per l’Europa?
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di Giuseppe Savagnone*
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Tutti
giornali hanno dato grande risalto, sulle loro prime pagine, alla votazione con
cui il Parlamento europeo ha definitivamente approvato la Commissione che – per
la seconda volta sotto la presidenza di Ursula von der Leyen
– guiderà per i prossimi cinque anni l’UE.
La
neo-eletta presidente ha subito salutato il risultato parlando di «una buona
giornata per l’Europa». Ma, a mettere in dubbio che il suo reale stato d’animo
corrispondesse alle sue parole, sono due circostanze – anch’esse segnalate con
grande risalto da tutti i quotidiani – relative alle modalità con cui
questa elezione è avvenuta, che evidenziano i problemi del presente
e lasciano prevederne di ancora più gravi per il futuro.
La
prima è che i 370 voti a favore del nuovo esecutivo, a fronte dei 282 contrari
e dei 36 astenuti, su 688 votanti, rappresentano il consenso più basso mai
registrato da una Commissione. Siamo davanti a un record negativo: mai
nessuno era diventato presidente col sostegno del solo 51,3% dei
rappresentanti degli elettori europei.
La
seconda circostanza allarmante è che in questa votazione la von der Leyen ha
raccolto ben 31 voti in meno dei 401 incassati a luglio, quando il Parlamento,
a scrutinio segreto, le aveva affidato il mandato.
Specchio
di un progressivo sgretolamento della maggioranza che l’aveva sostenuta sia
nelle precedente legislatura che all’inizio della nuova. La nuova Commissione
nasce, insomma, debolissima.
Una
maggioranza liquida
Alla
base di questa frantumazione c’è stata l’apertura – da parte della von der
Leyen e di Manfred Weber, capogruppo del PPE (Partito Popolare Europeo),
di cui lei è espressione – nei confronti dell’ECR (Gruppo dei Conservatori e
dei Riformisti europei), guidato da Giorgia Meloni, che a luglio non aveva appoggiato
la rielezione di von der Leyen, ma che adesso ha votato a favore, perché
un rappresentante della destra, l’italiano Fitto, è stato cooptato come uno dei
vicepresidenti esecutivi.
Davanti
a questo allargamento della maggioranza a destra i gruppi che sostenevano la
maggioranza si sono spaccati: dai socialisti sono arrivati appena 90 sì su 133
votanti, spaccati anche i Verdi – 27 favorevoli e 19 contrari -, sei astenuti
si sono contati tra i liberali.
Di
segno opposto la divisione del gruppo dei popolari, dovuta al no dei 25
rappresentanti spagnoli, contrari alla nomina a vicepresidente della socialista
Teresa Ribera.
Da
ora in poi ogni decisione non avrà dietro si sé una maggioranza precostituita e
sarà piuttosto frutto di quella “liquida” che si creerà di volta in volta,
rischiando di dar luogo a una conflittualità permanente all’interno della
stessa Commissione.
Il
paradosso di fondo che è all’origine di questa situazione è il coinvolgimento,
nella realizzazione della politica comunitaria, di una forza politica come FdI
che, nel suo programma elettorale per le elezioni nazionali del 2022 –
intitolato significativamente «Per l’Italia» – , aveva messo come primo punto:
«Politica estera incentrata sulle tutela dell’interesse nazionale e sulla
difesa della Patria».
È
vero che, poco dopo, si parla anche di una «piena adesione al processo di
integrazione europea», ma questa adesione è sempre subordinata – secondo il
programma – alla «tutela degli interessi nazionali nella discussione dei
dossier legislativi europei».
La
destra è dichiaratamente sovranista e il sovranismo consiste appunto nel
rifiutare ogni forma di rinunzia alla sovranità degli Stati nazionali a favore
di entità politiche sovranazionali. In questa logica il fine non è l’Europa, ma
– sempre secondo il programma citato – la «centralità dell’Italia».
A
questa prospettiva aprono le porte l’allargamento a destra della Commissione e
l’elezione di Raffaele Fitto. Tanto più che, quando si trattava di convincere i
rappresentati del PD nel Parlamento europei a votare a suo favore – come poi
hanno finito per fare – , in Italia i politici e i giornali della destra
insistevano sul punto che, al di là degli schieramenti, era un italiano,
mentre, ora che è stato eletto, sottolineano che è uno dei loro e che si
propongono, anche grazie a lui, di cambiare l’orientamento della Commissione.
«Il
nostro obiettivo» – ha dichiarato senza reticenze il capo-delegazione dei FdI –
«è quello di spostare a destra gli equilibri europei».
Il
conflitto tra potere e diritto
Un
intento che corrisponde, del resto, al quadro generale dei paesi dell’Unione.
Ormai l’estrema destra sovranista è al governo in ben sette paesi dell’UE:
l’Italia, i Paesi Bassi, la Svezia, la Finlandia, la Croazia, la Slovacchia e
l’Ungheria e ha un crescente consenso elettorale in Germania e in Francia.
Quale unità europea può scaturirne?
Il
solo elemento comune, in questa logica di chiusura, è solo la «difesa dei
confini nazionali ed europei» già prevista, anch’essa, nel programma della
destra italiana. Da qui il messaggio della von del Leyen ai leader europei,
alla vigilia della riunione del Consiglio del 17 ottobre scorso, in cui
prospettava l’opportunità di istituire «HUB per i rimpatri al di fuori
dell’UE, soprattutto in vista della nuova normativa sul rimpatrio», citando
proprio l’accordo stretto tra Italia e Albania, come un modello da cui «trarre
lezioni pratiche».
