- - di Rossana Sisti
Arrivato
il suo turno, ormai a tarda sera, il maestro Manzi stracciò il copione della
lezione sulla lettera “O” che doveva recitare e improvvisò a modo suo,
muovendosi nello studio, parlando e disegnando su fogli di carta da pacco
appesi al muro.
Nessuno
aveva pensato che non si potesse fare lezione in tv senza immagini in
movimento, ma tutti ben presto tra direttori e ispettori vari capirono che
quello era il maestro giusto.
E
un mese dopo, metà novembre 1960, partiva in diretta la prima puntata di Non è
mai troppo tardi.
Al
tempo gli italiani analfabeti erano ancora quasi quattro milioni, adulti e
anziani rassegnati, difficilmente disponibili a tornare a scuola ma che, questa
era la sfida, la televisione poteva agganciare.
L’appuntamento
con il maestro in tv alle 18, prima di cena, il martedì, il giovedì e il
venerdì sarebbe durato otto anni; il risultato fu un programma invidiato e
copiato all’estero, tanto che nel ’65 su indicazione dell’Unesco, ottenne il
premio dell’Onu come uno dei programmi più significativi nella lotta contro
l’analfabetismo.
Un
format di successo, la prima volta in Italia di un educational televisivo che
scivolava nell’intrattenimento, apprezzato dagli adulti e non di meno da quella
generazione di bambini che negli anni Sessanta cresceva con una tv ancora in
bianco e nero e si appassionava alle lezioni di quel maestro che insegnava col
sorriso e la voce calda mentre con mano veloce traduceva le parole in disegni
stilizzati con il carboncino su grandi fogli bianchi.
Garbato
e amabile nei modi e capace di un linguaggio pacato, tranquillizzante, semplice
e chiaro, Alberto Manzi era non solo un maestro competente e straordinario che
aveva trovato il registro giusto per parlare agli adulti, ma anche un
conduttore che bucava il video.
«Se
stavo fermo 20 minuti a parlare – avrebbe spiegato – addormentavo tutti.
La
mia soluzione fu di disegnare: mi bastava schizzare qualcosa, meglio se
incomprensibile all’inizio, per cui chi stava a guardare era incuriosito dal
disegno che via via prendeva forma e nel frattempo seguiva il mio discorso».
E
sebbene non volle mai attribuirsi tutto il merito condividendolo con i maestri
dislocati in duemila punti d’ascolto organizzati in tutto il Paese tra bar,
parrocchie e centri sociali, è innegabile che le doti di comunicatore e il
carisma personale di Manzi catalizzarono il pubblico e il risultato fu che un
milione e mezzo di italiani presero la licenza elementare.
Certo
la visibilità televisiva, di cui a tratti pativa la pesantezza, ha per certi
versi appiattito la figura di Alberto Manzi sul successo di Non è mai troppo
tardi, che è stato solo un pezzo del suo più ampio impegno in tv e una
parentesi nei quarant’anni di insegnamento da maestro elementare cui è tornato,
fino alla pensione nel 1988.
Perciò
a cento anni dalla nascita – il 3 novembre 1924 – rileggere l’ultima
conversazione di Alberto Manzi con Roberto Farné, già professore di Didattica
all’Università di Bologna – realizzata nel ‘97 e riprodotta integralmente nella
nuova edizione ampliata del suo saggio Alberto Manzi. L’avventura di un maestro
(Bologna University Press, pagine 196, euro 22,00) – consente di ricostruire
attraverso la sua voce, un profilo più completo dell’uomo, dell’educatore colto
e rigoroso, del comunicatore raffinato e dello scrittore, esponente di quella
cultura pedagogica alta della seconda metà del ‘900 accanto a don Milani, Bruno
Ciari, Danilo Dolci, Gianni Rodari, Mario Lodi, Loris Malaguzzi, tutti
pressoché coetanei.
«Basta
scavare nel ricco materiale dell’archivio donato dalla famiglia di Manzi, dopo
la sua morte, all’Università di Bologna e conservato nel Centro Alberto Manzi,
presso la Regione Emilia-Romagna – racconta Roberto Farné – per rendersi conto
che ci troviamo di fronte a una delle figure più originali e significative
della recente cultura pedagogica italiana.
Fu
esattamente questa l’impressione che io ne ebbi quando lo incontrai per una
lunga intervista nel giugno del 1997: stavo studiando il ruolo della
televisione educativa in Italia e Alberto Manzi era una delle mie fonti
primarie».
Un
racconto che è la riprova di quanto il maestro sapesse incantare, con il suo
carisma innato di comunicatore, chi lo ascoltava.
Sognava
di diventare capitano di lungo corso, ma la vita lo ha portato altrove perché
contemporaneamente all’istituto nautico, Manzi frequentava anche il magistrale
che per i maschi era gratis.
Controvoglia
andò in guerra dove era nata l’idea di aiutare i ragazzi e rinnovare un po’ la
scuola per cambiare certe cose che non gli piacevano.
Poco
più che ventiduenne nel ‘46, approdò al carcere minorile Aristide Gabelli di
Roma a insegnare a 94 alunni dai 9 ai 17 anni, alcuni analfabeti, altri con la
seconda liceo, e dove non c’erano penne, quaderni né libri e nessuno aveva
voglia di studiare.
Già
qui si convinse che era necessario un modo nuovo di fare scuola.
Dopo
un mese di rifiuti e contrasti si guadagnò la possibilità di insegnare vincendo
una scazzottata con il boss dei giovani detenuti.
Quattro
anni in Marina erano stati una palestra come si deve, ma quella fu una vittoria
su tutti i fronti: insieme ai ragazzi organizzò un giornale, una recita e
persino un campeggio.
Il
mestiere di maestro, anche se all’università aveva studiato biologia, era ormai
un destino: s’iscrisse a pedagogia e maestro fu, sempre animato dal desiderio
di fare della scuola un luogo di ricerca, dove si aiuta a pensare, senza
consegnare pensieri già fatti.
Un
maestro difficilmente incasellabile, «attentissimo – ricorda Roberto Farné – a
non essere catturato e identificato all’interno di raggruppamenti rischiando di
perdere quella libertà di non appartenere se non alla propria soggettività».
«Quando
Alberto ci raccontava di queste e altre esperienze, durante l’intervista –
racconta – si coglieva nel tono e nel modo del suo narrare un senso di
soddisfazione, e forse di orgoglio, nell’aver compiuto delle scelte rispondendo
unicamente al principio della libertà della propria coscienza.
L’impressione
è che Alberto Manzi avesse un’avversione istintiva e razionale insieme, verso
ogni forma di compromesso che rispondesse al criterio di semplificare la
realtà, di risolvere i problemi attraverso le vie del facile accomodamento.
Soprattutto
è emerso con sempre maggiore chiarezza che il suo mettersi contro non era
dettato da alcuna forma di protagonismo ma il risultato di un’obiezione di
coscienza sul piano etico-pedagogico».
È
ciò che ha messo in atto con fermezza contro i voti nelle pagelle, che lo portò
otto volte sotto il Consiglio di disciplina, e poi contro i giudizi delle
schede di valutazione che gli valse più di una denuncia alla procura della
Repubblica (con sospensione dello stipendio) e lo indusse a coniare quello
slogan trionfo dell’ovvietà ma tecnicamente perfetto e incontestabile da
replicare sulle schede con un timbro: “Fa quel che può, quel che non può, non
fa”.
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