mercoledì 17 dicembre 2025

PRESEPE A SCUOLA ?

 

PRESEPE

 E CROCIFISSO 

NON OFENDONO NESSUNO



Caro Aldo,

i segni cristiani stanno scomparendo ovunque. Non vi è più un crocifisso nelle scuole, negli uffici pubblici (raramente) se ne intravede qualcuno caso mai nascosto da un quadro o calendario. Nei tempi forti del nostro Cristianesimo (Avvento Natale-Quaresima Pasqua) per non urtare la sensibilità di altre religioni non si può più fare il presepe nelle scuole, guai a proporlo. Non si dice più calendario dell’Avvento ma calendario natalizio. Noi cristiani dobbiamo adeguarci alle sensibilità altrui, quindi dobbiamo togliere ciò che identifica il nostro credo. Niente segni cristiani. Lei che ne pensa di tutto questo?

Luca Barretta

 

Risponde Aldo Cazzullo

Caro Luca,

Le dico la verità: sono affezionato ai simboli cristiani, anche nei luoghi pubblici. So che in Francia ad esempio non è così, fin dall’Ottocento una legge impone la laicità anche negli aspetti simbolici. E sicuramente la laicità dello Stato è un valore importante, a maggior ragione adesso che la popolazione italiana e in genere europea non è più certo rappresentata esclusivamente da cattolici: avanzano altre fedi, soprattutto avanza la secolarizzazione.

Tuttavia, ripeto, sarò di parte, ma non capisco che cosa possa esserci di offensivo in un uomo crocifisso: non un persecutore ma un perseguitato, non un carnefice ma una vittima. È vero che in nome della croce si sono commessi orribili delitti, ma non è certo colpa di Gesù, una figura luminosa, di grande interesse anche per le altre religioni. Ricordiamoci sempre che Gesù era ebreo, anche se per gli ebrei è un falso Messia, e che la sua figura è molto importante per l’Islam. Ci sono punti impressionanti di contatto tra la storia di Gesù e quella di Buddha, e se è per questo anche con quella di San Francesco.

È proprio Francesco a inventare il presepe. Il bue e l’asinello nei Vangeli approvati dalla Chiesa non ci sono; li inventa lui, perché ama talmente tanto gli animali che vuole che anche loro abbiano una parte nel presepe, nella rappresentazione della nascita di Gesù.

Il presepe nasce a Greccio nel 1223, in un contesto che più umile non si potrebbe, tra pastori veri che recitano in qualche modo se stessi, che partecipano alla grande speranza della nascita del Salvatore. Davvero non capisco cosa ci possa essere di offensivo in tutto questo. Dio è uno solo per i cristiani, per gli ebrei, per i musulmani. Personalmente avverto il grande fascino dell’ebraismo e dell’Islam, e credo che il dialogo tra le culture e le fedi sia proficuo; noi cristiani possiamo e dobbiamo affrontarlo consapevoli di noi stessi, dei nostri principi, dei nostri valori. Compresa la fede, per chi ha il dono di averla. Per secoli i diritti umani e la storia della Chiesa hanno seguito percorsi divergenti.

Ma ormai è nata una civiltà umanista e cristiana, che tiene insieme il rispetto dei diritti dell’uomo e della donna e il valore di ogni persona, che è al centro del mondo e della storia. Non a caso si parla di personalismo cristiano. Senza il cristianesimo non si capisce l’Europa, e certo non si capisce l’Italia.

 

Corriere della Sera

INDICAZIONI O PROGRAMMI ?


 FACCIAMO DELL’OBBEDIENZA UNA VIRTÙ

- di Italo Fiorin

Ci sono delle disobbedienze che richiedono la virtù del coraggio, così come ci sono obbedienze servili, dettate dalla paura. E ci sono anche, obbedienze coraggiose e disobbedienze servili. Con le nuove Indicazioni e’ preferibile obbedire o disobbedire?
Il mio parere è che si debba obbedire a ciò che è prescrittivo, ma bisogna essere consapevoli di quello che, da parte del Ministro, è lecito pretendere e di quanto non lo è.
E chi lo decide? La legge 59/97 e il DPR 275/99. Questa normativa, vigente e attualissima , ci dice che le Indicazioni sono prescrittive solo riguardo alle finalità generali dell’istruzione, alle competenze e ai relativi obiettivi, e che si devono insegnare le discipline che propongono. E, per quanto possa risultare sorprendente, le Indicazioni Valditara propongono, proprio come le Indicazioni precedenti, le competenze chiave europee, le competenze disciplinari e i relativi obiettivi, che, pur se spesso malissimo formulati, sono più o meno gli stessi. Sono questi i riferimenti che vanno rispettati. Punto.

