giovedì 28 novembre 2024

NON VIOLENZA e GUERRA

 La non violenza 

e la tradizione 

della guerra giusta:

 verso il futuro


*by David Hollenbach*

All’interno della comunità cattolica, negli ultimi anni, c’è stato un vivace dibattito attorno al quesito se i cristiani debbano sempre preferire risposte non violente alle ingiustizie, o se piuttosto la reazione armata sia talvolta una maniera legittima di reagire a gravi torti subiti. In questo dibattito, da un lato si pongono coloro che nella non violenza vedono un’esigenza del discepolato cristiano; dall’altro, si schierano quanti continuano a sostenere quel concetto di «guerra giusta» che è stato centrale nella tradizione cattolica fin dai tempi di sant’Agostino. Ne derivano importanti questioni politiche e teologiche.

Alla base del dibattito ci sono gli interrogativi sull’effettiva efficacia della non violenza nel resistere all’ingiustizia. Gli atti non violenti possono assicurare la pace e la giustizia che si propongono? Possono farlo con successo in qualsiasi circostanza? Oppure, purtroppo, per ottenere la giustizia in modo efficace è talvolta necessario fare ricorso alla forza?

A dire il vero, in questa discussione l’efficacia della resistenza non violenta all’ingiustizia non è l’unica preoccupazione: sono in ballo anche importanti questioni teologiche ed etiche. Dalla Bibbia apprendiamo l’importanza, per una vita cristiana autentica, di evitare il ricorso alla violenza. Il comandamento biblico «Non uccidere» vincola tutti i cristiani, e anzi tutti gli uomini, cristiani o meno. Questo comandamento obbliga con certezza a evitare il ricorso alla forza letale quando l’azione non violenta può raggiungere l’obiettivo sociale di promuovere la giustizia.

Per i cristiani, l’importanza di astenersi dall’agire con violenza viene rafforzata dall’insegnamento di Gesù, secondo cui i suoi seguaci devono adoperarsi per la pace. Gesù lo ha proclamato nel Discorso della montagna: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). Egli stesso ha radicalizzato l’imperativo a cercare la pace con l’appello: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,44-45).

Quanto sia profonda la vocazione cristiana a uno stile di vita non violento risalta chiaramente, in particolare, nella disponibilità di Gesù ad accettare la propria morte sulla croce in conseguenza del suo ministero, rinunciando a perseguire i suoi obiettivi con qualsiasi forma di coercizione che minacci la vita umana.

Promozione cristiana della giustizia

Accanto a questo appello alla non violenza, il messaggio biblico esorta i cristiani a lavorare per la promozione della giustizia. Dal libro dell’Esodo, che è la narrazione fondamentale della Bibbia ebraica, apprendiamo che, di fronte ai patimenti inflitti a Israele sotto l’ingiusta oppressione degli egiziani, Dio si avvicinò al popolo per liberarlo da quell’ingiustizia.

Egli si rivolse così a Mosè dal roveto ardente: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto» (Es 3,7-8). Aggiunse tuttavia che quell’intervento di liberazione, affinché fosse fatta giustizia, avrebbe potuto comportare un certo uso della coercizione: «Io so che il re d’Egitto non vi permetterà di partire, se non con l’intervento di una mano forte. Stenderò dunque la mano e colpirò l’Egitto» (Es 3,19-20).

I profeti d’Israele hanno attestato ininterrottamente il fermo impegno di Dio per la giustizia, chiamando più volte il popolo a praticarla sia nella vita comunitaria sia nelle relazioni interpersonali. Così il profeta Amos dichiarava doveroso che in Israele «come le acque scorra il diritto e la giustizia come un torrente perenne» (Am 5,24). Queste testimonianze che troviamo nell’Antico Testamento riguardo all’importanza della giustizia per il popolo d’Israele continuano a essere molto rilevanti per la vita dei cristiani. All’impegno cristiano per la non violenza, quindi, deve accompagnarsene uno altrettanto intenso per la giustizia.

