martedì 16 settembre 2025

NON CAMBI MAI

 


 Che cosa hanno 

in comune

 

le «generazioni»?


-         di Alessandro D’Avenia

In questi giorni in cui inauguravo l'anno con una nuova classe di quattordicenni ho incontrato tre ex-alunni, guarda caso tre tornate di maturità: 30, 25 e 20 anni. Questi incontri mi hanno fatto riflettere sull'unità di misura che segna il tempo di noi insegnanti: il lustro, cinque anni, dal primo di superiori alla maturità. Un lasso di tempo che sembra segnare anche i cambi di generazione. Se prima si contavano in quarti o quinti di secolo ora le generazioni paiono mutare ogni lustro, tanto che lo stesso studente ventenne, raccontandomi un episodio di interazione con alcuni quindicenni, si diceva profondamente diverso da loro alla stessa età. Ma di che cambiamento parliamo? Che cosa cambia e che cosa rimane uguale? E noi che re(si)stiamo in cattedra che cosa abbiamo da dire o da dare a ragazzi che mutano così rapidamente? 

I ragazzi di oggi

Alla domanda che mi viene rivolta spesso: come sono i ragazzi di oggi? Rispondo: come sempre, come te e me alla loro età. La risposta spiazza, convinti come siamo che l'unico tempo esistente sia quello lineare e dettato dall'accelerazione del progresso. 

Allora, parlando di «lustri» (dal latino lavare: la lustratio era il rito di purificazione della città dai mali che nell'antica Roma avveniva ogni cinque anni), provo a «illustrare» (pulire: rendere chiaro) qualche punto oscuro del rapido divenire che rende più evidente ciò che invece non cambia mai. 

 Ho affrontato la maturità nel 1995: Internet non esisteva, la conoscenza era nei libri e nelle enciclopedie (le più avveniristiche in cd). Poi con i motori di ricerca la conoscenza si è spostata online. Dopo con i cellulari si è infilata in tasca e sui social. Ora con l'AI, che segna il prima e dopo Cristo dell'apprendimento e dell'insegnamento, non solo la conoscenza ma proprio l'intelligenza si sposta fuori di noi. Questa accelerazione e dislocazione ci cambia o la struttura del Sapiens resta la stessa? 

Mutano le abilità

Con il cambio automatico guidare è più facile ma si diventa più disattenti; da quando ci sono i cellulari molti ragazzi non sanno leggere l'orologio a lancette ma sanno girare un video; si stanno diffondendo strumenti capaci di tradurre istantaneamente il parlato in altre lingue: perderemo capacità e voglia di imparare le lingue? Ci capiremo meglio o peggio? Vedremo. Già Platone temeva che la scrittura ci avrebbe fatto «perdere» la memoria, nessuno avrebbe più «mandato» a mente l'essenziale ma lo avrebbe «demandato» al supporto scritto. 

Aveva ragione, ma proprio grazie a questo (oltre ad avere i suoi capolavori) la memoria si sgravò dell'eccessivo peso di conservazione tipico delle culture orali, aprendosi a nuove conoscenze. Ed è stato un bene tanto che nessuno si sognerebbe di tornare indietro. Da questo punto di vista l'IA avrà un impatto pari se non superiore all'uso della scrittura. D'altronde questo è lo scopo della tecnica: sollevare l'uomo dal peso del lavoro per guadagnargli riposo e tempo. 

Però oggi ci sono due novità paradossali. 

La prima è che il tempo liberato dalla tecnologia lo utilizziamo per altra tecnologia (stare sul cellulare; le e-mail che dovevano alleggerirci sono invece diventate un lavoro a sé...). 

La seconda è che nel XX secolo abbiamo creato per la prima volta strumenti che invece di alleggerirci possono vaporizzarci (la bomba). E l'AI, a detta dei suoi stessi inventori (si vedano su queste pagine le due recenti interviste di Riccardo Luna ai Nobel e padri dell'AI, Geoffrey Hinton e Yoshua Bengio), avrà derive simili se non sarà regolamentata e la si lascerà in mano all'industria bellica e alle logiche di mero profitto delle big tech. 

Ma in mezzo ai mutamenti, più o meno profondi, delle nostre abilità mi chiedo: qualcosa resta invariato? Che cosa mi permette ancora di educare i ragazzi nati dopo Internet, quelli nati dopo il cellulare, quelli nati dopo l'AI e chissà cos'altro?

Che cosa hanno in comune le «generazioni» (oggi usiamo il termine per indicare l'ultimo modello di telefono o di pc e non le persone)? Un ragazzo maturato nel 1995 e uno che si maturerà nel 2030, sette lustri dopo, fioriscono allo stesso modo? Sì. E la risposta è proprio nella parola «generazione»: ciò che non cambia è «essere generati». La radice (gen-) tanto antica quanto feconda contiene l'insieme di generare, nascere e diventare come mostrano i molteplici quotidiani esiti lessicali: genio, genitori, genuino, genitali, generoso, gentilezza, genere, genetica, genoma, gene, genocidio, genealogia, fotogenico, idrogeno, ossigeno, cosmogonia... 

Tutti, proprio tutti nella storia, abbiamo una sola cosa in comune: il fatto di essere figli. Questa condizione è quindi per natura il cardine dell'esistenza, e quindi rafforzare, aiutare, confortare – in una parola educare – questa condizione è la chiave di ogni vita riuscita, in particolare se in formazione. 

Sentirsi generato

Ma che significa sentirsi (non basta esserlo materialmente) «generato»? Sperimentare che la vita che abbiamo è ricevuta, non ce la siamo data da soli ed è illusorio volerlo fare, e che per ri-generarla bisogna attingere a una fonte che non è in noi. Diventare «sempre più» figli significa (imparare a) ricevere la vita, sentirsi voluti al mondo e saper cercare nel mondo ciò che ci serve per compierci, qualsiasi siano le condizioni contingenti. Quello che ha fatto fiorire un ragazzo maturato nel 1995 e ne farà fiorire uno che si maturerà nel 2030 è quanto si sente figlio, cioè, generato alla vita e voluto in essa, in ogni istante. 

Non è un caso che il DNA letterario del Sapiens, l'Odissea, non cominci con Ulisse ma con il figlio, Telemaco, che per diventare adulto deve prima trovare il padre. Ma per farlo gli occorre una nave con la quale lasciare Itaca. E noi quali strumenti scegliamo perché i ragazzi salpino verso la vita? Quelli che li rendono più generati e quindi più generosi?

Il cellulare

Per esempio, il cellulare prima di una certa età non genera ma de-genera. E non è questione di poco conto, perché poi da quanto sono e mi sento generato dipende quanto sarò generativo, cioè capace di creare e ampliare la vita: è genuino, generoso, gentile chi si sente voluto al mondo, solo chi è grato della vita ricevuta ne provoca altrettanta. «Io ogni giorno porto felicità a qualcuno» ha sentenziato una bambina di 7 anni che conosco. Non saprei esprimere meglio la condizione di chi è e si sente figlio. Ci accade, a 7 o 77 anni, quando siamo destinatari di un atto creativo o lo compiamo.

Amare rigenera

Il verbo che racchiude ogni atto creativo è «amare» ma si coniuga nei modi originali in cui ciascuno di noi pro-crea, cioè, fa vita nuova o fa nuova la vita: scrivere, dipingere, accarezzare, cucinare, incoraggiare, studiare, suonare, raccontare, passeggiare, curare, guardare negli occhi, lavorare, fare sport, prendere per mano, riposare, correggere, parlare, abbracciare, ascoltare, sorridere... 

