e la tradizione
della guerra giusta:
verso il futuro
*by David Hollenbach*
All’interno
della comunità cattolica, negli ultimi anni, c’è stato un vivace dibattito
attorno al quesito se i cristiani debbano sempre preferire risposte non
violente alle ingiustizie, o se piuttosto la reazione armata sia talvolta una
maniera legittima di reagire a gravi torti subiti. In questo dibattito, da un
lato si pongono coloro che nella non violenza vedono un’esigenza del
discepolato cristiano; dall’altro, si schierano quanti continuano a sostenere
quel concetto di «guerra giusta» che è stato centrale nella tradizione
cattolica fin dai tempi di sant’Agostino. Ne derivano importanti questioni
politiche e teologiche.
Alla
base del dibattito ci sono gli interrogativi sull’effettiva efficacia della non
violenza nel resistere all’ingiustizia. Gli atti non violenti possono
assicurare la pace e la giustizia che si propongono? Possono farlo con successo
in qualsiasi circostanza? Oppure, purtroppo, per ottenere la giustizia in modo
efficace è talvolta necessario fare ricorso alla forza?
A
dire il vero, in questa discussione l’efficacia della resistenza non violenta
all’ingiustizia non è l’unica preoccupazione: sono in ballo anche importanti
questioni teologiche ed etiche. Dalla Bibbia apprendiamo l’importanza, per una
vita cristiana autentica, di evitare il ricorso alla violenza. Il comandamento
biblico «Non uccidere» vincola tutti i cristiani, e anzi tutti gli uomini,
cristiani o meno. Questo comandamento obbliga con certezza a evitare il ricorso
alla forza letale quando l’azione non violenta può raggiungere l’obiettivo
sociale di promuovere la giustizia.
Per
i cristiani, l’importanza di astenersi dall’agire con violenza viene rafforzata
dall’insegnamento di Gesù, secondo cui i suoi seguaci devono adoperarsi per la
pace. Gesù lo ha proclamato nel Discorso della montagna: «Beati gli operatori
di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). Egli
stesso ha radicalizzato l’imperativo a cercare la pace con l’appello: «Amate i
vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli
del Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,44-45).
Quanto
sia profonda la vocazione cristiana a uno stile di vita non violento risalta
chiaramente, in particolare, nella disponibilità di Gesù ad accettare la
propria morte sulla croce in conseguenza del suo ministero, rinunciando a
perseguire i suoi obiettivi con qualsiasi forma di coercizione che minacci la
vita umana.
Promozione
cristiana della giustizia
Accanto
a questo appello alla non violenza, il messaggio biblico esorta i cristiani a
lavorare per la promozione della giustizia. Dal libro dell’Esodo, che è la
narrazione fondamentale della Bibbia ebraica, apprendiamo che, di fronte ai
patimenti inflitti a Israele sotto l’ingiusta oppressione degli egiziani, Dio
si avvicinò al popolo per liberarlo da quell’ingiustizia.
Egli
si rivolse così a Mosè dal roveto ardente: «Ho osservato la miseria del mio
popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti:
conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto» (Es 3,7-8).
Aggiunse tuttavia che quell’intervento di liberazione, affinché fosse fatta
giustizia, avrebbe potuto comportare un certo uso della coercizione: «Io so che
il re d’Egitto non vi permetterà di partire, se non con l’intervento di una
mano forte. Stenderò dunque la mano e colpirò l’Egitto» (Es 3,19-20).
I
profeti d’Israele hanno attestato ininterrottamente il fermo impegno di Dio per
la giustizia, chiamando più volte il popolo a praticarla sia nella vita
comunitaria sia nelle relazioni interpersonali. Così il profeta Amos dichiarava
doveroso che in Israele «come le acque scorra il diritto e la giustizia come un
torrente perenne» (Am 5,24). Queste testimonianze che troviamo
nell’Antico Testamento riguardo all’importanza della giustizia per il popolo
d’Israele continuano a essere molto rilevanti per la vita dei cristiani.
All’impegno cristiano per la non violenza, quindi, deve accompagnarsene uno
altrettanto intenso per la giustizia.
