Dal
nazionalismo al sovranismo
La
travolgente vittoria di Donald Trump nelle elezioni americane smentendo i
sondaggi, che lo davano testa a testa con la sua rivale, ha colto molti di
sorpresa.
In
realtà essa non fa che confermare e portare a compimento una tendenza, ormai da
alcuni anni dilagante in tutto il mondo occidentale, che va, comunemente, sotto
il nome di “sovranismo”. «America First», prima l’America, è il motto del
neo-presidente. Dove per “America” si intendono, naturalmente, gli Stati Uniti
e non quegli altri paesi del continente americano i cui rapporti con
Washington, proprio in base a questo slogan, sembrano destinati a peggiorare.
È
la logica del sovranismo, nuova formula per designare quello che un tempo si
chiamava nazionalismo. Con una sfumatura che li differenzia: il nazionalismo
esaltava il concetto di nazione come collettività depositaria dei valori propri
di un popolo o di un’etnia, affermandone il primato; il sovranismo rivendica
solo l’importanza della sovranità politica ed economica dello Stato,
opponendosi al trasferimento di poteri e competenze a un livello
sopranazionale, senza alcun riferimento a una presunta superiorità di una
cultura, di una razza, o di una nazione rispetto alle altre.
Sono
molti, comunque, gli aspetti per cui l’uno si presenta come la riedizione
dell’altro. Qui prenderemo in esame solo quelli relativi alle relazioni con il
mondo esterno.
Come
il nazionalismo, il sovranismo vede i rapporti tra gli Stati nella logica di
una competizione – anche se non necessariamente militare – che inevitabilmente
esclude la prospettiva di un fine comune. Da qui una politica estera
spregiudicata, tesa esclusivamente all’affermazione degli interessi del proprio
Stato, anche a costo di calpestare quelli degli altri.
Da
qui anche la diffidenza verso formule di cooperazione internazionale fondate
sull’idea che tutti possono trarre vantaggio da una rinunzia alla propria
totale autonomia. E da qui, conseguentemente, il rifiuto di aderire a
trattati che implichino sacrifici per il proprio paese, in nome di futuri
guadagni per tutti.
Lo
Stato sovranista, inoltre, mette in primo piano in modo esclusivo i diritti e
gli interessi dei propri cittadini e non ha particolarmente a cuore quelli del
resto dell’umanità. Anzi ritiene suo dovere difendere i primi dall’emergere dei
secondi, considerati automaticamente una minaccia.
Anche
da questo punto di vista esso respinge quella visione inclusiva del bene comune
secondo cui tutti possono crescere grazie a una reciproca collaborazione. Il
principio a cui ci si ispira è che il bene degli altri e il proprio sono a
somma zero: l’incremento dell’uno comporta sempre, inevitabilmente, la
diminuzione dell’altro e viceversa.
Gli
Stati sovranisti sono impegnati perciò a “difendere i confini” contro quella
che definiscono l’“invasione” dei migranti stranieri, elaborando una normativa
che restringe quanto più possibile il loro ingresso legale e che trasforma
automaticamente tutti quelli che non vi rientrano in “clandestini” o
“irregolari”, perseguibili a termini di legge come comuni criminali.
E
quando questi “clandestini” si intrufolano illegalmente violando le frontiere,
questi Stati studiano tutte le misure per cacciarli via, rispedendoli ai paesi
di provenienza da cui fuggivano.
Il
progetto di Trump
Le
posizioni di Trump coincidono perfettamente con questo quadro. In campo
economico il nuovo presidente degli Stati Uniti, nella logica della tutela
degli interessi nazionali, è sempre stato un convinto protezionista. Il suo
programma prevede l’introduzione di nuovi dazi, che penalizzino i
prodotti importati dall’estero e consentano il potenziamento della produzione
delle aziende americane. Si profila, perciò, un’aspra guerra doganale,
soprattutto con la Cina, grande esportatrice in tutto il mondo, compresi gli
Stati Uniti.
In
campo politico, pur non essendo – come lo si è accusato – un isolazionista,
Trump ha sempre avuto un atteggiamento critico verso la NATO, considerando
l’organizzazione un fardello finanziario sproporzionato per gli Stati Uniti e
lasciando intendere che la difesa europea debba essere garantita principalmente
a spese dell’Europa stessa.
Perciò
il suo ritorno alla Casa Bianca porterà nuove pressioni sugli alleati europei
affinché incrementino il loro budget per la difesa e, in caso di rifiuto,
potrebbe determinare lo smantellamento dell’Alleanza e l’abbandono degli Stati
europei alle tendenze espansionistiche della Russia.
Più
in generale, il neo-presidente ha sempre guardato con sospetto gli accordi
globali, come quello di Parigi sul clima, con il quale quasi tutti
gli Stati del mondo, nel 2015, si impegnarono a fare di tutto per mantenere il
riscaldamento globale causato dai combustibili fossili “ben al di sotto”
dei 2°C, cioè quella che gli scienziati hanno indicato come la soglia
da non superare per evitare le conseguenze peggiori della crisi climatica.
Durante
la prima presidenza di Trump, gli Stati Uniti erano usciti dall’Accordo di
Parigi e ora il neo-presidente ha promesso che lo farà di nuovo, perché ritiene
che esso comporti dei sacrifici eccessivi per l’industria americana. «America
First».