Tutto ciò che è fatto per amore e per amare ha un effetto d'essere: (ri-)genera. E allora come sono i ragazzi oggi? Come sempre: più o meno generati, affamati di sentirsi unici, voluti al mondo da chi li educa. Questo permette non solo di imparare bene la matematica, la biologia e l'italiano, ma di servirsene per essere e diventare se stessi, senza dover vendersi, tradirsi, fingere per ricevere un po' di amore, perché in un mondo che cambia a ogni lustro, l'amore non cambia mai. 

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ODIARE. UNA PATOLOGIA


       Il risentimento dilaga ovunque 

ma non è una condizione naturale.

 Si tratta piuttosto di una malattia 

da cui si può, e si deve, guarire

con l’apertura di mente e cuore.

 

-         di Vito Mancuso

-          

Odio: sembra proprio questa la condizione del cuore e della mente della politica mondiale e nazionale, e siccome la politica è nel bene e nel male la cartina di tornasole della condizione della società, la sconsolata conclusione da trarre è che siamo destinati a sprofondare sempre più in un mare di odio, di risentimento, di aggressività, di violenza. 

L’odio, infatti, purtroppo genera odio.

 L’assassinio del giovane politico americano Charlie Kirk da parte del giovanissimo studente Tyler Robinson sembra proprio che abbia avverato quanto afferma la Bibbia: “E poiché hanno seminato vento, raccoglieranno tempesta” (Osea 8,7). Può anche avvenire però che non si sia seminato vento e tuttavia si raccolga lo stesso tempesta: Gandhi, i due Kennedy, Martin Luther King, Aldo Moro ne sono alcuni tragici esempi. L’odio appare quindi una passione distruttiva che pervade la storia da sempre: Caino uccide Abele, Romolo uccide Remo, Socrate viene ucciso dai democratici, Gesù dai teocratici, guerre a non finire, pulsioni ataviche di vendetta: e il Novecento, definito “secolo dei genocidi”, ai nostri giorni replica sanguinosamente se stesso … 

Ma che ruolo ha l’odio nella struttura del mondo? È strutturale, è naturale? Oppure è sopravvenuto e innaturale? Qual è il rapporto dell’odio con la logica della vita nel mondo? Penso che la mia risposta vada controcorrente, perché, a differenza dei più, io ritengo che l’odio non sia naturale ma costituisca una patologia, e che quindi il suo dissolvimento costituisca un ritorno alla fisiologia, una guarigione. 

Una patologia

Di cosa l’odio costituisce una patologia? Di quella condizione strutturale che Eraclito chiamava polemos, quando scriveva che “il conflitto (polemos) è padre di tutte le cose e di tutte è re”. A questa celebre affermazione egli affiancava la consapevolezza complementare dell’armonia, per l’antico filosofo ancora più fondamentale: “Da elementi che discordano si ha la più bella armonia”. Eraclito (insieme a Empedocle) fu il primo in Occidente a sottolineare la condizione conflittuale che strutturalmente inerisce all’essere e che però, ben lungi dal condurre al nulla, produce l’armonia da cui si generano gli enti, la vita, l’intelligenza, la cultura. 

Perché allora l’odio predomina a tal punto nella vita politica e sociale dei nostri giorni? 

La mia risposta è: perché i più tra noi sono spiritualmente malati, e lo sono perché le nostre società sono a loro volta spiritualmente malate in quanto hanno smarrito ogni riferimento etico e valoriale che sappia imporsi ai soggetti e dirigerne l’agire. 

Il conflitto

Eraclito vedeva bene, oggi la scienza conferma la sua visione, nella natura vi è il conflitto già a partire dalla condizione della materia, gli astrofisici significativamente parlano di galassie cannibali e di voraci buchi neri. Se poi si passa alla biologia la situazione diventa ancora più conturbante perché entra in scena il sangue, l’elemento della vita e al contempo della morte. Però attenzione: nelle stelle, nei quasar, nei buchi neri, così come negli animali che lottano per la vita nutrendosi di vita altrui, non vi è odio. Il leone non odia la gazzella, la gazzella non odia l’erba. Nel mondo naturale non vi è odio, perché l’odio è una patologia della mente evoluta; più precisamente, della mente umana alle prese con il conflitto che inerisce strutturalmente all’essere e che essa non sa dominare ma ne diventa vittima. La mente che domina il conflitto lotta contro il proprio avversario ma non lo odia; la mente dominata dal conflitto, invece, lo odia.

L’avversario 

Nel primo caso si vuole sconfiggere l’avversario, ma non annientarlo, e questo perché si sente che l’avversario è, a ben vedere, parte di noi, nel senso che senza di esso la nostra stessa identità non sarebbe quello che è: come la sinistra non sarebbe senza la destra, gli atei senza i credenti, la Juve senza l’Inter. L’odio, invece, vuole annientare. E nel suo furore accecante che lo rende ignorante, non comprende che l’annientamento del nemico comporterebbe il venir meno anche della propria identità, la quale senza il nemico non avrebbe più il polo opposto in base a cui determinarsi. 

L’odio è una malattia, una patologia dello spirito: non a caso ebraismo, cristianesimo e islam ritengono che Satana (chiamato dal Corano Iblis) sia un angelo decaduto, e l’angelo è puro spirito. Quando la libertà si ammala, pone la consapevolezza e la creatività non più al servizio della responsabilità ma del suo contrario che è la distruzione. Si ha così la malignità, cioè la lucida volontà di male. Tale volontà maligna può essere indirizzata a una persona, a un gruppo, a un popolo, a un’istituzione, oppure essere generalmente rivolta al mondo e condotta per il mero piacere del male, per il gusto sadico e perverso di infliggere sofferenza e morte. 

Normalmente non si pensa che l’odio sia una patologia; anzi, lo si contrappone all’amore come forza di uguale e contrapposta potenza. Non solo, si ritiene persino che l’odio aiuti a comprendere meglio dell’amore in quanto dotato di una sua invidiabile lucidità. Io non sottovaluto la forza dell’odio, ma contesto che sia veramente intelligente. Penso anzi che in realtà l’odio sappia vedere solo se stesso e non l’altro nella sua realtà effettiva; anche quando vede l’altro, chi odia vede in realtà solo il proprio pregiudizio che gli impedisce di riconoscere il bene dell’altro. L’odio vede, ma non con quello sguardo retto che fa posare l’occhio sull’altro cogliendolo per quello che veramente è; no, l’occhio vede con uno sguardo deformato dall’energia negativa che fa desiderare la distruzione. 

La rettitudine

La vera comprensione richiede invece rettitudine, anzitutto nel senso di sguardo retto, di “retta visione”, come dice la prima disposizione dell’ottuplice sentiero insegnato dal Buddha. Da qui si genera apertura mentale e del cuore, ovvero empatia. L’odio quindi non è intelligente ma stupidamente circoscritto. 

Rimane un’ultima questione: l’odio è forte? Certo, l’odio è forte, a volte fortissimo. Ma anche il cancro lo è, le cellule cancerogene possono essere molto più vitali delle cellule sane, sono affamatissime, violente, aggressive. Il risultato però qual è? La morte dell’organismo, e quindi anche la loro, cioè la massima impotenza. Questo si spiega in base al fatto che l’essere è retto dalla logica del sistema, cioè della relazione armoniosa, e che ciò che è conforme a tale logica fa fiorire la vita, mentre ciò che non lo è, la fa sfiorire introducendo morte. Non si tratta quindi di essere necessariamente buoni nello scegliere di rifiutare l’odio. Si tratta più semplicemente di essere intelligenti: di capire la logica che ci ha portato all’esistenza e di conformarci a essa (come un capitano di veliero che capisce il gioco dei venti e dispone la sua barca di conseguenza). Per questo eliminare l’odio al proprio interno, mantenendo il conflitto ma non odiando, significa rimanere sani. Ancor prima che per benevolenza verso l’altro, è un grande gesto di cura verso se stessi. 