Questi testi biblici, che ovviamente non vanno letti in modo semplicistico o fondamentalista, suggeriscono che la comunità cattolica è chiamata a perseguire la pace e la giustizia. Il regno di Dio, quando verrà in pienezza, porterà a compimento le speranze umane su entrambi gli aspetti. L’etica cristiana, quindi, attribuisce grande valore all’impegno non violento per la pace, e così pure a un serio sforzo per la rettitudine e la giustizia.

Nel regno di Dio, quando giungerà il compimento escatologico della speranza cristiana, sia la pace sia la giustizia verranno realizzate pienamente. Così la liturgia della festa di Cristo Re proclama il regno di Dio come un «regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace»[1]. I seguaci di Cristo, quindi, sono chiamati a promuovere al tempo stesso la giustizia e la pace.

Ma ovviamente nelle sfere della politica interna e internazionale, a volte, gli obiettivi della pace e della giustizia possono entrare in tensione. Per i cristiani, la via che persegue la giustizia attraverso l’azione non violenta, inclusa una vigorosa resistenza non violenta, è sicuramente quella da adottare allo scopo di superare abusi e oppressione. Tuttavia, le divisioni che segnano la condizione umana talvolta possono rendere difficile o addirittura impossibile che si raggiunga la giustizia con mezzi non violenti.

La realtà umana del peccato può talora comportare che la società degli uomini, nella storia, non riesca a raggiungere quella pienezza di giustizia, amore e pace che è caratteristica del regno di Dio. In simili circostanze, ci troveremo costretti a determinare se l’intento di porre fine agli abusi e alle prepotenze comporti come sua priorità la rinuncia non violenta all’uso della forza letale. Il dibattito attuale, dunque, riguarda la questione su quale fine sia più obbligante tra l’impegno cristiano alla non violenza e il dovere di operare per la giustizia.

In un mondo distorto dai conflitti e dalle ingiustizie derivanti dal peccato umano, è prioritario l’impegno cristiano per la giustizia su quello per la non violenza o, al contrario, la non violenza viene prima della giustizia? Queste domande sono venute a occupare lo scenario della discussione sulle odierne forme appropriate di impegno ecclesiale nella vita sociale e negli affari internazionali.

Addio alla tradizione della «guerra giusta»?

Alcuni cattolici ritengono che quel rifiuto cristiano a usare la forza e a partecipare alle attività militari che era presente nel primo periodo della storia della Chiesa oggi andrebbe ripristinato con un valore normativo. Essi sostengono che la presenza dei cristiani nell’esercito, inaugurata nell’era post-costantiniana, fu una sorta di cooptazione da parte dei poteri dominanti e un tradimento del Vangelo.

Ciò li porta a riconoscere la non violenza come l’unica opzione cristiana legittima. In questo senso, un Convegno tenutosi a Roma nel 2016 con il patrocinio del gruppo cattolico «Pax Christi» ha sostenuto che la tradizione della guerra giusta, presente nel cattolicesimo sin dai tempi di sant’Agostino, dev’essere rimpiazzata da un fermo impegno per la non violenza.

Il documento conclusivo della Conferenza affermava che «è giunto il momento per la nostra Chiesa di essere una testimonianza vivente e di investire risorse umane e finanziarie molto maggiori nella promozione di una spiritualità e di una pratica della nonviolenza attiva e nella formazione e addestramento delle nostre comunità cattoliche a pratiche nonviolente efficaci. In tutto questo, Gesù è la nostra ispirazione e il nostro modello».

L’appello proseguiva: «Noi crediamo che non vi sia alcuna “guerra giusta”. […] Suggerire che una “guerra giusta” è possibile compromette anche l’imperativo morale di sviluppare strumenti e capacità per la trasformazione nonviolenta dei conflitti. Abbiamo bisogno di un nuovo quadro che sia coerente con la nonviolenza evangelica»[2].