Questi
testi biblici, che ovviamente non vanno letti in modo semplicistico o
fondamentalista, suggeriscono che la comunità cattolica è chiamata a perseguire
la pace e la giustizia. Il regno di Dio, quando verrà in pienezza, porterà a
compimento le speranze umane su entrambi gli aspetti. L’etica cristiana,
quindi, attribuisce grande valore all’impegno non violento per la pace, e così
pure a un serio sforzo per la rettitudine e la giustizia.
Nel
regno di Dio, quando giungerà il compimento escatologico della speranza
cristiana, sia la pace sia la giustizia verranno realizzate pienamente. Così la
liturgia della festa di Cristo Re proclama il regno di Dio come un «regno di
verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e
di pace»[1].
I seguaci di Cristo, quindi, sono chiamati a promuovere al tempo stesso la
giustizia e la pace.
Ma
ovviamente nelle sfere della politica interna e internazionale, a volte, gli
obiettivi della pace e della giustizia possono entrare in tensione. Per i
cristiani, la via che persegue la giustizia attraverso l’azione non violenta,
inclusa una vigorosa resistenza non violenta, è sicuramente quella da adottare
allo scopo di superare abusi e oppressione. Tuttavia, le divisioni che segnano
la condizione umana talvolta possono rendere difficile o addirittura
impossibile che si raggiunga la giustizia con mezzi non violenti.
La
realtà umana del peccato può talora comportare che la società degli uomini,
nella storia, non riesca a raggiungere quella pienezza di giustizia, amore e
pace che è caratteristica del regno di Dio. In simili circostanze, ci troveremo
costretti a determinare se l’intento di porre fine agli abusi e alle prepotenze
comporti come sua priorità la rinuncia non violenta all’uso della forza letale.
Il dibattito attuale, dunque, riguarda la questione su quale fine sia più
obbligante tra l’impegno cristiano alla non violenza e il dovere di operare per
la giustizia.
In
un mondo distorto dai conflitti e dalle ingiustizie derivanti dal peccato
umano, è prioritario l’impegno cristiano per la giustizia su quello per la non
violenza o, al contrario, la non violenza viene prima della giustizia? Queste
domande sono venute a occupare lo scenario della discussione sulle odierne
forme appropriate di impegno ecclesiale nella vita sociale e negli affari
internazionali.
Addio
alla tradizione della «guerra giusta»?
Alcuni
cattolici ritengono che quel rifiuto cristiano a usare la forza e a partecipare
alle attività militari che era presente nel primo periodo della storia della
Chiesa oggi andrebbe ripristinato con un valore normativo. Essi sostengono che
la presenza dei cristiani nell’esercito, inaugurata nell’era
post-costantiniana, fu una sorta di cooptazione da parte dei poteri dominanti e
un tradimento del Vangelo.
Ciò
li porta a riconoscere la non violenza come l’unica opzione cristiana
legittima. In questo senso, un Convegno tenutosi a Roma nel 2016 con il
patrocinio del gruppo cattolico «Pax Christi» ha sostenuto che la tradizione
della guerra giusta, presente nel cattolicesimo sin dai tempi di sant’Agostino,
dev’essere rimpiazzata da un fermo impegno per la non violenza.
Il
documento conclusivo della Conferenza affermava che «è giunto il momento per la
nostra Chiesa di essere una testimonianza vivente e di investire risorse umane
e finanziarie molto maggiori nella promozione di una spiritualità e di una
pratica della nonviolenza attiva e nella formazione e addestramento delle
nostre comunità cattoliche a pratiche nonviolente efficaci. In tutto questo,
Gesù è la nostra ispirazione e il nostro modello».
L’appello
proseguiva: «Noi crediamo che non vi sia alcuna “guerra giusta”. […] Suggerire
che una “guerra giusta” è possibile compromette anche l’imperativo morale di
sviluppare strumenti e capacità per la trasformazione nonviolenta dei
conflitti. Abbiamo bisogno di un nuovo quadro che sia coerente con la
nonviolenza evangelica»[2].