Liberarsi dall’odio, mantenendo il conflitto ma abolendo la volontà annientatrice, è ciò di cui hanno bisogno le nostre menti e le nostre società per tornare a produrre una politica come reale servizio al bene comune.

E di quanto questo nostro mondo abbia bisogno di tale rinascita, non c’è bisogno di dire.

La Stampa

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lunedì 15 settembre 2025

CIO' CHE INFERNO NON E'


PADRE PUGLISI RITRATTO DA D'AVENIA

 UN LIBRO STRAORDINARIO CON QUALCHE MA...



di Francesco Deliziosi

 

E' molto contagioso, anche se è morto da tanti anni. No, non parliamo di un virus terribile ma di padre Pino Puglisi, parroco ucciso dalla mafia e martire dei nostri tempi. Una "vittima" illustre dell'epidemia si chiama Alessandro D'Avenia, scrittore di best seller da un milione di copie e tradotti all'estero, palermitano trapiantato a Milano (dove insegna). Colpito, con ogni probabilità, da ragazzo nei corridoi del liceo classico Vittorio Emanuele II dove il mite sacerdote, senza darlo a vedere, contagiava centinaia e centinaia di studenti. Con la forza dell'amore e del suo sorriso.

 Diagnosi: per capire la potenza del contagio basta leggere il romanzo di D'Avenia, "Ciò che inferno non è" scritto per Mondadori che ha pubblicato anche i precedenti e fortunatissimi "Bianca come il latte, rossa come il sangue" e "Cose che nessuno sa". Anzi, a ben guardare, tracce del contagio ci sono anche in questi due romanzi di formazione, centrati sui problemi dell'adolescenza, la delicata parte della nostra esistenza in cui si fanno le scelte fondamentali.

 E l'insegnamento di padre Puglisi era tutto qui: "Sì, ma verso dove?" diceva ai suoi ragazzi. Verso dove volete che vada la vostra vita? Il taglio esistenziale della proposta educativa e la passione per un insegnamento che non sia solo nozionismo sono due tratti in comune ben visibili.

La spiegazione del titolo dell'ultimo romanzo dice tutto: "Togli amore e avrai l'inferno. Aggiungi l'amore e troverai ciò che inferno non è". Dove regna il Male, devi lanciare un seme del Bene, non abbandonare mai il campo.

 Sintomi: D'Avenia spiega che aveva già progetti per numerosi altri libri ma all'improvviso ha sentito una spinta e ha dovuto metterli da parte per dedicarsi alla vita e al martirio di don Pino. Scavare e documentarsi per tre anni, interrogarsi su un ardito costrutto narrativo. E mettere insieme, - idea forse temeraria - persone reali (padre Puglisi, i volontari dell'Intercondominio di Brancaccio, il preside del liceo) e fatti veramente accaduti con personaggi ed episodi inventati (omicidi, suicidi, stupri e pestaggi) . Non cercate quindi una biografia, si tratta di un romanzo storico (quasi un "romanzo criminale") in cui il vero si affianca al verosimile. Virgolettati autentici del sacerdote si alternano a dialoghi frutto dell'ispirazione poetica di D'Avenia. Troverete citazioni reali (il "Padre Nostro" del picciotto mafioso) ma anche frasi e brani letterari che vengono attribuiti a don Pino in modo arbitrario (per esempio quando si fa passare per sua la frase sull'inferno che dà il titolo al romanzo, tratta invece da "Le città invisibili" di Calvino).

 D'altronde, in quella Gomorra siciliana che era la Brancaccio del '92-'93 furono devastanti i delitti e gli orrori. In documenti ufficiali lo stesso padre Puglisi denunciò il degrado morale e casi di prostituzione minorile, traffici illeciti di ogni tipo negli scantinati di via Hazon. Testimonianze dirette attestano la presenza di spie in parrocchia così come il giro di scommesse sui combattimenti dei cani. E come gli animali agonizzanti venissero poi affidati ai ragazzi per le torture finali e il colpo di grazia: una sorta di scuola della violenza (la descrizione della scena atroce è una di quelle indimenticabili del romanzo). Realmente, dopo la strage Falcone, giovani in moto scorrazzavano per le strade di Brancaccio gridando "Viva la mafia!".

 Insomma, per "Ciò che inferno non è" si può dire quello che vale per il film "Alla luce del sole" di Roberto Faenza (altro illustre "contagiato" da padre Puglisi post mortem): molti episodi sono frutto di fantasia ma giustificati dalla tensione drammaturgica e inseriti in un contesto plausibile (a questo link trovate la recensione del film e tante curiosità).

Chi scrive ha conosciuto padre Puglisi per 15 anni e ha passato i successivi a raccogliere documenti e testimonianze su di lui. Dopo la lettura posso dire in tutta coscienza che nell'insieme del romanzo - a parte qualche sbavatura e imprecisione - non ci sono forzature sostanziali su padre Puglisi e sul Calvario della sua missione nei tre anni di Brancaccio. Ed è da apprezzare, soprattutto, come realisticamente il sacerdote venga tratteggiato senza bigottismi. Ai suoi giovani non parla di Dio ma ascolta i loro problemi con le sue grandi orecchie. Rispetta la libertà di tutti e lascia ad ognuno la scelta. 3P - come amava farsi chiamare - non cerca di imporre la religione con la spada come un crociato ma propone amore con una carezza come un profeta. E dimostra la fede con i fatti piuttosto che sbandierarla a parole, consumando più che l'incenso sull'altare la suola delle scarpe nei vicoli e nei tuguri. Tutto ciò nell'ambito di una vita poverissima, senza conto in banca, con un'auto-rottame e la casa popolare in affitto.

 La trama. Federico, ragazzo di buona famiglia che abita nei quartieri alti di Palermo, riceve dal suo professore di religione la proposta di andarlo a trovare a Brancaccio. Una scommessa che lo strega e per la quale rinuncia a una vacanza estiva a Oxford. Da quelle prime visite nel quartiere infernale tornerà con un labbro spaccato e senza la bici che gli hanno rubato. Ma troverà anche Lucia, ragazza di borgata che investe nello studio per avere una vita diversa. Federico tenterà di conquistarla col Canzoniere di Petrarca.

 Moderni Romeo e Giulietta, per il loro amore dovranno contrastare la violenza del quartiere e l'opposizione della famiglia di lui all'esperienza per le strade di Brancaccio. Intorno a loro girano altri personaggi: bambini orfani e straziati, ragazze madri, coraggiosi volontari, killer di mafia. Ognuno con la sua pena nel cuore e per ognuno dei quali padre Puglisi ha un pensiero affettuoso, una parola di conforto. Si fa occhio per il cieco, piede per lo zoppo, dà tutto di sé per tutti, seminando "ciò che inferno non è". Persino agli assassini che si presentano sotto casa nel giorno del suo compleanno riserverà l'ultimo sorriso e le parole "Me l'aspettavo". Un fatto sconvolgente, tanto che entrambi i killer oggi collaborano con la giustizia, dicono di aver avuto una conversione. E Salvatore Grigoli confessa che per quel sorriso "non ci ha dormito la notte". Spiega D'Avenia: "Tutto il libro punta a quella scena: non solo don Pino non viene toccato dal male, ma lo smaschera e sorride al suo assassino. E l'assassino vede in se stesso ciò che inferno non è, proprio nel momento in cui sta compiendo l'inferno".