Il Convegno era imperniato su alcuni insegnamenti papali e conciliari. Per esempio, nell’enciclica Pacem in terris, Giovanni XXIII ha affermato che il potere distruttivo delle armi nucleari dispiegate oggi da un certo numero di nazioni significa che «riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia»[3].

Questa dichiarazione è stata ripresa dal Concilio Vaticano II, che nei pericoli delle armi moderne ha visto una crisi del pensiero morale classico in tema di guerra. Di conseguenza, il Concilio ha ritenuto che le caratteristiche degli odierni conflitti obblighino la Chiesa «a considerare l’argomento della guerra con mentalità completamente nuova»[4]. Inoltre, ha approvato l’impegno della non violenza come messa in atto dello spirito di Cristo e ha elogiato «coloro che rinunciano alla violenza nella rivendicazione dei loro diritti»[5].

Anche insegnamenti ecclesiali più recenti inducono a ritenere che la Chiesa cattolica stia accrescendo il suo impegno per la non violenza e si stia discostando dalla tradizione della guerra giusta. Subito dopo l’invasione statunitense dell’Iraq, Giovanni Paolo II mise in dubbio la legittimità dell’uso della forza. Dichiarò che il vero cammino di pace «mai passa per la violenza e sempre per il dialogo. È ben noto – lo sanno in particolare coloro che vengono dalle terre insanguinate dai conflitti – che la violenza genera sempre violenza». Soggiunse che la guerra «è da considerarsi sempre una sconfitta: una sconfitta della ragione e dell’umanità. Venga presto, allora, un sussulto spirituale e culturale che porti gli uomini a bandire la guerra»[6].

Papa Francesco, a sua volta, si chiede se la guerra possa essere legittima nelle circostanze contemporanee, e sostiene con forza l’impegno per la non violenza. In diverse occasioni egli ha messo in dubbio che la tradizione della guerra giusta sia stata interpretata in maniera adeguata. Nella sua enciclica Fratelli tutti asserisce che «non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”»[7].

Francesco ha ribadito questa posizione nel colloquio con il patriarca ortodosso di Mosca Kirill sulla guerra in Ucraina, quando ha affermato che «un tempo si parlava anche nelle nostre Chiese di guerra santa o di guerra giusta. Oggi non si può parlare così»[8]. Già nel Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2017, intitolato La nonviolenza: stile di una politica per la pace, il Papa ha sostenuto con forza la non violenza come mezzo per affrontare le questioni che insorgono nei contesti internazionali. Queste le sue parole: «Possa la nonviolenza diventare lo stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme»[9].

Dichiarazioni come queste, tratte dagli insegnamenti ufficiali della Chiesa, inducono a ritenere che l’autorità cattolica si stia orientando all’adozione di un fermo impegno per la non violenza, e dunque ad abbandonare quella tradizione della guerra giusta che per molti secoli ha plasmato il pensiero cattolico riguardo all’etica della guerra e della pace.

Il diritto a una legittima difesa

Tuttavia, il fatto che questo mutato atteggiamento si stia effettivamente verificando è stato negato da numerosi commentatori all’interno e all’esterno della comunità cattolica. Per esempio, i teologi cattolici Mark J. Allman e Tobias Winright hanno sostenuto che la dichiarazione conclusiva della Conferenza romana di «Pax Christi» del 2016 legge in modo selettivo le Scritture, la tradizione cattolica e i recenti insegnamenti della Chiesa. Allo stesso modo, essi si dicono convinti che quell’appello non presti sufficiente attenzione ai casi in cui la forza è necessaria affinché vi sia un’efficace difesa delle persone nei confronti di gravi ingiustizie.

A loro avviso, esso traccia un’errata dicotomia tra l’impegno per la non violenza e la precisazione compiuta dalla tradizione della guerra giusta circa il fatto che la forza andrebbe usata al fine di promuovere quel tipo di pace che è costruito sulla giustizia e che andrebbe usata solo come estrema risorsa quando sono stati esauriti gli altri mezzi per raggiungere una pace giusta[10].