Il Convegno era imperniato su alcuni insegnamenti papali e conciliari. Per esempio, nell’enciclica Pacem in terris, Giovanni XXIII ha affermato che il potere distruttivo delle armi nucleari dispiegate oggi da un certo numero di nazioni significa che «riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia»[3].
Questa
dichiarazione è stata ripresa dal Concilio Vaticano II, che nei pericoli delle
armi moderne ha visto una crisi del pensiero morale classico in tema di guerra.
Di conseguenza, il Concilio ha ritenuto che le caratteristiche degli odierni
conflitti obblighino la Chiesa «a considerare l’argomento della guerra con
mentalità completamente nuova»[4].
Inoltre, ha approvato l’impegno della non violenza come messa in atto dello
spirito di Cristo e ha elogiato «coloro che rinunciano alla violenza nella
rivendicazione dei loro diritti»[5].
Anche
insegnamenti ecclesiali più recenti inducono a ritenere che la Chiesa cattolica
stia accrescendo il suo impegno per la non violenza e si stia discostando dalla
tradizione della guerra giusta. Subito dopo l’invasione statunitense dell’Iraq,
Giovanni Paolo II mise in dubbio la legittimità dell’uso della forza. Dichiarò
che il vero cammino di pace «mai passa per la violenza e sempre per il dialogo.
È ben noto – lo sanno in particolare coloro che vengono dalle terre
insanguinate dai conflitti – che la violenza genera sempre violenza». Soggiunse
che la guerra «è da considerarsi sempre una sconfitta: una sconfitta della
ragione e dell’umanità. Venga presto, allora, un sussulto spirituale e
culturale che porti gli uomini a bandire la guerra»[6].
Papa
Francesco, a sua volta, si chiede se la guerra possa essere legittima nelle
circostanze contemporanee, e sostiene con forza l’impegno per la non violenza.
In diverse occasioni egli ha messo in dubbio che la tradizione della guerra
giusta sia stata interpretata in maniera adeguata. Nella sua enciclica Fratelli
tutti asserisce che «non possiamo più pensare alla guerra come
soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori
all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è
molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per
parlare di una possibile “guerra giusta”»[7].
Francesco
ha ribadito questa posizione nel colloquio con il patriarca ortodosso di Mosca
Kirill sulla guerra in Ucraina, quando ha affermato che «un tempo si parlava
anche nelle nostre Chiese di guerra santa o di guerra giusta. Oggi non si può
parlare così»[8].
Già nel Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2017, intitolato La
nonviolenza: stile di una politica per la pace, il Papa ha sostenuto con
forza la non violenza come mezzo per affrontare le questioni che insorgono nei
contesti internazionali. Queste le sue parole: «Possa la nonviolenza diventare
lo stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle
nostre azioni, della politica in tutte le sue forme»[9].
Dichiarazioni
come queste, tratte dagli insegnamenti ufficiali della Chiesa, inducono a
ritenere che l’autorità cattolica si stia orientando all’adozione di un fermo
impegno per la non violenza, e dunque ad abbandonare quella tradizione della
guerra giusta che per molti secoli ha plasmato il pensiero cattolico riguardo
all’etica della guerra e della pace.
Il
diritto a una legittima difesa
Tuttavia,
il fatto che questo mutato atteggiamento si stia effettivamente verificando è
stato negato da numerosi commentatori all’interno e all’esterno della comunità
cattolica. Per esempio, i teologi cattolici Mark J. Allman e Tobias Winright
hanno sostenuto che la dichiarazione conclusiva della Conferenza romana di «Pax
Christi» del 2016 legge in modo selettivo le Scritture, la tradizione cattolica
e i recenti insegnamenti della Chiesa. Allo stesso modo, essi si dicono
convinti che quell’appello non presti sufficiente attenzione ai casi in cui la
forza è necessaria affinché vi sia un’efficace difesa delle persone nei
confronti di gravi ingiustizie.