Questo
non esclude – è la differenza rispetto al puro isolazionismo – degli interventi
sullo scenario mondiale, ma sempre solo in rapporto agli interessi degli USA e
rinunziando a partecipare ad alleanze più vaste e permanenti.
Per
quanto riguarda la guerra in Ucraina, è probabile che Trump – considerando i
costi enormi sostenuti finora dagli Stati Uniti per il sostegno militare ed
economico a Kiev – cercherà di giungere a una rapida conclusione del conflitto
attraverso una soluzione diplomatica. Un progetto che implicherebbe
inevitabilmente il sacrificio delle ambizioni di Zelenskij di ottenere una
vittoria sul campo e di mantenere l’integrità territoriale del suo paese.
Sul
fronte del Medio Oriente, il nuovo inquilino della Casa Bianca continuerà a
fare, nella sostanza, ciò che faceva il suo predecessore, fornendo armi e
copertura politico-militare allo Stato ebraico, in vista di una eliminazione
completa o almeno di una espulsione dei palestinesi dai loro territori, per
giungere a quella occupazione, da parte di Israele, dell’intera Palestina,
apertamente auspicata da Netanyahu e dagli ultraortodossi.
La
differenza rispetto a Biden sarà che smetterà di dire il contrario del
comportamento effettivo e quindi smetterà di parlare della soluzione dei due
Stati. Anzi spingerà esplicitamente lo Stato ebraico a completare al più preso
a sua opera. La pace ci sarà, come Trump ha promesso, ma anche qui sarà una
“pax americana”.
Infine,
un fattore importante per la vittoria di Trump è stato l’atteggiamento
durissimo verso i migranti. «Nel mio primo giorno di rientro alla Casa Bianca,
fermerò l’invasione del nostro confine meridionale e inizierò la più grande
operazione di deportazione nella storia americana», aveva promesso in campagna
elettorale. E i suoi connazionali lo hanno votato per questo.
L’impossibile
abbraccio dei ricci
Davanti
allo scenario che si delinea, è difficile non restare perplessi. Anche perché
ciò che accade negli Stati Uniti, paese guida dell’Occidente, avrà inevitabili
ricadute su tutti gli altri. C’è da aspettarsi che il sovranismo anche in
Europa venga rafforzato e che, per fare solo un esempio il partito tedesco di
estrema destra, Alternative für Deutchland, accusato di neo-nazismo, nelle
elezioni anticipate rese necessarie dalla crisi del governo Scholtz, guadagni
ulteriore terreno e finisca per andare al potere.
Nell’imbarazzo
più o meno mascherato delle altre forze politiche, a esultare del trionfo di
Trump, perciò, sono solo i sovranisti.
In
Italia Salvini continua a esibire le foto che lo ritraggono col Tycoon e a
ricordare a tutti che egli ne è stato sempre un grande ammiratore. Qualcuno
però potrebbe fare notare, a lui e agli altri esponenti del sovranismo europeo,
che la loro concezione politica, a differenza di altre, non si presta a
dar vita ad alleanze e a progetti comuni, neppure di destra.
Se
si pensa che il bene del proprio paese sia in alternativa a quello degli altri,
due governi sovranisti non potranno mai allearsi, se non in un rapporto
asimmetrico di dipendenza (come fu tra Germania nazista e Italia fascista nel
secolo scorso). Come i ricci, i cui aculei sono una buona difesa verso gli
altri animali, ma escludono un reciproco abbraccio, i sovranisti non possono
dare luogo a un fronte veramente comune e tra due Stati governati da loro ci
potrà essere solo competizione.
E
di fatto, l’esultanza del nostro vice-premier dovrà presto fare i conti col
fatto che la linea dell’America di Trump, protezionista e polemica verso
l’Europa, non coincide affatto con gli interessi dell’Italia, per quanto il
nostro governo abbia per molti versi una matrice sovranista, anzi è destinata a
danneggiarli gravemente.
Per
quanto riguarda la nostra economia – che si basa in gran parte sulle
esportazioni – l’aumento dei dazi, con il conseguente scatenarsi di una guerra
doganale, da parte degli Stati Uniti, non potrà che colpire le
nostre attività commerciali e, più a monte, quelle produttive. Tanto più
che il nuovo presidente americano considera – e l’ha detto – l’Europa al pari
della Cina.
Anche
la nostra politica estera è stata finora impostata, per quanto riguarda la
guerra in Ucraina, sulla fedeltà alla NATO e sul sostegno «incrollabile» a
Zelenskij, per quella di Gaza sulla creazione di uno Stato palestinese. Che
farà il nostro governo ora che il potente alleato americano sembra
cambiare drasticamente linea?
Solo
un’illusione ottica può far credere ai nostri sovranisti che la vittoria di
Trump è un successo anche per loro.
Potrà
fare aumentare i voti per i loro partiti, ma, per quelli che sono già coinvolti
in ruoli di governo e per gli altri che potranno presto esserlo, l’America di
Trump è diventata più una minaccia che un punto di riferimento. E, in
generale, è il mondo di Trump – per definizione conflittuale e spietato
– a profilarsi come un incubo, e non solo per i sovranisti, ma per tutti
coloro che ne avevano sognato uno dove gli esseri umani fossero finalmente
fratelli.
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