Per esempio, quell’appello non tiene conto del fatto che sant’Agostino pensava che la forza armata potesse essere un mezzo per ottenere la pace. Agostino ha affermato che «anche la crudeltà di coloro che fanno la guerra e tutti i turbamenti degli uomini vogliono giungere al fine della pace»[11]. Per il santo di Ippona, ovviamente, scopo della guerra può essere una pace buona o una cattiva, una pace giusta o una ingiusta. Ma egli riteneva sbagliato intraprendere una valutazione morale e religiosa della guerra senza riconoscere che una forma di pace può essere uno degli obiettivi del conflitto.

Allman e Winright sottolineano inoltre come la dichiarazione diffusa dalla Conferenza di «Pax Christi» trascurasse il fatto che, quando il Vaticano II ha elogiato la non violenza, presupponeva che l’azione non violenta dovesse essere attuata «senza pregiudizio dei diritti e dei doveri degli altri o della comunità»[12]. Il Concilio ha anche dichiarato che, «una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa»[13].

Dal canto suo, un illustre storico della tradizione della guerra giusta come James Turner Johnson ha chiesto: «La Chiesa cattolica sta per abbandonare la dottrina della guerra giusta?»[14]. Per quanto Johnson non sia cattolico, i suoi studi accademici sulla tradizione della guerra giusta lo hanno convinto che l’abbandono da parte cattolica di questa tradizione sarebbe un grave errore. Egli osserva: «Alcune ingiustizie possono essere contrastate solo con l’uso della forza militare, e questa consapevolezza è sempre stata al centro dell’idea di guerra giusta».

Secondo Johnson, la tradizione della guerra giusta non pone difficoltà insormontabili, ma in compenso può contribuire, in alcune circostanze, a superare gravi problemi di ingiustizia. Quindi non sorprende che egli, associando l’analisi politica e gli studi storici, si opponga all’idea che il cattolicesimo dovrebbe rinunciare al principio secondo cui la guerra a volte può essere moralmente giustificata.

Le condizioni di moralità

Ma allora, dove conduce la questione? Nonostante papa Francesco si sia espresso in termini fermi sul fatto che la guerra oggi non è più giustificabile, alcune altre sue dichiarazioni suggeriscono che la posizione da lui assunta non è assoluta.

Nel suo messaggio al Convegno indetto nel 2016 da «Pax Christi», il Papa ha affermato che l’abolizione della guerra è «lo scopo ultimo e più degno» della comunità umana. Ma nello stesso discorso ha anche citato l’affermazione del Vaticano II secondo cui i governi detengono comunque il diritto all’autodifesa legittima, una volta che gli sforzi non violenti per resistere all’ingiustizia siano stati esauriti[15]. E in una significativa conferenza stampa durante il volo di ritorno dal viaggio in Kazakistan del 2022, quando gli è stato chiesto se l’Ucraina dovesse ricevere armi per difendersi, Francesco ha risposto affermativamente: «Questa è una decisione politica, che può essere morale, moralmente accettata, se si fa secondo le condizioni di moralità […]. Difendersi è non solo lecito, ma anche una espressione di amore alla Patria»[16].

Quando qui il Papa parla di «condizioni di moralità», si riferisce senz’altro alle norme della tradizione sulla guerra giusta. In effetti, in quella stessa conferenza stampa egli ha suggerito che «si dovrebbe riflettere ancora di più sul concetto di guerra giusta»[17]. Francesco sembra dire che occorre una più attenta riflessione su come vadano intese le norme per l’uso legittimo della forza proposte dalla tradizione della guerra giusta, e su come queste norme vadano applicate.