A
loro avviso, esso traccia un’errata dicotomia tra l’impegno per la non violenza
e la precisazione compiuta dalla tradizione della guerra giusta circa il fatto
che la forza andrebbe usata al fine di promuovere quel tipo di pace che è
costruito sulla giustizia e che andrebbe usata solo come estrema risorsa quando
sono stati esauriti gli altri mezzi per raggiungere una pace giusta[10].
Per
esempio, quell’appello non tiene conto del fatto che sant’Agostino pensava che
la forza armata potesse essere un mezzo per ottenere la pace. Agostino ha
affermato che «anche la crudeltà di coloro che fanno la guerra e tutti i
turbamenti degli uomini vogliono giungere al fine della pace»[11].
Per il santo di Ippona, ovviamente, scopo della guerra può essere una pace
buona o una cattiva, una pace giusta o una ingiusta. Ma egli riteneva sbagliato
intraprendere una valutazione morale e religiosa della guerra senza riconoscere
che una forma di pace può essere uno degli obiettivi del conflitto.
Allman
e Winright sottolineano inoltre come la dichiarazione diffusa dalla Conferenza
di «Pax Christi» trascurasse il fatto che, quando il Vaticano II ha elogiato la
non violenza, presupponeva che l’azione non violenta dovesse essere attuata
«senza pregiudizio dei diritti e dei doveri degli altri o della comunità»[12].
Il Concilio ha anche dichiarato che, «una volta esaurite tutte le possibilità
di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una
legittima difesa»[13].
Dal
canto suo, un illustre storico della tradizione della guerra giusta come James
Turner Johnson ha chiesto: «La Chiesa cattolica sta per abbandonare la dottrina
della guerra giusta?»[14].
Per quanto Johnson non sia cattolico, i suoi studi accademici sulla tradizione
della guerra giusta lo hanno convinto che l’abbandono da parte cattolica di
questa tradizione sarebbe un grave errore. Egli osserva: «Alcune ingiustizie
possono essere contrastate solo con l’uso della forza militare, e questa
consapevolezza è sempre stata al centro dell’idea di guerra giusta».
Secondo
Johnson, la tradizione della guerra giusta non pone difficoltà insormontabili,
ma in compenso può contribuire, in alcune circostanze, a superare gravi
problemi di ingiustizia. Quindi non sorprende che egli, associando l’analisi
politica e gli studi storici, si opponga all’idea che il cattolicesimo dovrebbe
rinunciare al principio secondo cui la guerra a volte può essere moralmente
giustificata.
Le
condizioni di moralità
Ma
allora, dove conduce la questione? Nonostante papa Francesco si sia espresso in
termini fermi sul fatto che la guerra oggi non è più giustificabile, alcune
altre sue dichiarazioni suggeriscono che la posizione da lui assunta non è
assoluta.
Nel
suo messaggio al Convegno indetto nel 2016 da «Pax Christi», il Papa ha
affermato che l’abolizione della guerra è «lo scopo ultimo e più degno» della
comunità umana. Ma nello stesso discorso ha anche citato l’affermazione del
Vaticano II secondo cui i governi detengono comunque il diritto all’autodifesa
legittima, una volta che gli sforzi non violenti per resistere all’ingiustizia
siano stati esauriti[15].
E in una significativa conferenza stampa durante il volo di ritorno dal viaggio
in Kazakistan del 2022, quando gli è stato chiesto se l’Ucraina dovesse
ricevere armi per difendersi, Francesco ha risposto affermativamente: «Questa è
una decisione politica, che può essere morale, moralmente accettata, se si fa
secondo le condizioni di moralità […]. Difendersi è non solo lecito, ma anche
una espressione di amore alla Patria»[16].
Quando
qui il Papa parla di «condizioni di moralità», si riferisce senz’altro alle
norme della tradizione sulla guerra giusta. In effetti, in quella stessa
conferenza stampa egli ha suggerito che «si dovrebbe riflettere ancora di più
sul concetto di guerra giusta»[17].
Francesco sembra dire che occorre una più attenta riflessione su come vadano
intese le norme per l’uso legittimo della forza proposte dalla tradizione della
guerra giusta, e su come queste norme vadano applicate.