 Proprio da quel sorriso è partito D'Avenia. Voleva capire se si trattasse solo di facile agiografia. Ha raccolto documenti, visitato Brancaccio, parlato con alcuni testimoni. Nei ringraziamenti in coda al volume mi fa l'onore di citare la mia biografia ("Pino Puglisi - il prete che fece tremare la mafia con un sorriso", Rizzoli) e dice che il "bel libro gli è stato d'ispirazione".

La conclusione della ricerca ha aperto gli occhi di D'Avenia: "l'irresistibile Passione di padre Giuseppe" (per dirla con un verso di Mario Luzi) si squaderna in tutto il suo splendore come le storie dei martiri di un tempo, il cui sangue fu seme di nuovi cristiani. E, da cattolico maturo, D'Avenia fa la stessa scelta di padre Puglisi: non cerca di convertire il lettore, non fa proselitismi. Ascolta lui stesso, attonito, il dramma che narra. Non disegna un santino né un eroe né un prete antimafia. Ma scolpisce con sincerità e vigore un uomo vero.

Altro lato positivo. Tornando al film "Alla luce del sole", potremmo anche dire che D'Avenia prosegue il cammino là dove Faenza (ateo dichiarato) si era fermato. Il padre Puglisi cinematografico è infatti sì un coraggioso, ma non vengono indagate le sue motivazioni, tanto che potrebbe essere un assistente sociale o un poliziotto. E il pubblico alla fine si chiede: "Ma perché fa questo, perché rischia la vita?". Qualcuno, bofonchiando, avrà pensato: "Che don Chisciotte, che fesso".

 D'Avenia ha visto il film e lo ha apprezzato ma evita il rischio. Anzi, il suo romanzo dà la risposta. Aggiunge il pezzo mancante al puzzle laico di Faenza. E mostra Puglisi come il buon pastore che protegge le sue pecore dall'attacco dei lupi, a costo di immolarsi. Il sacerdote che prega Dio per trovare la forza e che trae energia dal Vangelo e dall'amore per il prossimo. Sia egli il più debole dei poveri o il più odioso dei nemici. Puglisi sente la paura come Cristo tra gli ulivi, suda sangue ma decide di andare avanti fino alla Croce. Proprio per questo dispiace che in tutto il volume - forse per tenerlo al riparo dall'accusa di agiografia - non venga mai citata la beatificazione del sacerdote come martire della Chiesa (è la prima vittima della mafia ad avere un simile riconoscimento).

 Va detto però che il romanzo è una sfida coraggiosa: propone alle giovani generazioni non il solito libro retorico sulla mafia ma una riflessione sulla speranza e sulla carità. In definitiva sull'eterna lotta del Bene e del Male. Col Bene che pare soccombere ed è assediato a lungo nella sua metà campo, ma che nei tempi supplementari in contropiede ribalta il risultato. Mi perdonerete la sbrigativa metafora calcistica. Ma divertenti paralleli del genere non mancano nel romanzo: padre Puglisi governa partitelle e D'Avenia osserva che forse il Paradiso è un match "con un arbitro non cornuto"….

 Nel finale Federico vive la catarsi e riscatta se stesso e la propria famiglia nello slancio verso gli altri, continuando a frequentare Brancaccio nonostante le violenze e le minacce. E' proprio la risposta di padre Puglisi al "Sì, ma verso dove?". Per dirla con le parole vere del sacerdote: "Dio ci ama. Ma sempre attraverso un altro".

 Ah, dimenticavamo!

 Prognosi: D'Avenia si è talmente calato nel "caso Puglisi" che non vedo possibilità di guarigione. Neanche per me. E così per tutti gli altri contagiati. Pensate: eravamo 80 mila il 25 maggio 2013 al Foro Italico per il riconoscimento del martirio. Poi ognuno degli 80 mila è tornato a casa e avrà contagiato chissà quanti altri. Non parliamo poi di tutti i parrocchiani che ha avuto padre Pino.

 Ora arriva questo libro, venderà centinaia di migliaia di copie. Passerà di mano in mano. E, anche se nessuno capirà cosa è vero e cosa è finzione narrativa, ogni lettore sarà contagiato dall'amore di padre Puglisi e dal suo sorriso. Davvero un brutto affare per i mafiosi quel delitto del 1993.

 Il contagio del sorriso è all'opera anche nel cuore degli assassini. Perché nella sua ultima ora don Pino li ha accolti non come assassini ma come figli. E vengono i brividi, leggendo le confessioni, quando Grigoli racconta il delitto e chiama la vittima "il padre".

 

 

domenica 14 settembre 2025

UNA SCUOLA CHE FA COMUNITA'

 


UN

 PENSIONAMENTO 

CHE LASCIA 

UNA TRACCIA

 

In genere i pensionamenti di un insegnante vengono festeggiati all’interno delle mura scolastiche, con la partecipazione dei colleghi della pensionata o del pensionato, di qualche autorità locale, e anche di genitori.

Felicità per avere raggiunto una meta si unisce alla nostalgia per gli anni trascorsi a scuola.

Questa volta ho avuto la gioia di partecipare a una festa di un intero paese, che si è unito alla festeggiata per ringraziarla del servizio svolto.

Godrano è un elegante e piccolo centro de palermitano, incastonato nel bosco della Ficuzza e dominato dall’imponente e maestosa Rocca Busambra. Laboriosità, pastorizia e agricoltura ne costituiscono le risorse.

Vi è stato parroco per diversi anni il beato Pino Puglisi, ancor giovane prete, capace di lasciare un profondo segno di spiritualità e civismo, ma anche tanti preziosi ricordi.

L’insegnante, Giusi Cannella, maestra aperta, dinamica, con spirito umile ma competenza elevata e volontà forte, ha voluto ringraziare tutta la comunità per aver saputo accompagnare e sostenere il suo quarantennale servizio educativo.

Non è stato un saluto di commiato, ma una tappa del suo cammino, preludio ad un servizio di volontariato nella comunità civica, scolastica ed ecclesiale.

La cerimonia- festa, infatti, testimoniava principalmente la gioia di tutti di far festa ad una maestra cresciuta con loro.

La partecipazione di sindaco e assessori, parroco, carabinieri, genitori, colleghi “vecchi e nuovi”, dirigenti scolastici “di ieri e di oggi”, alunni ha dato dinamicità e sostanza all’evento.

Una tavola rotonda sul tema “educazione, cultura e identità” ha dato un tono culturalmente elevato alla giornata.

Molteplici i ricordi- tasselli del suo cammino umano, civile, scolastico. Emozione, memoria, gratitudine, rimpianto e sguardo al domani hanno interagito costantemente.

L’inserimento della maestra nella vita parrocchiale e le varie attività vissute, il suo itinerario di formazione, la sua partecipazione ai campi estivi per insegnanti organizzati dall’AIMC nel bosco e l’arricchimento ricevuto dall’associazione professionale, le sue attività a favore delle famiglie, il sostegno a situazioni precarie …. In tutto questo percorso, intenso e pregevole, l’insegnante ha avuto modo di incontrare persone significative con le quali ha potuto interagire per condividere sentieri comuni. “Circulus et amici me fecerunt”, scriveva Cicerone. Io sono quel che sono grazie alla vita associativa e alle relazioni amicali.

La “festa del pensionamento” non è stata un evento autoreferente, ma ha evidenziato e rafforzato lo spirito di comunità e il senso della presenza feconda della istituzione scolastica nella comunità cittadina e oltre.

