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mercoledì 25 ottobre 2023

ULISSE E IL PADRE


SE DAVVERO

 SEI MIO FIGLIO

-        -  di Alessandro D’Avenia

 

In tempi in cui la parola padre è spesso legata a fatti di cronaca cruenti o soggetta a interpretazioni oppressive, frutto dell’evaporazione simbolica e reale del padre che caratterizza la nostra cultura, come ben descritto da Massimo Recalcati nei suoi scritti, l’ottantesimo compleanno di mio padre mi ha portato a chiedermi, da figlio, chi sia per me un padre. Mi è subito venuto in mente l’episodio finale dell’Odissea: «Se davvero sei Ulisse, mio figlio, e sei tornato, dammi un segno sicuro, perché io ti creda», così dice Laerte, padre dell’eroe, quando se lo trova nell’orto. Per poterlo riconoscere occorre una verità più profonda di quella offerta al nervo ottico.

Ulisse

Che cosa fa Ulisse? Sceglie due segni. Il primo, sul corpo, è la cicatrice della ferita quasi mortale ricevuta durante la caccia al cinghiale nel rito di passaggio da adolescenza a età adulta; il secondo è invece nell’anima: «I nomi degli alberi di questo frutteto ben coltivato io ti dirò: un tempo me li donasti e io, ancora bambino, te li chiedevo uno per uno venendoti dietro nell’orto e tu mi dicevi il nome di tutti; tredici peri mi desti, dieci meli, quaranta fichi, cinquanta filari di viti mi promettesti». Il gran finale del poema narra il riconoscersi di padre e figlio attraverso i due momenti chiave del loro rapporto: il passaggio da adolescenza a età adulta e la memoria dei nomi dati alle cose nell’infanzia. Basterà?

Il segno

Non appena Ulisse mostra e racconta i due segni, il padre crede, e quindi vede il figlio. Quella caccia al cinghiale, una specie di esame di maturità omerico in cui però si rischiava davvero la vita, un vero rito di passaggio (morte della vecchia identità e rinascita in una nuova), era stato voluto dal padre, perché il padre è colui che più che darti la vita, ti dà alla vita: ti consegna al rischio di morire. Mentre un padre lancia in aria il figlio, lontano dalla terra, la madre lo tiene stretto a sé, nella terra. Quella ferita sulla coscia di Ulisse è un segno chiaro di quel passaggio. In qualche maniera un padre ti consegna alla morte: il rischio di vivere, cioè di scegliere per chi e cosa vivere. E infatti per ritrovarsi, per riconoscersi, come accade a Ulisse e Laerte, bisogna prima mostrare proprio quella ferita.

 La ferita

Anche io ho mostrato la mia a mio padre e ci siamo riconosciuti in quel passaggio doloroso tra adolescenza e età adulta. La ferita, il mio rito di passaggio, è stata una malattia che ha offuscato lo slancio dell’appassionato uomo di avventura e coraggio, che era stato fino a quel momento mio padre. Quella ferita ha segnato la nostra storia familiare, e a me è capitata proprio in piena adolescenza. Ma proprio quella ferita è un segno in cui ci riconosciamo profondamente: in quel dolore comune siamo diventati il padre e il figlio che siamo, non nonostante e non del tutto, ma anche grazie a quella cicatrice.

 Le ferite sono vita che vuole guarire e che può nascere, e anche se ci è voluto tanto tempo, io mi sento generato da quella ferita, che mi ha in-segnato: che la vita non è perfetta e non ne puoi avere il controllo; che la compassione si impara solo nella carne; che un padre non è un supereroe, ma un uomo che a un certo punto ti mostra che non può, anche se vorrebbe, proteggerti dalla morte; e che stare nella storia umana richiede coraggio e tenerezza, attenzione e pazienza, tutti nomi dell’amore. Il resto passa.