Le Indicazioni nuove propongono molte altre cose, da una visione sovranista, identitaria, nostalgica a molteplici suggerimenti contenutistici e metodologici, talvolta prendendo per mano il povero insegnante, evidentemente ritenuto non sufficientemente Magis da saper utilizzare l’autonomia di cui dispone, e bisognoso di essere guidato. Niente vieta di ascoltare questi suggerimenti, di raccogliere le esortazioni e gli auspici degli estensori, di servirsi dei contenuti raccomandati, di inserire nel curricolo Muzio Scevola e la piccola vedetta lombarda, di far studiare a memoria ‘La pioggia nel pineto’.

Ma liberi, liberissimi anche, di non farlo. Perché tutto questo non è prescrittivo.
Chiamare le Indicazioni ‘Programmi’, come fanno il Ministro, Galli della Loggia, altri membri della commissione, e’ sbagliato. E’ la differenza sta nel fatto che i Programmi, coerentemente con un sistema scolastico centralista, chiedevano agli insegnanti di venire ‘applicati’. Le Indicazioni, figlie dell’autonomia, non hanno la medesima funzione omologante, ma sono al servizio della valorizzazione della varietà e diversità delle realtà locali. Gli insegnanti non sono più gli ‘applicati’ dei Programmi, ma una comunità di professionisti.

Nel testo sottoposto al parere del Consiglio di Stato era scritto “le Indicazioni sono il curricolo formale”. Errore gravissimo, da matita rossa. Infatti, ora questa frase è, fortunatamente, sparita. L’unico ‘ curricolo formale’ è il curricolo che, viene elaborato dalle singole istituzioni scolastiche nella loro autonomia, proprio come la legge richiede.

E questa autonomia di scelta non riguarda solo i contenuti, ma anche i valori che ne delineano la visione. Dice, infatti, la norma vigente che il Piano dell’Offerta Formativa “è il documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche ed esplicita la programmazione curricolare”.
Sembrerebbe quasi superfluo invitare ad obbedire alla normativa. La visione culturale, i suggerimenti contenutistici, le raccomandazioni ed esortazioni delle nuove Indicazioni non convincono? Lasciamole a chi le apprezza e le condivide. Ce le proporranno i nuovi libri di testo? Ci saranno pressioni, moral suasion, richiami all’ordine? Possibile, anzi probabile.

Ma noi siamo tenuti ad obbedire alla legge.
Certo, lo sappiamo, per questo tipo di obbedienza ci vorrà coraggio.

martedì 16 dicembre 2025

LA STRAGE DI SYDNEY

 

L'odiosa strage razzista antisemita di Sydney ci lascia una piccola speranza:  l'eroico gesto del fruttivendolo musulmano che disarma a mani nude il terrorista musulmano e salva la vita degli ebrei.  

 

di Enrico Franceschini

 Un passante ha immortalato in un video filmato con il telefono la sequenza in cui Ahmed ha sorpreso l'attentatore e lo ha disarmato impedendogli di uccidere ancora.

 Un fruttivendolo arabo disarma il terrorista antisemita del massacro nel giorno di Hanukkah a Bondi Beach, evitando che l'attentatore faccia ancora più vittime. Un attacco ideato per dividere le comunità religiose in buoni e cattivi, in giusti e dannati, trova nel gesto eroico di un cittadino comune l'ispirazione per ritrovarsi uniti contro quello che dovrebbe essere il nemico di tutti: la violenza dettata dall'odio razziale. L'eroe di questa tragica "festa delle luci" macchiata da tenebre color sangue si chiama Ahmed Al Ahmed: ha 43 anni, è sposato, padre di due figli, gestore di un negozio di frutta e verdura a Sutherland, sobborgo alla periferia di Sidney.

 È stato lui a balzare addosso a uno dei due terroristi, per poi strappargli il fucile e metterlo in fuga, prima di essere ferito dai colpi del complice appostato più lontano. «È ancora in ospedale e non sappiamo cosa stia succedendo in sala operatoria - racconta suo cugino Mustafa - ma i medici dicono che se la caverà. Nelle prossime ore ci permetteranno di visitarlo. È un eroe, davvero un eroe». Le stesse parole usate da Chris Minns, premier dello Stato del South New Galles, del quale fa parte Sidney, rendendo omaggio all'altruistico gesto: «È la scena più incredibile che abbia mai visto. Un uomo inerme si avvicina a un uomo armato, che aveva appena sparato all'impazzata, e da solo lo disarma, mettendo a rischio la propria vita per salvare quella di innumerevoli persone. Ahmed Al Ahmed è un vero eroe. Non ho alcun dubbio che, con il suo coraggio, ha salvato la vita a molta gente».

