sabato 23 novembre 2024

IL CAMMINO SINODALE


 Sul Documento finale del Sinodo

 

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  - di Severino Dianich 

 

Superata la delusione dell’opinione pubblica e l’irritazione di quanti, dopo aver proposto, lungo il Cammino sinodale, alcuni temi particolarmente sensibili, li hanno visti stornati dalla discussione in assemblea e affidati a dei particolari gruppi di studio, bisogna dire che il Documento finale del Sinodo è un testo, da molti punti di vista, di tutto rispetto. Non si potrà dire, quello che molti temevano, che la montagna ha partorito un topolino.

Ne è un primo frutto, infatti, un documento del magistero episcopale, capace di fare da Magna Charta per la Chiesa del futuro, in ordine al modus agendi nel determinare il programma della sua vita interna e della sua missione nel mondo, con il concorso e la responsabilità di tutti. 

Questioni aperte 

Con tutto ciò, resta comprensibile e legittima la delusione dei molti che si attendevano un concreto passo in avanti per la posizione della donna nella Chiesa, aprendole la strada almeno verso l’ordinazione diaconale, e la creazione di un quadro della comunità cristiana più positivo nei confronti di coloro che vivono situazioni coniugali e familiari particolari come i divorziati risposati o i conviventi senza matrimonio, senza dire delle persone LGBTQIA+. 

Rimane la sensazione che l’assemblea sinodale sia stata derubata della riflessione sui temi cruciali che erano stati proposti dai fedeli lungo il Cammino sinodale e per i quali fedeli e opinione pubblica attendevano soluzioni innovative. A parziale giustificazione del fatto, si potrebbe solo dire che tali questioni, una volta poste sul tappeto, aprono a tutto campo la questione della tradizionale morale cattolica, che attende ancora dai teologi una sua reimpostazione di cui difficilmente i sinodali sarebbero stati capaci. Testimoni del sensus fidei del popolo di Dio ne hanno sentito ed espresso il bisogno, senza averne potuto offrire le concrete soluzioni. 

All’assenza di una presa di posizione riguardo all’ammissione delle donne al sacramento dell’Ordine, se pure limitata al grado del diaconato (solo per rispetto del trascorso recente magistero papale), segue nel Documento finale almeno l’affermazione che si tratta di una questione che resta aperta. Né potrebbe essere altrimenti, in quanto si tratta di un caso più unico che raro, nel quale viene inibito ad una persona l’esercizio di un certo ministero, esclusivamente perché è donna. E questo non perché la condizione femminile la privi delle attitudini necessarie per l’esercizio del ministero, ma solo perché è donna. 

Siamo al limite di una violazione di quella «vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo», dichiarata dal concilio al n. 32 della Lumen gentium. Non si dimentichi che Gesù non disdegnava di avere vicine a sé donne che lo «avevano seguito… dalla Galilea», appunto, «per servirlo (diakonoûsai autô)» (Mt 27,55). 

A parte queste e altre lacune che si potrebbero citare, rispetto alle attese (troppe, a dire il vero, e troppo vaste) che erano state espresse lungo il Cammino sinodale, il Documento finale è un testo importante, già per il fatto di avere impostato un programma di promozione della sinodalità non fine a sé stessa, ma in direzione della missione della Chiesa. Il testo, quindi, dà della missione, in maniera lapidaria, una felice definizione: «La Chiesa esiste per testimoniare al mondo l’evento decisivo della storia: la risurrezione di Gesù» (n. 14). 

E’ anche da apprezzare che, mentre la conversazione sinodale nella Prima Sessione, con non poco disagio, vagava nell’incertezza di cosa significasse e che senso avesse l’idea stessa di sinodalità, il Documento finale ne offre una bene articolata e chiara descrizione: il concetto di sinodalità comprende, 

a) uno stile peculiare dell’agire nella Chiesa, sia nella sua vita interna che nell’esercizio della sua missione, 

b) alcune corrispettive strutture e procedure istituzionalmente determinate, 

c) l’accadere puntuale di determinati eventi (n. 30). 