In altre parole, si può ritenere che papa Francesco stia esortando i cristiani affinché assumano un fermo impegno per prodigarsi a superare l’ingiustizia in modi non violenti, ma non che stia suggerendo che la Chiesa dovrebbe abbandonare la tradizione della guerra giusta. L’importanza di un impegno per la non violenza scaturisce chiaramente dal comandamento di non uccidere e dall’appello di Gesù ai cristiani a essere costruttori di pace.

Recenti eventi politici hanno dimostrato che l’azione non violenta può essere piuttosto efficace nel resistere all’oppressione e nell’assicurare la giustizia. Adam Roberts e Timothy Garton Ash, storici di Oxford, hanno evidenziato una serie di esempi di successo che hanno avuto campagne non violente contro l’ingiustizia.

Vi rientrano la feconda resistenza di Gandhi al dominio coloniale britannico, che alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso portò all’indipendenza indiana; il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti negli anni Sessanta; il movimento del «potere al popolo» nelle Filippine negli anni Ottanta; le lotte avviate in Polonia che portarono alla fine dell’Unione Sovietica nel 1991; e l’abbandono dell’apartheid a favore della democrazia multirazziale in Sud Africa nel 1994[18].

Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».

Infatti, alcuni recenti studi socio-scientifici hanno dimostrato che, nel resistere all’ingiustizia, la non violenza può spesso essere più produttiva dell’uso della forza. Le politologhe Maria Stephan ed Erica Chenoweth portano numerose prove empiriche per dimostrare che, nei movimenti interni contro l’ingiustizia dei governi oppressivi, le campagne non violente hanno avuto spesso più successo delle lotte che hanno utilizzato mezzi violenti[19]. Questa evidenza suggerisce che l’appello di papa Francesco affinché la Chiesa adotti un’etica animata da un forte impegno per la non violenza non è né ingenuo né politicamente irrealistico per quanto riguarda la ricerca della giustizia.

Allo stesso tempo, appare chiaro che Francesco non esorta al mero abbandono della tradizione della guerra giusta. Piuttosto, egli invita i cristiani, e in definitiva tutti gli esseri umani, a riconoscere l’enorme distruttività della guerra e a provare una profonda riluttanza a ricorrere alla forza. Vuole evitare un’interpretazione della tradizione della guerra giusta che porti a utilizzarla secondo modalità inclini a legittimare prontamente la guerra.

Rifacendoci al titolo dell’ormai classico libro di Michael Walzer, Guerre giuste e ingiuste, potremmo definire questa tradizione come «la tradizione della guerra giusta e ingiusta», perché essa spiega quando e perché il ricorso alla forza armata sia molto spesso ingiusto e da evitare.

Papa Francesco, infatti, sostiene un’interpretazione così stringente delle norme morali per il ricorso legittimo alla forza armata che molti, se non la maggior parte, dei conflitti odierni dovrebbero essere giudicati illegittimi. Poiché non sono giustificati, essi non avrebbero dovuto neppure essere scatenati. Tuttavia, in circostanze estreme e come ultima risorsa, Francesco sembra non rifiutare l’uso della forza quando è necessario difendere persone innocenti.

Un’autentica costruzione della pace

Letto in questo modo, l’insegnamento del Papa sull’etica della guerra si avvicina a quanto affermato dai vescovi cattolici statunitensi nella dichiarazione del 1993, The Harvest of Justice is Sown in Peace, pubblicata nel decimo anniversario della loro precedente lettera pastorale The Challenge of PeaceGod’s Promise and Our Response.

La dichiarazione del 1993 ribadiva che la valutazione morale del conflitto dovrebbe iniziare dal riconoscimento dei «terribili costi umani e morali della violenza». Questa constatazione ha indotto i vescovi statunitensi a sottolineare il fatto che difendere la vita umana ovunque sia minacciata è «il punto di partenza per un’autentica costruzione della pace»[20].

