- di
ENZO BIANCHI
Non
è solo per fuggire il freddo che giunto l’inverno sento il bisogno di andare al
mare, non per immergermi nelle sue acque, ma per lasciare che il mare catturi
il mio animo, il mio intimo, e diventi oggetto di una silenziosa e pacata
contemplazione.
Amo
molto sostare al mare in questa stagione in cui i paesi rivieraschi sono
solitari, senza turisti e senza vacanzieri. Le passeggiate sul lungomare sono
deserte, e ancor più le spiagge, e i nostri occhi sono attratti solo dal mare,
sempre diverso perché cambia la luce e il suo movimento si ripete, ma in modo
differente, e i suoi colori stupiscono: il blu cupo, quasi nero, a volte
diventa un azzurro malachite o un verde trasparente che permette di vedere i
fondali.
Si
dovrebbe parlare di “mari”, al plurale: il mar Ligure, dove vado più di
frequente, è blu scuro e sbatte le sue onde contro le rocce; il mare della
Costa Rei, con le sue acque cerulee; il mare di Santorini, dove ci si inebria
di luce, ma che diventa al tramonto argentato, poi roseo, poi violaceo e infine
nero.
Ma
oltre ai colori ci raggiungono i movimenti del mare che a volte sembrano un
gioco, quasi a rivelare la natura giocosa dell’universo: flusso e riflusso,
inspirare e espirare con le onde più o meno bianche che anche se muggiscono non
rompono il silenzio. Arriva anche la bonaccia e il mare diventa liscio come
l’olio, l’orizzonte lontano si staglia netto, a lasciarci intravvedere
l’infinito e a spingerci a discernere l’invisibile...
Sì,
mi è sempre parso che il mare sappia raccontare il mio intimo più del cielo e
della terra, perché conosce una grammatica dei sentimenti del cuore più precisa
delle parole che io possiedo per descriverli: la pace silenziosa che permette
di abitare con se stessi nella sobria ebbrezza del vivere in buone relazioni
d’amore, l’ansia che a volte coglie e diventa il turbamento serale, lo
scatenarsi della rivolta e della protesta quando si fa ingrato il mestiere di
vivere.
Certamente
il mare che contemplo e amo è il Mediterraneo: “mare nostrum” dicevano i
romani, “mare bianco” dicono gli arabi.
È
il mare che secondo Basilio di Cesarea ha la vocazione di essere ponte tra
terre e culture differenti.
È
il mare in mezzo a terre i cui abitanti si sono scontrati e mescolati fin
dall’antichità, ma che oggi è attraversato da disperati che lasciano il Sud del
mondo in cerca di pane, perché il pane non è mai andato e non va verso i
poveri.
Molti
di questi uomini, donne, bambini, non conoscono neanche il nome di questo mare:
lo scoprono mentre cercano di fuggire da dove sono nati e cresciuti per recarsi
in terre che sono per loro promessa.
Poi
scoprono che si tratta di miraggi e sperimentano il Mediterraneo come nemico.
Quante “carrette del mare” si sono inabissate! Fernard Braudel ha scritto: “Il
Mediterraneo è ciò che ne fanno gli uomini”, e noi constatiamo che ne abbiamo
fatto un cimitero. È il mare che guardandolo ci deve ispirare anche vergogna e
far sentire quanto siamo complici dell’ingiustizia dominante.
Mare nostro,
della nostra vergogna.
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