In coerenza con l’intento di un’efficace promozione della sinodalità, l’articolarsi della Chiesa ai suoi diversi livelli, come non sempre avviene nei documenti del magistero, è descritto utilizzando una schematizzazione ascendente: communio fidelium, communio Ecclesiarum, communio episcoporum: la Chiesa, prima di tutto, sono le persone, poi le loro aggregazioni comunitarie, quindi i pastori che le guidano. 

Un frutto di questo modo di ragionare era stata già la stessa forma nuova del Sinodo dei vescovi, che papa Francesco aveva voluto come tappa di un cammino che coinvolgesse tutti i fedeli e come un’assemblea di vescovi che non fosse solo di vescovi, ma cui partecipassero, in misura rilevante, con lo stesso diritto di parola e di voto, anche fedeli non vescovi. Il Documento finale auspica che anche in futuro il Sinodo dei vescovi abbia stabilmente questa forma (n. 136). Basterebbe questo particolare per doverne rilevare la notevole valenza storica. 

A dire il vero, non ci si dimentica che c’erano state, in passato, assemblee di vescovi a carattere continentale, come quelle celebri di Medellin e Puebla, nelle quali si era verificata una felice interazione tra le molte varietà del popolo di Dio, con un articolato intreccio fra le responsabilità proprie dei pastori e il discernimento dei fedeli (nn. 125-127). 

I vescovi e la Curia romana 

Lungo il Cammino e le due assemblee sinodali, la figura del vescovo è stata oggetto frequente di discussione, non senza che vi affiorassero non pochi motivi di una diffusa insoddisfazione. 

Prima di tutto, sul modo con cui oggi vengono scelti i vescovi e destinati alle diverse Chiese particolari, per cui i sinodali hanno chiesto vengano create e adottate forme di partecipazione dei fedeli delle Chiese locali a decisioni per loro così importanti. 

In quanto all’elezione e all’ordinazione di vescovi che non vengono destinati al ministero di una Chiesa locale, come accade per i nunzi apostolici e i funzionari della Curia romana, non poteva che venirne messa in discussione la prassi (n. 70). 

Il problema più sentito, però, era ancora quello di un’esorbitanza dell’esercizio dell’autorità papale da parte della Curia romana e del bisogno di disegnare con maggiore ampiezza gli spazi nei quali i singoli vescovi e i loro diversi collegi locali siano lasciati pienamente responsabili delle decisioni necessarie sul territorio. 

Si noti che, nell’ordinamento attuale, neppure i concili particolari, che molte volte, lungo la storia, sono stati determinanti anche per la Chiesa universale, possono emanare documenti dotati di autorità, senza la recognitio della Santa Sede, per cui non c’è da stupirsi che i sinodali vogliano tutta questa materia sia rivista nella direzione di un necessario decentramento del governo della Chiesa, attraverso la valorizzazione delle conferenze episcopali. 

Al di là dell’autorità del concilio ecumenico e del papa non si dà alcun collegio episcopale che abbia il potere di imporsi al singolo vescovo, per cui efficace a largo raggio nella Chiesa resta solo il potere di Roma (nn. 125-136). 

Sul piano generale i sinodali hanno chiesto si metta in opera «un discernimento più coraggioso di ciò che appartiene in proprio al ministero ordinato e di ciò che può e deve essere delegato (il corsivo è mio) ad altri». 

Il ricorso all’idea della delega in un asserto che intende negarne la necessità è la riprova di quanto sia ancora difficile nella Chiesa cattolica riconoscere la piena soggettualità ecclesiale dei fedeli, nonché i compiti, carismi e ministeri che chiedono, caso mai, di essere riconosciuti come propri dei fedeli, e non delegati dai pastori ai fedeli. 

Si pensi ai problemi della vita coniugale e familiare e al paradosso del vescovo che delega, lui che non ne ha i carismi, in quanto votato al celibato, a dei coniugi che ne sono ben dotati per la grazia del sacramento, la responsabilità della pastorale familiare. 

Senza dire del problema del magistero episcopale e papale intorno alla morale coniugale, che mai come in questo caso richiederebbe di venire elaborato sinodalmente assieme a quei fedeli che, a differenza dei vescovi, hanno ricevuto dal loro sacramento i carismi necessari per il necessario discernimento. 