Tale riconoscimento della sacralità della vita umana, così come l’accento posto dai vescovi sulla chiamata che Gesù rivolge ai cristiani a essere operatori di pace, li ha portati a sostenere con forza la non violenza nel contesto di un’etica cristiana[21]. In effetti, a partire da qui sia i vescovi statunitensi sia papa Francesco giungono a suggerire che l’impegno per la non violenza dovrebbe essere il punto di partenza dei cristiani desiderosi di difendere persone innocenti da gravi ingiustizie.

Come affermano i vescovi statunitensi: «Nelle situazioni di conflitto, il nostro impegno costante dovrebbe essere, per quanto possibile, di tendere alla giustizia con mezzi non violenti. Ma quando i continui tentativi di azione non violenta non riescono a proteggere gli innocenti da una radicale ingiustizia, in tal caso alle autorità politiche legittime è consentito come ultima risorsa di impiegare una forza limitata per salvare gli innocenti e stabilire la giustizia»[22].

Pertanto, sia i vescovi statunitensi sia papa Francesco considerano la non violenza il fulcro di un approccio cristiano alle politiche internazionali. Tuttavia i vescovi statunitensi, riconoscendo anche che il mondo è segnato dal peccato che porta al conflitto, ritengono che un uso strettamente limitato della forza possa talvolta essere necessario se è per una giusta causa, perseguita con retta intenzione, con mezzi proporzionati, con probabilità di successo e come ultima risorsa[23].

Possiamo leggere così anche il modo in cui Francesco considera la guerra. Solo quando i mezzi non violenti per ottenere giustizia sono stati esauriti, il Pontefice consente di scavalcare il «presupposto contro la forza», alla ricerca di una pace che protegga la dignità umana e i diritti umani.

Alcuni autori recenti, tra i quali James Turner Johnson, hanno sostenuto che il primato accordato agli approcci non violenti all’ingiustizia nell’attuale insegnamento papale ed episcopale costituisce di fatto un abbandono della tradizione della guerra giusta[24]. Johnson ritiene che la tradizione cattolica ponga una pregiudiziale favorevole alla tutela della giustizia, anche mediante l’uso della forza, piuttosto che una presunzione a favore della non violenza. Quindi, a suo parere, l’accentuazione del presupposto che, se possibile, si dovrebbe cercare la giustizia attraverso metodi non violenti è da leggere come un abbandono della tradizione della guerra giusta e ingiusta. Noi pensiamo, però, che l’argomentazione di Johnson sia errata. San Tommaso d’Aquino sviluppa la sua trattazione dell’etica della pace e della guerra in risposta alla questione «se fare la guerra sia sempre un peccato» (in latino: utrum bellare semper sit peccatum)[25].

Chiedere se la guerra sia sempre peccaminosa significa indubbiamente presupporre che la guerra debba essere evitata, per quanto è possibile. In effetti, lo stesso Johnson lo riconosceva in un articolo scritto nel 1979. In quell’occasione faceva notare che le quaestiones iniziali di Tommaso d’Aquino sull’etica della guerra, che egli definiva la «questione originaria della guerra giusta», suggeriscono «la scoperta alquanto sorprendente che i cristiani pacifisti e quelli non pacifisti della guerra giusta hanno qualcosa di sostanziale in comune: una profonda sfiducia nei confronti della violenza»[26]. Purtroppo, nei suoi scritti più recenti, lo storico statunitense sembra aver dimenticato la sua precedente opinione sulla stretta relazione tra non violenza ed etica della guerra giusta, soprattutto quando critica i recenti dibattiti cattolici.

Le prospettive di papa Francesco e dei vescovi statunitensi implicano quindi che la non violenza e l’etica della guerra giusta vadano considerate in una relazione complementare. Seguendo tale prospettiva, diventa chiaro che il Vangelo e il rispetto per la vita umana spingono i cristiani a cercare la giustizia in modi non violenti. E se la giustizia non può essere efficacemente assicurata con mezzi non violenti, le norme sulla guerra giusta andrebbero applicate con grande rigore. Ciò significa che la pregiudiziale a favore della non violenza ci aiuta sia a interpretare sia ad applicare correttamente le norme sulla guerra giusta-ingiusta.

