Essere stati esposti alla violenza e alle brutalità della guerra rende reattivi, aggressivi e irritabili.
L'adattamento alla vita civile dopo la guerra può risultare difficile, in particolare per chi ha combattuto.
-di Rosella De Leonibus
Sappiamo
molto bene quali sono le conseguenze della guerra: morti, mutilati,
distruzioni, povertà, devastazione del territorio, rottura dei legami sociali…
L’impatto della guerra sulla psiche è altrettanto devastante sia per chi lo
vive direttamente (i soldati e le vittime civili) sia per chi viene toccato
indirettamente (le famiglie e le comunità). Più il conflitto è duro, pesante e
lungo, minore è il sostegno sociale, più pesanti saranno le conseguenze della
guerra.
I DANNI PSICOLOGICI
La
guerra è una esperienza traumatica devastante. La conseguenza psicologica più
evidente è il disturbo da stress post traumatico. Flashback, incubi, ansia
intensa e reazioni fisiologiche automatiche quando i ricordi emergono. I reduci
spesso vivono un grave distacco emotivo, diventano incapaci di provare piacere
e gusto per la vita, come se fossero morti dentro l’anima. Il sonno sarà
disturbato, popolato di incubi e i flashback, che lasciano irritati, affaticati
e deconcentrati, come sbalorditi. L’insicurezza e il senso di impotenza vissuti
lasciano una sequela di disperazione, stanchezza mentale e mancanza di
speranza. E i lutti e la povertà portano con sé tristezza e sconforto, ansia e
disturbi depressivi. L’incapacità di provare empatia o rispondere emotivamente
agli eventi quotidiani, che difende dal contatto con la sofferenza e l’orrore,
impatta sulle relazioni sociali e affettive, condannando alla solitudine invece
che alla solidarietà. La dissociazione (sentirsi “separati” dalla propria
esperienza), la rimozione o il blocco di ricordi dolorosi, mettono la mente al
riparo dal trauma, ma ne ostacolano l’elaborazione.
Essere
stati esposti a tanta violenza e alle brutalità della guerra rende reattivi,
aggressivi e irritabili, e l’adattamento alla vita civile dopo la guerra può
risultare difficile, in particolare per chi ha combattuto.
I
sopravvissuti, sia soldati che civili, possono sentirsi in colpa e provare
vergogna per le azioni compiute in guerra, ancor più quando sono stati violati
valori morali personali. Il trauma morale ha effetti a lungo termine sulla
salute della psiche e sulla capacità di integrarsi nella società. Ma anche
perdere il senso di appartenenza, il senso di identità e lo scopo che le
strutture militari garantiscono, comporta un senso di alienazione e isolamento
e molti ex soldati non riescono a sentirsi compresi, con difficoltà importanti
rispetto al processo di reinserimento nella vita civile.
Sulla
psiche dei bambini, la paura, la perdita di stabilità e il senso di impotenza
sono particolarmente devastanti, fino a ritardi nello sviluppo emotivo e
sociale, fino a comportamenti aggressivi e antisociali nel futuro.
Ma
le conseguenze della guerra non si fermano alle vittime dirette e indirette: si
estendono alle generazioni successive, perché la mancata elaborazione del
trauma può influenzare i figli di chi ha vissuto la guerra, creando un effetto
domino che si trasmette attraverso comportamenti, valori e paure. Il trauma
diventa transgenerazionale, minando il benessere psichico e sociale delle
generazioni future.
In
presenza di supporti sociali adeguati, alcune persone e alcune comunità possono
sviluppare buoni processi di resilienza e avviare quella che chiamiamo crescita
post-traumatica, con una maggiore consapevolezza di sé, la riscoperta di valori
fondamentali e una nuova capacità di apprezzare la vita. Se però manca il
supporto sociale, se mancano reti di sostegno e cure psicologiche di massa e
adeguate nel breve termine, programmi per il reinserimento e gruppi di aiuto,
questo sviluppo sarà bloccato.
LA
GUERRA È “NATURALE” PER LA PSICHE?
L’aggressività
umana e il comportamento violento sono intrinseci alla natura umana o sono il
risultato di influenze esterne e sociali?
Cominciamo
con Freud, che ipotizzava l’esistenza di una pulsione alla distruzione o
“pulsione di morte” che sarebbe alla base dell’aggressività e della violenza.
Una pulsione che si oppone alla “pulsione di vita”, alla creatività, alla
costruzione di legami sociali e affettivi. Per Freud, quindi, l’essere umano
avrebbe un impulso intrinseco sia verso la creazione che verso la distruzione.
Freud vedeva la guerra come una manifestazione collettiva di Thanatos,
un’espressione di questa pulsione di distruzione che emerge in forma
organizzata.
Anche
Konrad Lorenz, dal lato dell’etologia, ha studiato il ruolo evolutivo
dell’aggressività in tutte le specie animali, compreso l’essere umano, e la
descriveva come un istinto biologico, al servizio della sopravvivenza, della
difesa del territorio e della protezione della specie. Lorenz osservava anche
come negli animali esistano meccanismi che frenano l’aggressività e evitano che
la propria specie venga distrutta, mentre tra gli umani questi freni sono meno
potenti, e l’aggressività può prendere la forma di guerre devastanti.
La
prospettiva evoluzionista ha rilevato come la tendenza al conflitto nelle
epoche arcaiche potesse rappresentare un vantaggio per accedere alle risorse,
alla sopravvivenza e alla trasmissione dei geni dei più forti, e la guerra e
l’aggressività potrebbero quindi aver avuto un ruolo adattivo nel processo di
evoluzione, selezionando individui che avessero capacità maggiori di proteggere
il proprio gruppo. Tuttavia, gli stessi scienziati sottolineano come non si
possa affermare che la guerra sia inevitabile o che l’essere umano sia
“naturalmente portato” alla distruzione, in quanto la capacità di cooperare,
l’empatia e la possibilità di vivere in comunità pacifiche è anch’essa parte
della natura umana, e ha avuto un esito evolutivo molto favorevole, poiché ha
permesso la costruzione di società complesse e organizzate.