In
altre parole, si può ritenere che papa Francesco stia esortando i cristiani
affinché assumano un fermo impegno per prodigarsi a superare l’ingiustizia in
modi non violenti, ma non che stia suggerendo che la Chiesa dovrebbe
abbandonare la tradizione della guerra giusta. L’importanza di un impegno per
la non violenza scaturisce chiaramente dal comandamento di non uccidere e
dall’appello di Gesù ai cristiani a essere costruttori di pace.
Recenti
eventi politici hanno dimostrato che l’azione non violenta può essere piuttosto
efficace nel resistere all’oppressione e nell’assicurare la giustizia. Adam
Roberts e Timothy Garton Ash, storici di Oxford, hanno evidenziato una serie di
esempi di successo che hanno avuto campagne non violente contro l’ingiustizia.
Vi
rientrano la feconda resistenza di Gandhi al dominio coloniale britannico, che
alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso portò all’indipendenza indiana;
il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti negli anni Sessanta; il
movimento del «potere al popolo» nelle Filippine negli anni Ottanta; le lotte
avviate in Polonia che portarono alla fine dell’Unione Sovietica nel 1991; e
l’abbandono dell’apartheid a favore della democrazia multirazziale
in Sud Africa nel 1994[18].
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Infatti, alcuni recenti studi socio-scientifici hanno dimostrato che, nel resistere all’ingiustizia, la non violenza può spesso essere più produttiva dell’uso della forza. Le politologhe Maria Stephan ed Erica Chenoweth portano numerose prove empiriche per dimostrare che, nei movimenti interni contro l’ingiustizia dei governi oppressivi, le campagne non violente hanno avuto spesso più successo delle lotte che hanno utilizzato mezzi violenti[19]. Questa evidenza suggerisce che l’appello di papa Francesco affinché la Chiesa adotti un’etica animata da un forte impegno per la non violenza non è né ingenuo né politicamente irrealistico per quanto riguarda la ricerca della giustizia.
Allo
stesso tempo, appare chiaro che Francesco non esorta al mero abbandono della
tradizione della guerra giusta. Piuttosto, egli invita i cristiani, e in
definitiva tutti gli esseri umani, a riconoscere l’enorme distruttività della
guerra e a provare una profonda riluttanza a ricorrere alla forza. Vuole
evitare un’interpretazione della tradizione della guerra giusta che porti a
utilizzarla secondo modalità inclini a legittimare prontamente la guerra.
Rifacendoci
al titolo dell’ormai classico libro di Michael Walzer, Guerre giuste e
ingiuste, potremmo definire questa tradizione come «la tradizione della
guerra giusta e ingiusta», perché essa spiega quando e perché il ricorso alla
forza armata sia molto spesso ingiusto e da evitare.
Papa
Francesco, infatti, sostiene un’interpretazione così stringente delle norme
morali per il ricorso legittimo alla forza armata che molti, se non la maggior
parte, dei conflitti odierni dovrebbero essere giudicati illegittimi. Poiché
non sono giustificati, essi non avrebbero dovuto neppure essere scatenati.
Tuttavia, in circostanze estreme e come ultima risorsa, Francesco sembra non
rifiutare l’uso della forza quando è necessario difendere persone innocenti.
Un’autentica
costruzione della pace
Letto
in questo modo, l’insegnamento del Papa sull’etica della guerra si avvicina a
quanto affermato dai vescovi cattolici statunitensi nella dichiarazione del
1993, The Harvest of Justice is Sown in Peace, pubblicata nel
decimo anniversario della loro precedente lettera pastorale The
Challenge of Peace: God’s Promise and Our Response.
La
dichiarazione del 1993 ribadiva che la valutazione morale del conflitto
dovrebbe iniziare dal riconoscimento dei «terribili costi umani e morali della
violenza». Questa constatazione ha indotto i vescovi statunitensi a
sottolineare il fatto che difendere la vita umana ovunque sia minacciata è «il
punto di partenza per un’autentica costruzione della pace»[20].
Tale
riconoscimento della sacralità della vita umana, così come l’accento posto dai
vescovi sulla chiamata che Gesù rivolge ai cristiani a essere operatori di
pace, li ha portati a sostenere con forza la non violenza nel contesto di
un’etica cristiana[21].