Un
modello che già in Italia sta sollevando gravi perplessità, perché la nostra
Costituzione e le nostre leggi, a differenza che nella prospettiva sovranista,
non tutelano solo gli italiani, ma le persone umane come tali, di qualunque
etnia e cultura: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo».
Da
qui l’inevitabile scontro del nostro governo con la magistratura, ultimamente
evidenziato nel caso Albania, ma latente da sempre nella divaricazione fra una
logica che privilegia lo Stato e il suo potere, com’è quella sovranista, e
una che invece si fonda sulla tutela delle persone e, in vista di ciò, punta
sulla reciproca limitazione dei poteri.
Da
qui le accuse ai giudici, da parte del nostro governo, di fare politica (le
“toghe rosse”), per il fatto stesso di ostacolare, con le loro sentenze, le sue
scelte, senza neppure entrare nel merito della fondatezza di
quelle sentenze, in base alla nostra Costituzione e alle nostre leggi.
Toghe
rosse anche nella Corte penale internazionale?
Ora
che l’Italia viene assunta come “modello”, il conflitto fra politica e diritto
sembra destinato ad allargarsi a tutta l’Europa.
Sono
molto significative a questo proposito, le risposte della maggior parte
dei governi europei alla decisione della Corte penale internazionale di
emettere un mandato di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin
Netanyahu e per il ministro della guerra Aluf Yoav Gallant «per
crimini di guerra e crimini contro l’umanità».
A
colpire non è tanto quella di un paese dell’Est come l’Ungheria, dove già il
diritto è ampiamente sopraffatto dalla politica e il cui premier ha subito
chiarito che la sentenza della Corte penale «non avrà alcun effetto», invitando
addirittura il premier israeliano a Budapest.
Più
impressionanti sono le reazioni di quelle democrazie occidentali, che negli
ultimi due anni e mezzo si sono hanno fatto della difesa dei diritti umani una
bandiera nel loro strenuo impegno a sostegno del popolo ucraino contro
l’aggressione russa.
A
cominciare dalle dichiarazioni della nostra presidente del Consiglio:
«Approfondirò in questi giorni le motivazioni che hanno portato alla sentenza.
Motivazioni che dovrebbero essere sempre oggettive e non di natura politica».
Dove è chiara l’insinuazione che la sentenza dell’Aja sia motivata da ragioni
politiche, come quelle dei giudici italiani sui migranti.
In
ogni caso – ha assicurato la nostra premier – «un punto resta fermo per questo
governo: non ci può essere una equivalenza tra le responsabilità dello Stato di
Israele e l’organizzazione terroristica Hamas».
Ma
non è solo l’Italia a mostrarsi molto restia a rispettare la sentenza della
Corte. La Francia ha già fatto sapere, con un comunicato del ministero degli
Esteri, che la Francia difende il diritto internazionale, ma che, secondo
Parigi, Netanyahu – in quanto capo del governo di un paese non firmatario del
trattato di Roma, che ha sancito la fondazione della Corte penale – gode di
immunità.
Interpretazione
che, paradossalmente, premierebbe gli Stati che si sono rifiutati di aderire al
trattato istituito a garanzia del diritto internazionale. E che, stranamente,
non è stata mai avanzata quando si è trattato del mandato di arresto contro
Putin, anche lui capo di uno Stato che non ha firmato il trattato di Roma.
Ancora
più esplicita, in difesa di Israele, la successiva dichiarazione congiunta dei
ministri degli Esteri di Germania, Francia e Regno Unito in cui si afferma
che non vi è alcuna giustificazione per cui la Corte penale internazionale
debba adottare misure contro i leader israeliani e si esprime preoccupazione
per le implicazioni della sentenza sulla stabilità regionale. Qui non si tratta
più solo di concedere una immunità: si contesta la sentenza e lo si fa evocando
le sue negative conseguenze politiche. Ancora una volta, la politica
vanifica il diritto.
Non
è un caso che nel comunicato finale del G7 tenuto in questi giorni a Fiuggi non
si faccia cenno della sentenza della Corte, se non ripetendo il mantra del
governo italiano, secondo cui «non ci può essere nessuna equivalenza fra lo il
gruppo terroristico di Hamas e lo Stato di Israele». Trascurando il fatto che
la Corte ha dato un giudizio sui comportamenti criminosi, non sulle qualifiche
di chi li ha messi in atto.
È
stato presentato dalla stampa come un passo indietro dei giudici dell’Aja la
dichiarazione di ritenere legittimo il ricorso presentato da Netanyahu contro
la sentenza e di essere pronti a revocare il mandato d’arresto se Israele
condurrà una indagine approfondita e dimostrerà l’innocenza dei suoi leader. È,
in realtà, solo la conferma che la logica della Corte è quella di un organo
giudiziario, sempre attento a garantire il diritto alla difesa, e non quella
della faziosità politica.
Resta
il quadro sconfortante di una Unione europea sempre più esposta a
interpretazioni sovraniste, che ne mantengono il guscio esteriore svuotandolo
del suo spirito e del suo scopo; e, soprattutto ormai priva di un’anima ideale
che la possa rendere punto di riferimento nella difesa dei valori umani.
Valori
che dovrebbero essere alla base di ogni democrazia e dell’Europa stessa, e che
di fatto vengono ormai disinvoltamente accantonati – come nel caso
dei migranti e in quello dei palestinesi – quando intralciano i piani dei
governi. Al di là della retorica imperante, questa Europa liquefatta – nella
sua politica, ma più ancora nella sua anima – non ha nulla a che vedere con
quella che avevano sognato i suoi padri ispiratori, i cristiani Adenauer, De
Gasperi e Schuman, ma ormai ne è solo la triste caricatura.
*Scrittore
ed editorialista. Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo
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