LA
GUERRA SI IMPARA
La
prospettiva della psicologia sociale tende invece a vedere la guerra e la
violenza non come espressioni di un istinto innato, ma piuttosto come il
risultato di apprendimenti e adattamenti, frutto di influenze culturali,
sociali e ambientali. I comportamenti aggressivi, quindi, come la maggior parte
dei comportamenti sociali umani, vengono descritti più come appresi che come
innati.
Sono
le situazioni di deprivazione, così come quelle in cui si subisce una minaccia
o una oppressione, insieme a condizionamenti culturali e ideologici, ad
attivare nelle persone e nelle loro aggregazioni sociali atteggiamenti
aggressivi e bellicosi. La guerra, quindi, sarebbe il prodotto di scelte e
situazioni politiche e sociali, un frutto della cultura e della società,
piuttosto che una tendenza innata alla distruzione.
Anche
l’approccio antropologico e culturale descrive la guerra non come una necessità
naturale, ma come una costruzione sociale. Lo dimostra la storia: molte culture
hanno vissuto a lungo in pace ed è l’organizzazione sociale il maggior fattore
di influenza sulle inclinazioni aggressive o pacifiche degli individui.
La
guerra allora è il risultato di valori e strutture di potere che educano gli
individui a percepire l’altro come nemico o minaccia. A supporto della
giustificazione della guerra e della sua necessità ci sono sempre ideologie di
superiorità, di nazionalismo o fondamentalismi religiosi, c’è sempre una
stigmatizzazione e svalutazione delle differenze, c’è sempre una polarizzazione
tra “noi” e “loro”, c’è sempre la creazione di un nemico esterno, la proiezione
della parte “ombra” della collettività su una categoria particolare di soggetti
o su un intero popolo.
Dal
lato della psicologia, Dollard e Miller hanno a loro volta studiato
l’aggressività e hanno rilevato come essa sia una risposta alla frustrazione,
piuttosto che una pulsione innata. Quando ci si sente ostacolati nel
raggiungimento dei propri obiettivi, se mancano sistemi individuali e sociali
di contenimento, espressione adattiva, elaborazione ed educazione, la
frustrazione può venire vissuta come intollerabile e può indurre a sviluppare
comportamenti aggressivi.
Nel
contesto della guerra, il conflitto può essere visto come il risultato di
frustrazioni collettive, come la mancanza di risorse, l’oppressione economica o
le ingiustizie sociali, che spingono i gruppi a comportamenti autoprotettivi
violenti o direttamente distruttivi.
Su
temi di così vasta portata si sono impegnate anche le neuroscienze, che
attraverso la ricerca hanno evidenziato come nelle risposte aggressive siano
coinvolte alcune aree del cervello, come l’amigdala. Tuttavia, la ricerca
stessa ha mostrato come nel cervello umano siano presenti anche aree deputate
al controllo delle emozioni e alla regolazione del comportamento, come la
corteccia prefrontale. Quindi a livello neurobiologico troviamo predisposti
alcuni meccanismi di base per lo sviluppo dell’aggressività, ma gli studi
mostrano come l’aggressività non sia affatto inevitabile: le esperienze
sociali, l’educazione e l’ambiente giocano un ruolo cruciale rispetto alla
forma e alla direzione in cui queste tendenze si sviluppano e si
esprimono.
Una
prospettiva integrativa suggerisce che, quantunque come esseri umani possiamo
rintracciare nel nostro cervello una predisposizione all’aggressività e alla
competizione, e anche alla risposta impulsiva violenta quando ci sentiamo
gravemente minacciati, possediamo nelle nostre strutture neurobiologiche anche
capacità avanzate di autoregolazione, di empatia, di ingaggio sociale e
cooperazione.
La
guerra allora non è affatto una necessità biologica, né tanto meno una pulsione
ineluttabile, ma una scelta specifica, influenzata, predisposta e alimentata da
decisioni politiche, economiche e culturali. L’essere umano è capace di
costruire relazioni pacifiche, e la tendenza alla pace e alla cooperazione è
altrettanto forte quanto quella alla competizione.
LA
GUERRA È EVITABILE
La
psicologia contemporanea tende a considerare i comportamenti umani violenti e
distruttivi, e quindi la guerra, come il risultato di un complesso insieme di
fattori biologici, psicologici, sociali e culturali, piuttosto che l’esito
incontrollabile di una pulsione innata. Sebbene esistano inclinazioni
all’aggressività, l’essere umano possiede anche una forte capacità di vivere
pacificamente, come è dimostrato dalla storia di molte culture e società
pacifiche. La guerra, quindi, non è inevitabile: è una scelta che dipende da
fattori modificabili, come la politica, l’educazione e la struttura
sociale.
Come
esseri umani, disponiamo sia del potenziale per il conflitto che del potenziale
per la pace. Lavorare per la promozione di una cultura di pace, basata sulla
comprensione reciproca, sulla ricerca e la pratica del dialogo, sulla gestione
costruttiva dei conflitti, sull’educazione alla regolazione emotiva,
sull’educazione alla nonviolenza e sulla valorizzazione e il rispetto dei
diritti umani: questo intento e questo impegno collettivo possono contenere e
indirizzare le pulsioni aggressive e creare le condizioni psico-sociali per
costruire di una società più pacifica.
Dobbiamo
imparare a vivere insieme come fratelli, o periremo insieme come stolti (Martin
Luther King)
Rocca 18 Novembre 2024
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