In effetti, a partire da qui sia i vescovi statunitensi sia papa Francesco
giungono a suggerire che l’impegno per la non violenza dovrebbe essere il punto
di partenza dei cristiani desiderosi di difendere persone innocenti da gravi
ingiustizie.
Come
affermano i vescovi statunitensi: «Nelle situazioni di conflitto, il nostro
impegno costante dovrebbe essere, per quanto possibile, di tendere alla
giustizia con mezzi non violenti. Ma quando i continui tentativi di azione non
violenta non riescono a proteggere gli innocenti da una radicale ingiustizia,
in tal caso alle autorità politiche legittime è consentito come ultima risorsa
di impiegare una forza limitata per salvare gli innocenti e stabilire la
giustizia»[22].
Pertanto,
sia i vescovi statunitensi sia papa Francesco considerano la non violenza il
fulcro di un approccio cristiano alle politiche internazionali. Tuttavia i
vescovi statunitensi, riconoscendo anche che il mondo è segnato dal peccato che
porta al conflitto, ritengono che un uso strettamente limitato della forza
possa talvolta essere necessario se è per una giusta causa, perseguita con
retta intenzione, con mezzi proporzionati, con probabilità di successo e come
ultima risorsa[23].
Possiamo
leggere così anche il modo in cui Francesco considera la guerra. Solo quando i
mezzi non violenti per ottenere giustizia sono stati esauriti, il Pontefice
consente di scavalcare il «presupposto contro la forza», alla ricerca di una
pace che protegga la dignità umana e i diritti umani.
Alcuni
autori recenti, tra i quali James Turner Johnson, hanno sostenuto che il
primato accordato agli approcci non violenti all’ingiustizia nell’attuale
insegnamento papale ed episcopale costituisce di fatto un abbandono della
tradizione della guerra giusta[24].
Johnson ritiene che la tradizione cattolica ponga una pregiudiziale favorevole
alla tutela della giustizia, anche mediante l’uso della forza, piuttosto che
una presunzione a favore della non violenza. Quindi, a suo parere,
l’accentuazione del presupposto che, se possibile, si dovrebbe cercare la
giustizia attraverso metodi non violenti è da leggere come un abbandono della
tradizione della guerra giusta e ingiusta. Noi pensiamo, però, che
l’argomentazione di Johnson sia errata. San Tommaso d’Aquino sviluppa la sua
trattazione dell’etica della pace e della guerra in risposta alla questione «se
fare la guerra sia sempre un peccato» (in latino: utrum
bellare semper sit peccatum)[25].
Chiedere
se la guerra sia sempre peccaminosa significa indubbiamente presupporre che la
guerra debba essere evitata, per quanto è possibile. In effetti, lo stesso
Johnson lo riconosceva in un articolo scritto nel 1979. In quell’occasione
faceva notare che le quaestiones iniziali di Tommaso d’Aquino
sull’etica della guerra, che egli definiva la «questione originaria della
guerra giusta», suggeriscono «la scoperta alquanto sorprendente che i cristiani
pacifisti e quelli non pacifisti della guerra giusta hanno qualcosa di
sostanziale in comune: una profonda sfiducia nei confronti della violenza»[26].
Purtroppo, nei suoi scritti più recenti, lo storico statunitense sembra aver
dimenticato la sua precedente opinione sulla stretta relazione tra non violenza
ed etica della guerra giusta, soprattutto quando critica i recenti dibattiti
cattolici.
Le
prospettive di papa Francesco e dei vescovi statunitensi implicano quindi che
la non violenza e l’etica della guerra giusta vadano considerate in una
relazione complementare. Seguendo tale prospettiva, diventa chiaro che il
Vangelo e il rispetto per la vita umana spingono i cristiani a cercare la
giustizia in modi non violenti. E se la giustizia non può essere efficacemente
assicurata con mezzi non violenti, le norme sulla guerra giusta andrebbero
applicate con grande rigore. Ciò significa che la pregiudiziale a favore della
non violenza ci aiuta sia a interpretare sia ad applicare correttamente le
norme sulla guerra giusta-ingiusta.