Giovanni Perrone

sabato 13 settembre 2025

SALVI NELLA CROCE

 

Esaltazione della santa croce

Nm 21,4b-9; Sal 77 (78); Fil 2,6-11; Gv 3,13-17


Commento di Ester Abbattista

Il Vangelo di questa domenica ci mette di fronte alla realtà della vita. Come per gli Israeliti nel libro dei Numeri, l’esperienza del vivere non è semplice e nemmeno «leggera». E questo vale per tutti; certo ci sono situazioni estreme, persone che sperimentano sulla propria pelle il dolore, la sofferenza di guerre, carestie e catastrofi naturali come terremoti o inondazioni. Ma anche per chi è «risparmiato» da tali sciagure «la fatica» del vivere si presenta in tutta la sua complessità.

Per quanto possiamo sentirci sicuri economicamente, sappiamo che il denaro non è tutto, e soprattutto non garantisce serenità e benessere profondo; alla fine tutti ci ritroviamo a dover fare i conti con la nostra morte, con la fine della nostra esistenza, e il fatto di avere o meno denaro si riduce all’unica differenza che rimane possibile: una bella e lussuosa bara o un sacco di plastica se non la semplice nuda terra.

Mi viene sempre in mente una persona che ho incontrato diversi anni fa: era una persona economicamente benestante, aveva realizzato un’impresa solida e di successo ma, mi aveva confidato, aveva paura di morire. Era questo il suo dramma interiore che non gli dava pace: la paura della morte. Per sopravvivere a tale paura cercava qualsiasi cosa che gli avrebbe potuto prolungare la vita, era andato persino diverse volte in Cina per acquistare un certo tipo di bacche che avrebbero avuto la caratteristica di procurare longevità. Non so se questa persona sia oggi ancora in vita o meno, ma mi è rimasto dentro il suo disperato desiderio di essere salvato dalla morte, il desiderio di una salvezza che il suo denaro non poteva comprare.

Un tempo, fin quando si era giovani la morte sembrava essere una cosa lontana, che riguardava gli altri, i «vecchi» o i pochi sfortunati che per un incidente o una malattia cadevano prima lungo il percorso. Questa però è l’esperienza di chi giovane non lo è più; non credo, infatti, che oggi per i giovani sia ancora così. Non conosco le statistiche dei suicidi giovanili, ma ci sono alcuni indizi che mi fanno pensare che anche per i nostri giovani il limite della morte stia diventando un problema da «anestetizzare», a volte proprio suicidandosi, magari on-line per sopravvivere per sempre nella rete.

Ritornando quindi alla «fatica del vivere» da cui nessuno è esente, ciò che emerge è proprio la fragilità di questa vita, dove non basta avere da mangiare, dove, come i serpenti nel deserto, tutto ci causa insicurezza, vulnerabilità, dolore. Per far fronte alle insidie del deserto Mosè, per ordine di Dio, costruisce un serpente di bronzo appeso a un palo: guardare quel serpente significa essere salvati dai morsi dei serpenti veri.

Questa immagine viene ripresa poi nel Vangelo dove il «serpente innalzato» è Gesù stesso morto in croce. E anche in questo caso l’invito è lo stesso: alzare gli occhi, guardare e credere. Non si tratta di una magia o di un qualcosa di miracoloso, ma di un cambio paradigmatico di visione non tanto esteriore quanto interiore. Non basta infatti alzare gli occhi, lo sguardo, ma ciò che fa la differenza è proprio «credere» che quel serpente di bronzo, che quel Gesù crocifisso, faccia la differenza.

Cerchiamo dunque di capire in che cosa consiste questa differenza. Prima di tutto va forse sottolineato che in entrambe le scene, sia quella nel deserto con Mosè e i serpenti che in quella del crocifisso, non viene annullato il pericolo, l’origine e la minaccia di quel male mortale. I serpenti non spariscono dalla scena, così neanche i soldati romani e chi con loro ha permesso la crocifissione di Gesù, Pilato in primis. Non viene annullata la fragilità della condizione umana, la vulnerabilità e la fatica del vivere che essa comporta, ma ancora di più non viene annullata la morte; ciò che avviene è un cambiamento di prospettiva, potremmo dire di «piano di visione», che proietta chi guarda in una dimensione diversa, una dimensione di salvezza.

La fede in definitiva è proprio questo: credere, essere capaci di aprirsi a una dimensione che, pur appartenendo a questa realtà, l’attraversa, la supera, la «squarcia» e permette di cogliere quel barlume di luce che morte non conosce. L’esperienza di quella luce trasforma gli ambiti ristretti della vita, non elimina il dolore, la fatica, la morte, ma àncora il proprio sguardo verso quell’«oltre» che questa stessa realtà racchiude.

È proprio vero che la morte è il limite invalicabile della vita, la fine del tutto? Se sì, allora è bene che il nostro sguardo sia rivolto in basso, facendo attenzione ai serpenti che attanagliano i nostri piedi nella speranza che il loro morso ci colga il più tardi possibile; se no, certo cercheremo sempre di evitare i serpenti, ma cercheremo soprattutto di tenere lo sguardo rivolto verso quella luce, lasciando che il nostro cuore si colmi di quel respiro di speranza che riempie di senso questa nostra «fatica» di vivere.

IL REGNO

Immagine: Pieter Degrebber, Mosè e il serpente di bronzo

WORLD DREAM DAY

 

Sognare il futuro:

 le parole dei Papi 

che esortano 

a non smettere

 di sognare

Il 25 settembre si celebra la Giornata mondiale dei sogni, istituita nel 2012 per incoraggiare persone, famiglie e comunità a dedicarsi di più ai loro obiettivi. Il tema del sogno si è intrecciato, in più occasioni, con discorsi e riflessioni dei Pontefici

-       - di   Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano

La giornata World Dream Day è un’occasione per spronare uomini e donne, nonostante possibili difficoltà ed ombre, ad inseguire i propri sogni. Il punto di partenza è una visione del futuro che, attraverso l’impegno e il sacrificio, può diventare realtà. Quando si raggiunge un obiettivo, il sogno è una speranza tramutata in qualcosa di concreto. Quello del sogno è anche un tema che i Papi hanno affrontato nel loro magistero. In questa pagina ripercorriamo alcune di queste riflessioni che si alternano con frasi di pensatori, filosofi, scrittori.

"Questo è il nostro tempo. 

Sogniamo insieme un futuro di felicità" - Papa leone XIV


Non perdere la capacità di sognare

Durante la visita in Slovacchia, incontrando i giovani il 14 settembre del 2021 nello Stadio Lokomotiva di Košice, Papa Francesco li esorta a sognare: "Quando sognate l’amore, non credete agli effetti speciali, ma che ognuno di voi è speciale, ognuno di voi. Ognuno è un dono e può fare della vita, della propria vita, un dono. Gli altri, la società, i poveri vi aspettano. Sognate una bellezza che vada oltre l’apparenza, oltre il trucco, al di là delle tendenze della moda. Sognate senza paura di formare una famiglia, di generare ed educare dei figli, di passare una vita condividendo tutto con un’altra persona, senza vergognarsi delle proprie fragilità, perché c’è lui, o lei, che le accoglie e le ama, che ti ama così come sei. Questo è l’amore: amare l’altro come è". Non si deve “perdere la capacità di sognare il futuro”, spiega poi Francesco nella meditazione il 18 dicembre del 2018 durante la Messa a Casa Santa Marta. San Giuseppe può essere un riferimento per ogni cristiano: a lui “chiediamo la grazia di saper sognare cercando sempre la volontà di Dio nei sogni, e anche la grazia di accompagnare in silenzio, senza chiacchiere”. Nel videomessaggio del 2016 ai giovani cubani, il Pontefice si sofferma sul “desiderio di sognare”. “Per essere portatori della speranza - sottolinea Papa Francesco - è necessario che non perdiate la capacità di sognare. Ricordatevi che nell’oggettività della vita deve entrare questa capacità di sognare e che chi non ha la capacità di sognare è rinchiuso in sé stesso. Aggiungerei ancora: chi non ha la capacità di sognare, è già andato in pensione”.