In primo luogo, il presupposto di una risposta non violenta all’ingiustizia rafforza il rigore con cui dovrebbe essere applicata la norma della guerra giusta di «ultima istanza». Solo quando i mezzi non violenti sono stati pienamente perseguiti, si dovrebbe prendere in considerazione l’uso della forza armata.

In secondo luogo, il presupposto a sostegno della non violenza era evidente quando la Commissione internazionale sull’intervento e la sovranità dello Stato formulò per la prima volta la dottrina della «responsabilità di proteggere». I «princìpi di precauzione» della Commissione sottolineano che per proteggere le persone da gravi abusi, come il genocidio, la pulizia etnica e i crimini di guerra, dovrebbero essere usati la diplomazia e altri mezzi non militari. L’uso della forza armata dovrebbe essere preso in considerazione solo quando diventa chiaro che gli sforzi diplomatici non sono in grado di proteggere le persone da questi gravi crimini[27].

Infine, l’impegno per la non violenza dovrebbe rafforzare la costruzione della pace all’indomani del conflitto, compresi gli sforzi per realizzare la riconciliazione attraverso la ricostruzione e persino il perdono[28]. In tale prospettiva, sembra ancora più importante continuare ad approfondire e a valorizzare le potenzialità degli strumenti della non violenza sia nel contribuire alla risoluzione dei conflitti, come già affrontato anche dal punto di vista empirico negli studi citati di Ash – Roberts e di Stephan – Chenoweth, sia nel processo di ricostruzione post-conflitto finalizzato a consolidare le fondamenta di quell’«edificio da costruirsi continuamente» (GS 78) che è la pace.

L’impegno per la non violenza può apportare quindi un grande contributo nelle attuali situazioni politiche che ci troviamo ad affrontare e non dovrebbe essere considerato irrealistico. L’importante contributo del presupposto a favore della non violenza è evidente negli sforzi di papa Francesco per contribuire a portare la pace nel conflitto tra Russia e Ucraina.

Il Pontefice ha ripetutamente invitato entrambe le parti a lavorare per la fine del conflitto, sedendosi al tavolo per negoziare la pace. Questi appelli mostrano il suo profondo impegno nel cercare sia la pace sia la giustizia attraverso sforzi diplomatici che evitino e superino la violenza. Un impegno evidenziato non solo dalle dichiarazioni del Papa che sollecitano il cessate il fuoco e il negoziato diplomatico, ma anche dal suo proporsi come mediatore in prima persona di una pace giusta.

Francesco, dunque, incarna un forte impegno cristiano per la non violenza e, insieme, per la tradizione della guerra giusta-ingiusta. Nel regno di Dio si realizzeranno sia la totale non violenza sia la pienezza della giustizia. Nei limiti dell’esistenza storica, tuttavia, le nostre società e la nostra politica non saranno all’altezza del pieno raggiungimento della non violenza e della giustizia proprie del regno di Dio realizzato. Quando si daranno casi del genere, saremo costretti a prendere sagge decisioni politiche su come bilanciare i valori della non violenza e della giustizia.

Guardando al futuro, possiamo sperare che i capi delle nazioni seguano papa Francesco nell’impegno sia per la non violenza sia per la giustizia. Questo li aiuterà a cogliere l’importanza della non violenza mentre perseguono la giustizia e la pace attraverso l’azione politica e la diplomazia. Consentirà loro altresì di scorgere che la non violenza e le norme della guerra giusta sono complementari. La complementarità di un’etica della non violenza e della giustizia può orientare in modo moralmente efficace l’attività futura dei capi delle nazioni. Contribuirà anche a plasmare la missione della Chiesa nella vita pubblica, dove essa cerca di rispondere alla promessa di Cristo sulla venuta del regno di Dio.

CIVILTA' CATTOLICA


*David Hollenbach

Professore presso la School of Foreign Service della Georgetown University di Washington DC (Usa).

 

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