l’avevano sostenuta in passato – , la presidente uscente ha lasciato che
l’“amica” venisse lasciata fuori dalle decisioni sul futuro assetto
dell’Unione.
Umiliata e furiosa per
questa inattesa emarginazione, ma non ancora rassegnata, la Meloni ha cercato
di far leva, per avere un peso politico, sulla esigenza della von der
Leyen di garantirsi dei voti anche al di fuori della propria coalizione, per neutralizzare
i probabili franchi tiratori. Ma la presidente in pectore ha
preferito appoggiarsi ai Verdi, rendendo ininfluente il ruolo dei Conservatori,
che alla fine hanno votato contro.
La Meloni si è trovata
così ancora una volta emarginata e il suo tentativo di assumere una pozione
moderata – che la rendesse in qualche mediatrice e arbitra tra i partiti
democratici e i “Patrioti” – l’ha portata alla fine ad essere tra due
fuochi: da un lato questi ultimi (rafforzati dalla confluenza di “Vox”, che ha
abbandonato i Conservatori), che l’accusano di avere tradito le posizioni
radicali del sovranismo; dall’altro la maggioranza di centro-sinistra, che
non vuole avere a che fare con lei perché troppo di destra.
Isolamento – sia detto di
passaggio – che, inevitabilmente, ricade sull’Italia, anche se l’UE non può
certo prescindere dal nostro paese, che è tra i suoi fondatori, per cui – come
da sempre si prevedeva – la Commissione affiderà comunque ad esso degli incarichi
significativi. Solo che lo farà non per, ma malgrado, la politica del nostro
governo.
Esito paradossale, per
una destra populista che si è affermata al grido di «prima gli italiani!» e che
aveva accusato aspramente e ripetutamente il governo Draghi (in realtà sempre
molto considerato a livello europeo e a cui si deve, tra l’altro, lo stanziamento
di 191,5 miliardi, il maggiore dato dall’UE ai suoi membri) di non sapersi
fare valere a Bruxelles. Ora la svolta c’è, ma in senso opposto a quello
auspicato.
E per di più non può non
pesare sulla compattezza del governo italiano l’esplicitarsi e accentuarsi, in
questo rinnovo dei vertici europei, della conflittualità tra Fratelli d’Italia
e Lega, entrambi peraltro divisi da Forza Italia, che fa parte dei
Popolari.
Sia a livello europeo che
a quello italiano, questa situazione problematica dei partiti populisti non può
far dimenticare la fragilità di quelli che difendono, contro di essi, le
tradizionali logiche della democrazia rappresentativa – Popolari, Socialisti,
Liberali – e la cui perdita, anche se limitata, di consensi è il sintomo di un
progressivo esaurimento.
Non si tratta di
difficoltà strettamente politiche, ma innanzi tutto culturali. È l’anima
dell’Europa che essi, nei cinque anni trascorsi, si sono dimostrati incapaci di
recuperare. Né l’inserimento dei Verdi sembra sufficiente a colmare questo
vuoto. La logica dei diritti individuali – sempre più declinata, per di più, in
chiave difensiva nei confronti dei migranti – ha finito per prevalere sul senso
della solidarietà e della responsabilità verso il bene comune. Per non dire che
il tenace nazionalismo dei singoli Stati ha reso difficile perfino individuare
questo possibile fine condiviso e operare concordemente per raggiungerlo.
La debolezza della
presidenza di Biden
Abbastanza diverso il
quadro del populismo che, negli Stati Uniti, ha trovato il suo lancio
definitivo, dopo l’attentato a Trump, nella convenzione repubblicana di
Milwaukee. Sullo sfondo, il progressivo declino della candidatura dell’attuale
presidente Biden, lo sbandamento dei democratici e la crescita esponenziale
delle possibilità di Trump di vincere le ormai vicine elezioni di novembre.
In realtà anche in questo
caso, come in Europa, il populismo si è alimentato con la debolezza della
democrazia. La presidenza Biden è apparsa piena di contraddizioni,
più protesa a cercare di non perdere consensi che ad assumere posizioni nette e
dando spesso un’impressione di debolezza.
Emblematica la difficoltà
di gestire in modo chiaro e autorevole la crisi di Gaza. Da mesi Biden va
ripetendo che l’unica soluzione possibile è quella prevista dalla risoluzione
dell’ONU del 29 novembre 1947, e cioè la creazione di uno Stato palestinese accanto
a quello ebraico.
Una posizione che il
premier israeliano Netanyahu e, recentissimamente, anche la Knesset, hanno
espressamente rifiutato. Un evidente contrasto, che avrebbe richiesto da parte
degli Stati Uniti una ferma presa di posizione.