Sogni ispirati dalla bellezza

I sogni possono anche essere alimentati dalla bellezza, dai linguaggi dell’arte, della musica. Incontrando gli artisti il 21 novembre del 2009 nella Cappella Sistina, Papa Benedetto XVI sottolinea che il mondo “rischia di cambiare il suo volto a causa dell’opera non sempre saggia dell’uomo”. “Che cosa - chiede il Pontefice - può ridare entusiasmo e fiducia, che cosa può incoraggiare l’animo umano a ritrovare il cammino, ad alzare lo sguardo sull’orizzonte, a sognare una vita degna della sua vocazione se non la bellezza?”. “Voi sapete bene cari artisti, che l’esperienza del bello, del bello autentico, non effimero né superficiale, non è qualcosa di accessorio o di secondario nella ricerca del senso e della felicità, perché tale esperienza non allontana dalla realtà, ma, al contrario, porta ad un confronto serrato con il vissuto quotidiano, per liberarlo dall’oscurità e trasfigurarlo, per renderlo luminoso, bello”.

“Credo che solo una cosa renda impossibile la realizzazione di un sogno: la paura di fallire. (Paulo Coelho)”

Sogni da tramutare in capolavori

I sogni sono anche il frutto di un’opera da realizzare giorno dopo giorno. Durante la visita pastorale a Genova Papa Giovanni Paolo II il 22 settembre del 1985, rivolge queste parole ai giovani radunati nel Palazzo dello sport: “È Pietro, roccia per chiamata divina, come dice anche il canto che è stato composto per questa occasione, che vi esorta a non appiattirvi nella mediocrità, a non assuefarvi ai desideri mondani, a non voler vivere solo a metà, con aspirazioni ridotte o, peggio, atrofizzate. Il Papa è venuto per invitarvi al cammino, alla novità continua da cercare dentro di voi, con la vostra stessa vita. Giovani genovesi, non lasciatevi vivere, ma prendete nelle vostre mani la vostra vita e vogliate decidere di farne un autentico e personale capolavoro!”.

“La vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro. Leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare. (Arthur Schopenhauer)”

Investire nei sogni

I sogni realizzati sono figli di impegno e spirito di sacrificio. All’Angelus del 17 settembre del 1978Papa Giovanni Paolo I ricorda che dalle scuole esce “la classe dirigente di domani”, tra cui “ministri, deputati, senatori, sindaci, assessori o anche ingegneri, primari”. “Il generale Wellington, quello che ha vinto Napoleone - sottolinea in quell’occasione il Pontefice - ha voluto tornare in Inghilterra a vedere il collegio militare dove aveva studiato, dove si era preparato, e agli allievi ufficiali ha detto: ‘Guardate, qui è stata vinta la battaglia di Waterloo’. E così dico a voi, cari giovani: avrete delle battaglie nella vita a 30, 40, 50 anni, ma se volete vincerle, adesso bisogna cominciare, adesso prepararsi, adesso essere assidui allo studio e alla scuola”.

“Un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso (Nelson Mandela)”

I Santi ci fanno sognare

I sogni si legano inoltre alle testimonianze scaturire da percorsi di vita tracciati nel solco della santità. Nella solennità di Tutti i Santi, il primo novembre del 1969Papa Paolo VI all’Angelus afferma che i Santi “ci fanno sognare”. “Essi ci mandano questo consolante messaggio: è possibile e lo confermano con i loro esempi, con la loro fraterna intercessione. Ci insegnano quali sono i veri valori indispensabili: quelli della pietà, quelli della bontà. Ci fanno sognare i Santi. Ma non sono sogni. È una visione ch’essi ci aprono davanti, la visione del cielo; del cielo sopra la terra; del cielo dove con Cristo campeggia la Regina del cielo, alla quale diciamo il Nostro Angelus”.

“Non sono niente. Non sarò mai niente. Non posso volere d’essere niente. A parte questo, ho in me tutti i sogni del mondo. (Fernando Pessoa)”

Sogni da Assisi al mondo

I sogni possono anche diventare realtà. Papa Giovanni XXIII, rivolgendosi il 4 ottobre del 1962 ai fedeli riuniti presso la Basilica inferiore ad Assisi, ricorda il cammino percorso da San Francesco. “Il possesso di Dio fu dapprima il sogno, poi la meta di Francesco d'Assisi. Da giovanetto egli aveva tutto, ma niente gli bastava. Volle darsi al Signore, per possedere Dio quanto più intensamente possibile; e per arrivare a tanto, egli si spogliò di tutte le cose terrene”. “San Francesco, aggiunge Papa Roncalli, ha riassunto “in una sola parola il ben vivere, insegnandoci come dobbiamo valutare gli avvenimenti, come metterci in comunicazione con Dio e con i nostri simili”. Questa parola “dà il nome a questo colle che incorona il sepolcro glorioso del Poverello: Paradiso, Paradiso!”. 

“Fidatevi dei sogni perché in loro è nascosta la porta dell'eternità. (Kahlil Gibran)”

Progetti da realizzare

I sogni possono diventare la realizzazione di progetti di vita. Rivolgendosi a giovani sposi durante l’udienza generale del 27 gennaio del 1943 , Papa Pio XII si sofferma sulla “virtù del focolare domestico”. La famiglia è un focolare acceso con il matrimonio. Ed è aperto al futuro. “Il focolare. Quante volte - afferma il Pontefice - specialmente dacché avete pensato alle nozze, dal tempo del vostro fidanzamento, voi, diletti sposi novelli, avete sentito risonare questa parola alle vostre orecchie nel coro delle felicitazioni e degli auguri dei vostri parenti e dei vostri amici! Quante volte essa è salita spontaneamente dal vostro cuore alle vostre labbra! Quante volte vi ha riempiti di una dolcezza ineffabile, compendiando in sé tutto un sogno, tutto un ideale, tutta una vita”.

“Siamo fatti anche noi della materia di cui sono fatti i sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita. (William Shakespeare)”

Sogni premonitori

I sogni possono anche essere premonitori. Nella lettera del 1934 di Papa Pio XI che proclama santo don Giovanni Bosco, si ricorda come i passi della vita possono essere preceduti dall’esperienza del sogno. “Ma più che d’ogni altro preferiva occuparsi dei ragazzi e dei giovani, specialmente di quelli che, abbandonati dai genitori, trascinavano una vita oziosa ed errabonda tra le insidie della strada, senza che alcuno pensasse a parlare loro di Dio e li educasse all’onestà del vivere. E ritenendo che proprio questa fosse la particolare missione dalla Provvidenza di Dio assegnatagli, già, come si narra, prevista in sogno fin dalla sua fanciullezza, e cioè condurre sulla via della salute i ragazzi specialmente dell’infima plebe, dopo matura riflessione, con generoso animo stabilì di consacrarsi completamente all’attuazione di quest’opera, tanto più che già prevedeva quanto essa fosse per giovare all’intera società civile”.