In
primo luogo, il presupposto di una risposta non violenta all’ingiustizia
rafforza il rigore con cui dovrebbe essere applicata la norma della guerra
giusta di «ultima istanza». Solo quando i mezzi non violenti sono stati
pienamente perseguiti, si dovrebbe prendere in considerazione l’uso della forza
armata.
In
secondo luogo, il presupposto a sostegno della non violenza era evidente quando
la Commissione internazionale sull’intervento e la sovranità dello Stato
formulò per la prima volta la dottrina della «responsabilità di proteggere». I
«princìpi di precauzione» della Commissione sottolineano che per proteggere le
persone da gravi abusi, come il genocidio, la pulizia etnica e i crimini di
guerra, dovrebbero essere usati la diplomazia e altri mezzi non militari. L’uso
della forza armata dovrebbe essere preso in considerazione solo quando diventa
chiaro che gli sforzi diplomatici non sono in grado di proteggere le persone da
questi gravi crimini[27].
Infine,
l’impegno per la non violenza dovrebbe rafforzare la costruzione della pace
all’indomani del conflitto, compresi gli sforzi per realizzare la
riconciliazione attraverso la ricostruzione e persino il perdono[28].
In tale prospettiva, sembra ancora più importante continuare ad approfondire e
a valorizzare le potenzialità degli strumenti della non violenza sia nel
contribuire alla risoluzione dei conflitti, come già affrontato anche dal punto
di vista empirico negli studi citati di Ash – Roberts e di Stephan – Chenoweth,
sia nel processo di ricostruzione post-conflitto finalizzato a consolidare le
fondamenta di quell’«edificio da costruirsi continuamente» (GS 78) che è la
pace.
L’impegno
per la non violenza può apportare quindi un grande contributo nelle attuali
situazioni politiche che ci troviamo ad affrontare e non dovrebbe essere
considerato irrealistico. L’importante contributo del presupposto a favore
della non violenza è evidente negli sforzi di papa Francesco per contribuire a
portare la pace nel conflitto tra Russia e Ucraina.
Il
Pontefice ha ripetutamente invitato entrambe le parti a lavorare per la fine
del conflitto, sedendosi al tavolo per negoziare la pace. Questi appelli
mostrano il suo profondo impegno nel cercare sia la pace sia la giustizia
attraverso sforzi diplomatici che evitino e superino la violenza. Un impegno
evidenziato non solo dalle dichiarazioni del Papa che sollecitano il cessate il
fuoco e il negoziato diplomatico, ma anche dal suo proporsi come mediatore in
prima persona di una pace giusta.
Francesco,
dunque, incarna un forte impegno cristiano per la non violenza e, insieme, per
la tradizione della guerra giusta-ingiusta. Nel regno di Dio si realizzeranno
sia la totale non violenza sia la pienezza della giustizia. Nei limiti
dell’esistenza storica, tuttavia, le nostre società e la nostra politica non
saranno all’altezza del pieno raggiungimento della non violenza e della
giustizia proprie del regno di Dio realizzato. Quando si daranno casi del
genere, saremo costretti a prendere sagge decisioni politiche su come
bilanciare i valori della non violenza e della giustizia.
Guardando
al futuro, possiamo sperare che i capi delle nazioni seguano papa Francesco
nell’impegno sia per la non violenza sia per la giustizia. Questo li aiuterà a
cogliere l’importanza della non violenza mentre perseguono la giustizia e la
pace attraverso l’azione politica e la diplomazia. Consentirà loro altresì di
scorgere che la non violenza e le norme della guerra giusta sono complementari.
La complementarità di un’etica della non violenza e della giustizia può
orientare in modo moralmente efficace l’attività futura dei capi delle nazioni.
Contribuirà anche a plasmare la missione della Chiesa nella vita pubblica, dove
essa cerca di rispondere alla promessa di Cristo sulla venuta del regno di Dio.
*David Hollenbach
Professore presso la School of Foreign Service della Georgetown University di Washington DC (Usa).
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