Non di poco conto è stata, infine, anche la richiesta di molti vescovi di non dover svolgere, accanto alla funzione pastorale con il suo carattere paterno, anche quella giudiciale, aprendo alla possibilità che i tribunali ecclesiastici non debbano essere presieduti dal vescovo e quindi acquisiscano effettivamente, con la terzietà del giudice, la loro indipendenza dall’autorità. 

Organismi di partecipazione 

Alla base della vita ecclesiale, nelle diocesi e nelle parrocchie, lo sviluppo della sinodalità dovrà giovarsi prima di tutto dei consigli pastorali e di quello degli affari economici, già previsti nell’attuale ordinamento canonico. 

I sinodali hanno chiesto, quindi, con frequenza e all’unanimità, che essi siano resi obbligatori e si provveda a risollevarli da quel certo formalismo nel quale si sono, di fatto, appiattiti. 

Il Sinodo ritiene necessario, prima di tutto, che ne venga regolata la designazione dei membri, da non lasciare all’arbitrio del pastore, quindi che si curi li compongano fedeli impegnati nella testimonianza della fede nella società civile, più che i fedeli impegnati in servizi interni alla comunità e, infine, che vi si promuova la necessaria articolazione fra la loro funzione consultiva e quella deliberativa. 

Questo del potere solo consultivo, in realtà, è un problema grave, di cui non è stata proposta una soluzione adeguata. I sinodali, infatti, si sono limitati a chiedere che, nei canoni rispettivi del Codice, si riveda la formula del «“solamente consultivo” (tantum consultivum)» (n. 92). 

In realtà, se si vuole promuovere la sinodalità, non si tratta di cambiare la formula, ma la sostanza dei processi decisionali, cioè di distinguere gli ambiti della vita della comunità nei quali è necessario l’esercizio dell’autorità del pastore, mentre ai fedeli spetta una funzione consultiva, dai numerosi altri ambiti, nei quali sono i fedeli ad essere dotati di competenze, manifestazioni dei carismi dello Spirito, di cui non è dotato il pastore, per cui essi più che il pastore sono in grado di fare discernimento e determinare la decisione. 

Se ai consigli non sarà data una loro determinata capacità decisionale là dove il problema non esige l’esercizio dell’autorità sacramentale del pastore, la sinodalità nelle Chiese locali e nelle parrocchie non farà alcun effettivo passo in avanti. Ciò che il Sinodo, invece, ha chiesto esplicitamente è che i pastori e quanti si sono assunti delle responsabilità nella comunità debbano rendere conto ai rispettivi consigli del loro operare (nn. 103-106). 

A questo proposito il Documento finale insiste sul fatto che bisogna superare la tradizionale idea che solo gli inferiori debbano rendere conto ai superiori del loro agire e non il contrario, citando anche il tratto degli Atti degli Apostoli nel quale Pietro venne obbligato a giustificarsi di avere battezzato un pagano (At 11,2-3). Si vede anche nell’oblio di questa prassi un derivato del clericalismo, nonché un suo continuo alimento (nn. 95-99). 

Per quel che riguarda gli affari economici si chiede fra l’altro che, possibilmente, il rendiconto sia certificato da revisori esterni. 

Osservazione conclusiva 

Come è stato per i documenti del concilio Vaticano II, così per il Documento finale del Sinodo la sua efficacia dipenderà dalla recezione, consegnata alla responsabilità dei vescovi e ad un continuativo impegno dei fedeli che fino ad ora si sono coinvolti nell’impresa. 

Ciò non toglie che sia necessario si metta mano alla riforma di alcuni tratti dell’attuale ordinamento canonico, come quello sul “consultivum tantum”, l’obbligatorietà e le procedure dei consigli, il dovere della rendicontazione a tutto campo ecc. 

Se tutto questo sembra necessario nell’immediato, affinché il Documento del Sinodo non resti lettera morta, mettendo mano al Codice, si aprirà un’altra, ben più radicale questione. La volontà di un decentramento del governo della Chiesa mette in causa, infatti, la stessa esistenza del Codice di diritto canonico: un Codice, due Codici, più Codici o nessun Codice. È su questo terreno che ormai la canonistica più interessante si sta muovendo.

 

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