“Quando sogna, l’uomo è un gigante che divora le stelle. (Carlos Saavedra Weise)”

Sogni degli anziani

I sogni scaturiscono anche dalla voce preziosa degli anziani, con il loro fondamentale ruolo di testimoni di vita e di fede. Gli anziani, come ha più volte ricordato Papa Francesco sono la memoria, le radici dei popoli, l'anello di congiunzione tra le generazioni.  Nel videomessaggio per la prima giornata mondiale dei nonni e degli anziani , il Pontefice scrive: “I sogni sono intrecciati con la memoria. Penso a quanto è preziosa quella dolorosa della guerra e a quanto da essa le nuove generazioni possono imparare sul valore della pace. E sei tu a trasmettere questo, che hai vissuto il dolore delle guerre. Ricordare è una vera e propria missione di ogni anziano: la memoria, e portare la memoria agli altri”. I sogni sono un ponte tra generazioni, si intrecciano con speranze e progetti. Per questo vanno custoditi e non si deve smettere di sognare.

Vatican News

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VIRTU' TEOLOGALI


 Fede, speranza e carità non sono separate né in una rigida successione, ma si incrociano e sostengono l’un l’altra nel corso di tutta la nostra vita. 

 

 -

di Enzo Bianchi 

 Abbiamo cercato di comprendere almeno un poco come fede, speranza e carità, le tre virtù o forze che vengono da Dio e sono dette “teologali”, siano essenziali nel cammino di vita cristiana. Sarebbe però un errore dovuto a scarsa esperienza e a superficialità nella lettura della propria esperienza spirituale fare una rigida separazione tra di loro o vederle in successione come se ognuna generasse la successiva. In realtà nella nostra vita umana che procede, come diceva Gregorio di Nissa, “di inizio in inizio per inizi senza fine”, e anche per regressioni e cadute, le tre virtù si incrociano sovente e l’una sostiene l’altra. Non ha nessun senso scrivere che al prete è più necessaria la speranza della fede... questa è un’idiozia. Santa Teresina sul letto di morte confessava alla priora: “Madre, non credo più!”, e nello stesso tempo esclamava: “Mio Gesù, come vi amo!”. In quella morte era l’amore che suppliva alla distanza dalla fede! 

 Pensando a noi e alla nostra esperienza posso dire che non è vero che diventando vecchi la fede si rafforza: quasi sempre si fa più dubbiosa anche se si conserva fino alla fine, ma l’amore per il Signore diventa ardente, desiderio di raggiungerlo per essere con lui per sempre. La speranza spera al di là della morte e più si avvicina alla morte più può crescere, ma questa crescita è il lavoro dell’ostetrica che prepara e aiuta ciò che verrà! Per questo resta fondamentale nella vita umana l’attesa della venuta del Signore: “Egli viene! Egli è alle porte!”. Il cristiano non solo lo crede ma lo invoca e lo annuncia agli altri perché questa è Buona notizia, Evangelo! È dare speranza, è un grande atto di carità!

 

Famiglia Cristiana

 

UN ASSASSINIO PREMEDITATO

Immagine che contiene Viso umano, persona, vestiti, uomo

Il contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.    L’assassinio di Kirk e la perversa alternativa dell’Occidente






-di Giuseppe Savagnone 


Un atto di violenza che ferisce la democrazia

La morte di un essere umano è sempre una tragedia, soprattutto se si tratta di un giovane di 31 anni con una graziosa moglie e due figli. Ma il brutale assassinio di Charlie Kirk assume un significato particolarmente drammatico agli occhi di chiunque abbia a cuore la democrazia, perché è l’indice di un clima esasperato di conflittualità che la avvelena, e non solo negli Stati Uniti.

Da questo punto di vista, appare appropriato il commento del nostro ministro degli Esteri, Tajani: «La violenza verbale e la criminalizzazione del pensiero altrui possono accendere lugubri pensieri in menti malate che, all’insegna dell’odio, possono compiere gesti criminali come quelli che hanno provocato morte del blogger americano Charlie Kirk. Chi la pensa diversamente da noi non è mai un nemico, ma un avversario con cui confrontarsi».

Kirk è stato ucciso mentre dialogava con gli studenti di un campus universitario, proseguendo la missione a cui si era consacrato con grande successo, che era di rimettere in discussione la cultura “woke” dominante, spesso in forme intolleranti, nelle università americane. Era un uomo vicinissimo a Donald Trump, e costituiva quasi una “cinghia di trasmissione” tra il Tycoon e il mondo giovanile.

Ma questo non giustifica le accuse isteriche che sono state immediatamente rivolte alla sinistra da politici e giornalisti della destra. Come quelle urlate a Capitol Hill, ai democratici presenti, dalla deputata repubblicana Anna Paulina Luna, secondo cui «sono stati loro a causare tutto questo». Altri sono andati ancora oltre. Jesse Watters, conduttore di Fox News (emittente molto vicina a Trump), ha dichiarato: «Vendicheremo la morte di Charlie nel modo in cui lui avrebbe voluto». E il giornalista Matt Forney si è spinto fino a scrivere: «È tempo di una repressione totale contro la sinistra. Ogni politico democratico deve essere arrestato e il partito va bandito».

In realtà gli esponenti democratici sono stati unanimi nel condannare l’omicidio. «Non c’è posto nel nostro Paese per questo tipo di violenza. Deve cessare immediatamente», ha dichiarato l’ex presidente democratico Joe Biden su X. E sulla stessa linea si sono pronunziati tutti gli altri leader dell’opposizione.

Ma chi non è sembrato tenerne conto è stato soprattutto Trump. Il presidente ha definito Kirk una «vittima delle retorica della sinistra radicale», che «da anni paragona meravigliosi americani come Charlie ai peggiori criminali della storia», creando un clima d’odio: «Questa retorica è direttamente responsabile per il terrorismo che stiamo vedendo nel Paese e deve cessare ora».

Trump ha anche chiamato in causa la libertà di pensiero e di espressione: «La violenza e l’omicidio», ha detto, «sono le tragiche conseguenze della demonizzazione di coloro con cui non si è d’accordo», ha detto, accusando ancora una volta la «sinistra radicale» di incitare all’odio e al caos.

Non si può evitare l’impressione che il capo della Casa Bianca stia approfittando dell’uccisione di Kirk per ribadire e potenziare la sua politica di militarizzazione del paese, già in atto con il dispiegamento della Guardia nazionale nelle principali città americane, per lo più amministrate dai democratici. Una politica giustificata dal presidente come necessaria a contrastare un preteso aumento della criminalità, smentito però nettamente dalle statistiche, che parlano, invece, di una sua riduzione.

Peraltro Trump, richiamando precedenti casi di violenza politica, non ha detto una parola proprio sul più grave e recente di questi episodi, quello dell’assassinio, nello scorso giugno, di Melissa Hortman, figura di spicco del partito democratico in Minnesota, ritrovata uccisa con suo marito nella loro abitazione.

Secondo le prime indagini, un uomo armato, travestito da agente di polizia, avrebbe compiuto quello che il governatore del Minnesota Tim Walz ha definito «un omicidio politico deliberato», che però ha avuto sui media e nell’opinione pubblica una risonanza immensamente inferiore a quello di Kirk e ora non è stato neppure menzionato nella ricostruzione di Trump.

La gratitudine a Dio dell’on. Bignami

Anche in Italia – paese ormai strettamente legato agli Stati Uniti dalla sintonia fra Trump e la nostra presidente del Consiglio – l’assassinio di Kirk ha scatenato una  campagna di demonizzazione degli esponenti della sinistra. Il capogruppo di FdI,  Galeazzo Bignami, in questa occasione, li ha definiti «impregnati di odio, livore, rancore. Ringrazio Dio di non avermi creato come loro».