 E poi ci sono i nomi delle cose, nomi «radicali» come quelli degli alberi in-segnati a Ulisse, anche per questo forse sono così appassionato di etimologie (un modo di conoscere il mondo attraverso l’etymos che in greco significava ciò che è vero, reale). Ereditiamo il giardino del mondo a misura delle parole che abbiamo ricevuto. Da mio padre ho ereditato parole «radicali» e con esse il mondo che nominano: avventura, protezione, passione, curiosità, lavoro, lacrime, sorpresa, generosità, lotta, resistenza, dettagli, ferite, coraggio... Per ognuna ho un ricordo di infanzia come per Ulisse quei meli, peri, fichi, viti, nomi che diventano possesso delle cose stesse.

Avventura

Avventura è la bicicletta senza rotelle e l’acqua alta, l’aereo e il treno; lavoro è la passione per la medicina; sorpresa è un nuovo puffo da trovare nelle cacce al tesoro del sabato mattina (per questo li colleziono); ferite è il sopracciglio rotto e ricucito; lacrime quelle che gli ho visto versare; passione è il desiderio di conoscere ogni cosa; curiosità quello di viaggiare in ogni dove... Potrei continuare, ma ci sono parole, più ruvide e faticose, che teniamo per noi, per il nostro personale e intimo riconoscerci. Ereditiamo il mondo nei nomi che i nostri padri ci hanno fatto vedere, ma se non ti puoi fidare delle parole che ti ha insegnato tuo padre non ti puoi fidare di nulla, neanche del tuo nome proprio.

Il patrimonio

Questo è il nostro patrimonio, che significa letteralmente il dono del padre, ciò di cui, nel bene e nel male, un padre ti munisce. Mi è allora venuta in mente quella che potrebbe essere la rilettura moderna dell’episodio omerico, il libro di Cormac McCarthy La strada, sul quale è uscito da poco un bel commento spirituale di Luigi Maria Epicoco (Per custodire il fuoco, Einaudi). Nel libro dello scrittore americano scomparso di recente un padre fa di tutto per salvare il figlio, e ce la fa in-segnandogli il nome del fuoco e quindi dandoglielo in eredità.

 «Dove sta? Io non lo so dove sta», dice il figlio, «Sì che lo sai. È dentro di te. Da sempre. Io lo vedo», risponde il padre, nel momento più toccante del racconto. Anche io di una cosa sono certo: sono stato fortunato, perché, in un mondo così pieno di inconsistenza, di ferite mai curate e di parole senza etimo (cioè, senza verità), mio padre, 80 anni appena compiuti, mi ha lasciato in eredità questo fuoco. Il fuoco è il mio patrimonio.

 

Alzogliocchiversoilcielo

 

 

 

sabato 26 agosto 2023

PER UNA PATERNITA' AUTENTICA

Giovani alla ricerca 

di «paternità» autentica

-         di Paolo Giulietti *

 Ho vissuto la Gmg con i miei giovani, condividendo con loro quasi tutto, momenti quotidiani e straordinari. Sintetizzare l’esperienza non è facile, perché esistono grandi differenze tra i percorsi umani e spirituali di ciascuno di essi.

Confesso però di essere rimasto molto colpito dall’impatto delle parole di papa Francesco su di loro: discorsi semplici, elementari, quasi da catechismo della prima comunione: «Gesù ti vuole bene, non ti giudica, cammina con te sempre, ti aiuta a impegnarti per fare della tua vita qualcosa di bello, nonostante tutto». Parole – si direbbe – banali, eppure accolte con grande attenzione e anche commozione. Parole evidentemente desiderate, perché rare, espressione di una paternità affettiva e incoraggiante di cui le nuove generazioni mostrano di avere un disperato bisogno. Riporto quindi da Lisbona l’impressione di una diffusa orfanità umana e spirituale di tanti ragazzi e ragazze, in alcuni soggetti addirittura sconcertante. Che manchino gli adulti lo si vede da tante piccole cose, relative alla gestione quotidiana, alle reazioni dinanzi alle difficoltà, all’andamento delle relazioni... Lo si coglie nei racconti di ciò che vivono a scuola, in famiglia, in parrocchia... dove è forte – anche se non sempre consapevole – la percezione di essere, da parte degli adulti, più giudicati che accompagnati, più intrattenuti che educati, più blanditi che amati; di avere più complici infidi che padri affidabili. Lo si coglie nel sorprendente attaccamento alle figure adulte capaci di incarnare una paternità autentica, anche e forse soprattutto nel richiamare esigenze e responsabilità. Questa Gmg ci ha mostrato che camminare con i giovani implica saper incarnare la proposta cristiana in uno stile di autentica vicinanza e dedizione e con parole che vadano al cuore, poiché nascono da un’effettiva comunicazione. Appunto da padri.