Invece quando, il 18
aprile scorso, è stata messa a votazione un bozza di risoluzione del Consiglio
di Sicurezza ONU che raccomandava l’adesione della Palestina alle Nazioni
Unite, il rappresentane americano è stato l’unico a votare contro,
bloccando la risoluzione con il veto.
Non è l’unico caso in cui
le buone intenzioni dichiarate da Biden sono state smentite dalle sue scelte
concrete. La sua tardiva condanna dei metodi di guerra di Israele – l’embargo
sul cibo, l’acqua e la luce, le deportazioni in massa, le sistematiche distruzioni
e i massacri di civili nella Striscia -, a lungo da lui giustificate come
espressione del «diritto di Israele di difendersi», non si mai tradotto in
un preciso ultimatum per ottenere il cessate il fuoco immediato.
Si potrà dire che Israele
è uno Stato sovrano e non può essere costretto a cambiare la sua politica. Ma
anche gli Stati Uniti lo sono! Perché in questi mesi gli hanno continuato ad
assicurare una costante fornitura di armi (comprese 7.800 bombe ad altissimo
potenziale, che il Pentagono sconsiglia da sempre di usare in aree popolate per
il loro effetto letale sui civili), permettendo così all’esercito israeliano di
perpetrare i massacri che a parole venivano deprecati?
È solo un esempio. E, se
diventerà presidente, Trump farà quasi sicuramente scelte molto peggiori. Ma
saranno delle scelte. E gli Stati Uniti non appariranno, davanti all’opinione
pubblica mondiale, succubi degli umori e dell’arroganza di uno Stato di dieci
milioni di abitanti.
Dal “Berlusconi
americano” alla ben più seducente figura di Vance
Il tratto che accomuna il
populismo americano a quello europeo e italiano è il sovranismo, con la
priorità assoluta data agli interessi nazionali – «America First» – e la
chiusura delle frontiere ai migranti.
Ma c’è, al di là dei
punti programmatici, lo stile di Donald Trump, che ricorda molto quello del
fondatore del populismo italiano, Silvio Berlusconi, meritandogli la
definizione di «Berlusconi americano».
E, in effetti, ad
accomunare strettamente le due figure sono il ruolo del danaro nel loro lancio
politico, una vita sessuale frenetica esibita senza remore, il grande carisma
comunicativo, la tendenza a piegare le leggi e lo Stato ai propri interessi, l’ostilità
nei confronti dei giudici, la sistematica e quasi spontanea manipolazione
della verità.
Eppure, forse più
pericoloso di Trump, per le istituzioni democratiche americane, sta cominciando
ad apparire il giovane vicepresidente (39 anni), James David Vance, che ha
galvanizzato la convention. A differenza di Trump, Vance non è l’erede di una
dinastia di milionari e neppure è, come Salvini o Meloni, un militante
cresciuto negli ambienti di partito.
Egli è cresciuto in una
famiglia dove ha sperimentato miseria e violenze. Il padre fuggito, la madre
alcolista e di facili costumi. Affidato, con la sorella, ai nonni materni,
James e Bonnie Vance (il nonno era operaio in una acciaieria), ha cambiato in loro
onore il suo originario cognome, che era Bowman.
Vance è stato in Iraq
come marine, si è laureato in filosofia a Yale, si è fatto da sé nel mondo
degli affari. Ha conosciuto la notorietà pubblicando, nel 2016, un best
seller, Hillbilly Elegy (letteralmente: “Elegia del
buzzurro”), in cui raccontava la sua storia, ma anche le difficoltà economiche
delle famiglie bianche a basso reddito negli Stati più poveri d’America.
Molto più
appropriatamente di Giorgia Meloni, rivendica perciò la sua provenienza dal
popolo e ad esso si è rivolto, nel suo discorso, evidenziando una carica
sociale che al populismo europeo è sconosciuta: «Alla gente di Middletown,
Ohio, e a tutte le comunità dimenticate del Michigan, Wisconsin, Pennsylvania,
Ohio e di ogni angolo della nostra nazione… non dimenticherò mai da dove
vengo».
Non basterà lo stanco
appello ai diritti individuali, su cui i democratici americani spesso si sono
appiattiti – come quelli europei – , a fermare uno così. Le nostre democrazie,
in America come in Europa, devono inventarsi un “supplemento d’anima”, se vogliono
vincere non una battaglia, ma la guerra contro il populismo. Altrimenti saranno
soppiantate dai Vance o, ancora più tristemente, dai Trump.
*Scrittore ed
Editorialista- Pastorale della Cultura – Arcidiocesi Palermo
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