«Morto a destra, festa a sinistra», è il titolo di «Libero» sull’accaduto. In prima pagina il quotidiano riporta anche un’immagine, apparsa sui social, in cui Kirk è rappresentato a testa in giù, con sovrimpressa l’indicazione «-1». E «Il Giornale», sotto il titolo «Uccisa la libertà di parola», mette: «La sinistra giustifica l’assassino. Meloni: non ci intimidiscono».

In realtà, i commenti della sinistra politica sono stati unanimemente di netta condanna. Valga per tutti quello di Elly Schlein: «L’uccisione di Charlie Kirk è drammatica e scioccante. In una democrazia non può e non deve trovare alcuno spazio la violenza politica, che va sempre condannata in modo netto a prescindere dalle idee di chi colpisce».

Il principale bersaglio delle accuse della destra, però, sono stati gli intellettuali, in particolare Roberto Saviano, che ha accostato l’assassinio di Charlie Kirk all’incendio del Reichstag, nel 1933, strumentalizzato da Hitler di proclamare lo stato di emergenza e reprimere i diritti civili, aprendo la strada alla dittatura nazista. Preoccupazione legittima, alla luce di quanto prima abbiamo visto.

«Ma» – ha subito sottolineato lo scrittore – «le parole sono parole e la violenza è violenza (…) Non esistono omicidi che difendono idee: il sangue versato indebolisce sempre la democrazia». Precisazione che, in verità, smentisce inequivocabilmente la tesi di una sua compiacente connivenza con l’accaduto. Con buona pace di Meloni, a quanto pare nessuno vuole intimidirla.

Anzi, se di violenza si deve parlare…

Ritorna la domanda: ma è davvero la sinistra – o, almeno, solo la sinistra – ad essere responsabile del clima di violenza che ha reso la democrazia-simbolo dell’Occidente «una polveriera» – secondo la definizione di Robert Pape, professore di scienze politiche all’Università di Chicago – , portandola a quella che Newt Gingrich, ex speaker repubblicano della Camera, ha chiamato una «guerra civile culturale»?

Forse, se si parla di violenza, bisognerebbe tenere conto del ruolo che nei suoi effetti, spesso drammatici, ha il libero commercio delle armi, sancito dal Secondo emendamento della Costituzione americana, fortemente voluto dalle industrie belliche e sostenuto a spada tratta dai repubblicani contro la “sinistra” democratica.

Non può non impressionare, a questo proposito, che lo stesso Charlie Kirk abbia sostenuto, poco tempo prima della sua uccisione, che «alcune morti causate dalle armi da fuoco sono un costo accettabile da pagare per poter mantenere il Secondo emendamento».

Ma soprattutto è inevitabile confrontare le parole di Trump, riguardo alla violenza del linguaggio e alla demonizzazione degli avversari politici, con il suo stile abituale. A cominciare dal minaccioso avvertimento lanciato, già prima della sua rielezione, il 17 marzo 2024, dal palco dell’Ohio: «Se perdo, sarà un bagno di sangue».

Per proseguire con le promesse di vendetta e punizione dei suoi “nemici”,  più volte ripetute durante le ultime settimane della campagna elettorale, col giuramento di estirpare «il nemico interno», precisando che avrebbe persino usato l’esercito per dare la caccia ai suoi avversari politici.

E ha mantenuto la parola. Abbiamo appena detto dell’uso sproporzionato e allarmate dell’esercito. Ma è tutto il comportamento del nuovo presidente che conferma le sue minacce.

«Stiamo certamente assistendo a un’ondata di vendette da parte di Trump che non avevamo mai visto prima» ha constatato un osservatore. Andando ben al di là del fisiologico uso dello Spoils system, ha epurato il governo federale e l’esercito, ha tagliato i fondi a università, media, istituzioni culturali e persino squadre sportive. Ha insultato pubblicamente il suo immediato precessore, Biden e, a luglio, in un post sul suo social «Truth», ha condiviso un video generato dall’intelligenza artificiale, in cui era rappresentato l’altro presidente democratico, Barack Obama, ammanettato da agenti dell’FBI e trascinato fuori dallo Studio Ovale.

Per non parlare della promessa campagna di «deportazione» di undici milioni di latinos immigrati (in gran parte, peraltro, ormai inseriti nella società americana), fatti oggetto di una vera e propria caccia all’uomo strada per strada, di cui il Tycoon ha ogni tanto voluto dare prova postando compiaciuto le immagini di gruppi di loro in catene e in ginocchio.

La crisi più profonda

A questa causa Charlie Kirk ha consacrato senza riserve le sue grandi doti di intellettuale e di comunicatore, sostenendone efficacemente le ragioni in innumerevoli dibattiti. E sposando, così, anche le scelte del presidente americano in politica estera, a cominciare dal sostegno incondizionato a Israele in quello che ormai molti, anche ebrei israeliani, definiscono un genocidio.  

Da qui le addolorate condoglianze del premier Netanyahu, che ha dichiarato: «Charlie Kirk è stato assassinato per aver detto la verità e difeso la libertà. Un amico coraggioso di Israele, ha combattuto le menzogne e si è eretto a difesa della civiltà giudeo-cristiana». Condoglianze a cui si è unito il ministro estremista Ben Gvir, che ha commentato: «La collusione tra la sinistra globale e l’Islam radicale è il più grande pericolo per l’umanità oggi».

Forse è proprio in questi ultimi riferimenti la chiave ultima per capire la posizione di Charlie Kirk. Come ha sottolineato Antonio Socci, su «Libero», in un editoriale dal titolo «La lezione cristiana del trumpiano ucciso», Kirk era «un devoto cristiano evangelico». È noto che le sette evangeliche sono tra le principali sostenitrici di Trump, che vedono in lui la sola alternativa alla cultura “woke”, sostenuta da molti democratici, e alla crescente influenza dell’islam attraverso i movimenti migratori. Anche molti cattolici – emblematico il caso del vicepresidente Vance – si sono schierati dalla sua parte.

Non è un caso che i due successi elettorali di Trump siano stati ottenuti rispettivamente nei confronti di Hillary Clinton e di Kamala Harris, entrambe esplicite e accanite sostenitrici della liberalizzazione totale dell’aborto, in linea con la cultura assolutizzata dei diritti e in radicale contrasto con la visione cristiana della persona. 

Purtroppo, per quanto lontana sia dal vangelo la visione individualista e libertaria   della sinistra, nulla può autorizzare a definire quella di Kirk, per usare le parole di Socci, una «lezione cristiana». Come non lo è quella dei politici che anche in Italia amano sventolare il vangelo ed esibire la loro adesione alla prospettiva cattolica.

Interrogato dai giornalisti, alla vigilia delle ultime elezioni americane, su quale dei due candidati preferisse, papa Francesco ha risposto semplicemente: «Ambedue sono contro la vita, sia quello che butta via i migranti sia quello che uccide i bambini». Senza parlare delle povere vittime di Gaza…

L’assassinio di Charlie Kirk, per la sua violenza, è certamente il sintomo allarmante di una crisi della civiltà e della democrazia dell’Occidente. Ma forse ancora più grave, perché più profondo e meno percepito dall’opinione pubblica e dagli osservatori, è il ridursi di destra e sinistra – negli Stati Uniti e da noi  – a questa perversa alternativa, che esclude non solo il vangelo, ma la nostra stessa umanità.

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