Tutto questo è molto sfidante, perché chiede alle nostre comunità – non solo agli “addetti ai lavori” – di recuperare un’attitudine generativa che culturalmente appartiene sempre meno a noi adulti, anche nella Chiesa. Il frutto dell’individualismo imperante, infatti, non può che essere la sterilità, perché ogni forma di generazione comporta una qualche abdicazione rispetto alla sovranità dell’ego. L’individualismo si esprime a volte anche come difesa “corporativa” di interessi, tradizioni, modi di fare... sui quali ci si adagia, anche nelle parrocchie, ma che non risultano accoglienti o interessanti per le nuove generazioni.

Papa Francesco richiama da tempo la necessità di diventare quel “villaggio educante” di cui i giovani hanno bisogno per trovare la propria strada nel mondo. La semplicità delle sue parole e del suo stile ci interpella a divenire capaci di una siffatta paternità.

 È evidente che la comunità cristiana deve fare seriamente i conti con una società non più cristiana, in cui si assiste a un processo di “esculturazione” della fede (Hervieu-Léger). È però altrettanto evidente che il linguaggio della prossimità, della dedizione e del disinteresse continua ad avere un impatto decisivo sui giovani, capace di far emergere la convenienza con l’umano della proposta cristiana. In estrema sintesi, la Gmg è un evento in cui la Chiesa vive per una decina di giorni mettendo i giovani al centro, cioè, investendo tempo, soldi, competenze, attenzioni… tutti su di loro. Ma – mutatis mutandis – non dovrebbe essere sempre e dovunque così?

*Arcivescovo di Lucca

www.avvenire.it


mercoledì 17 giugno 2015

LA DIFFERENZA UOMO - DONNA, UNA RICCHEZZA PER I FIGLI

  Papa Francesco:
 la differenza tra uomo e donna è ricchezza per i figli
«L’essere genitori, ricorda la Bibbia, si fonda sulla diversità di essere maschio e femmina»
Da Avvenire 16.6.15

Pubblichiamo il testo integrale del discorso pronunciato dal Papa domenica scorsa in apertura del Convegno ecclesiale della diocesi di Roma.
Buonasera! Le previsioni ieri, a tarda sera, dicevano per oggi, per questo pomeriggio e questa sera: pioggia! Sì è vero, pioggia di famiglie in Piazza San Pietro! Grazie! È bello incontrarvi all’inizio del Convegno pastorale della nostra diocesi di Roma. Ringrazio tanto voi genitori, di aver accettato l’invito a partecipare così numerosi a questo incontro, che è importante per il cammino della nostra comunità ecclesiale.
Come sapete, da alcuni anni stiamo riflettendo e ci interroghiamo su come trasmettere la fede alle nuove generazioni della città che, anche a seguito di alcune ben note vicende, ha bisogno di una vera e propria rinascita morale e spirituale. E questo è un compito molto forte. La nostra città deve rinascere moralmente e spiritualmente, perché sembra che tutto sia lo stesso, che tutto sia relativo; che il Vangelo è sì una bella storia di cose belle, che è bello leggerlo, ma rimane lì, un’idea. Non tocca il cuore! 

continua : UNA RICCHEZZA PER I FIGLI