Ripresa con il telefonino da un testimone, la scena è finita sui social, diventando virale in tutto il mondo. Ahmed si infila tra due vetture parcheggiate, avvicinandosi all'attentatore che ha il fucile puntato sulla folla della spiaggia. Gli arriva addosso da un lato, lo prende per il collo, ingaggia un corpo a corpo riuscendo a togliergli il fucile automatico e poi glielo punta contro. Ma ha il sangue freddo di non sparare a sua volta. Caduto a terra, il terrorista si rialza, zoppicando si allontana. Ahmed allora appoggia il fucile a un albero, per dimostrare alla polizia sopraggiunta nella zona della strage di non essere coinvolto nel commando di attentatori: un altro segno che, pur in frangente drammatico, non ha perso la testa. A quel punto, tuttavia, risuonano altri colpi d'arma da fuoco. Il secondo terrorista continua a sparare, ferendo Ahmed a una mano e a un braccio. Poco più tardi, le forze dell'ordine catturano il terrorista in fuga e uccidono l'altro. Caricato su un'ambulanza, Ahmed viene ricoverato in ospedale, ma i sanitari affermano che non sembra in pericolo di vita.

 Il premier israeliano Netanyahu ha prima parlato di «eroismo ebraico», ma poi si è corretto: «Abbiamo visto l'azione di un coraggioso musulmano». Il tabloid inglese Sun e vari siti di news affermano infatti che Ahmed è musulmano e il nome suggerisce che sia di origine araba. Di sicuro c'è che, nella fuga generale da una spiaggia trasformata in tiro a segno, un uomo di mezza età ha fatto la scelta opposta, rischiando di andare incontro alla morte, inerme, senza altro che le proprie braccia per cercare di immobilizzare un terrorista.

 Una figura in maglietta bianca e calzoni scuri che attacca a mani nude un killer e lo disarma: sembra un film, invece è la realtà. «Un eroe», lo definisce anche il primo ministro australiano Anthony Albanese.

 Un fruttivendolo arabo che insorge in difesa degli ebrei. Una parabola di Hanukkah: un raggio di luce per trafiggere le tenebre.

Da Repubblica

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MATEMATICA IN CRISI

 


Matematica in crisi,

 programmi 

troppo densi.

Serve meno ma meglio: pochi studenti acquisiscono consapevolezza, gli altri restano indietro”

 

-di Vincenzo Brancatisano

 L’insegnamento e l’apprendimento della matematica sono in crisi: solo una minoranza di studenti acquisisce una reale consapevolezza, mentre la maggior parte resta indietro”. Daniele Gouthier, matematico, formatore e autore di ben conosciuti libri di testo scolastici, saggi e non solo, accende un faro su quella maggioranza di studenti che un po’ in tutti gli ordini di scuola fa fatica a capire la matematica, come dimostrano i dati sempre più scoraggianti sugli apprendimenti della materia, un sommerso nel quale si stenta ad agire in maniera efficace. Ma “è a questi sommersi che la scuola deve guardare – insiste Gouthier, che è anche docente al Master in Comunicazione della Scienza della Sissa di Trieste – perché nel mondo del lavoro sempre più matematizzato e in una democrazia fondata su temi tecnico-scientifici non possiamo permetterci cittadini privi di alfabetizzazione matematica”.

 Non si tratta di far diventare tutti matematici o scienziati, o immaginare che tutti siano potenzialmente matematici, come pure spesso si pretenderebbe, in classe, nel momento in cui si esige da tutti la stessa prestazione dimenticando l’esistenza di intelligenze multiple: si tratta semmai di attrezzarsi al meglio per individuare la matematica che serve a quanti matematici non saranno ma che del ragionamento e del pensiero razionale non potranno fare a meno se non a pena di conseguenze personali e di un indebolimento collettivo di una democrazia, che ne risulta incompiuta sul versante della comprensione dei fenomeni sociali e politici. E quando chiediamo a Gouthier di indicarci le cause di tutto questo, lui ne indica due tra le principali: “Programmi troppo densi e affrettati – soprattutto nei primi anni – e insegnanti spesso senza una preparazione matematica profonda, costretti a ripararsi in tecnicismi e regolette”. E allora che cosa servirebbe? “Serve meno ma meglio: serve selezionare pochi contenuti essenziali, lavorati con lentezza, e serve definire i saperi minimi per il cittadino non matematico. Occorre dare voce agli insegnanti, promuovere formazione tra pari e creare spazi di confronto verticale tra diversi ordini di scuola. Solo attraverso dialogo, supporto reciproco e scelte consapevoli è possibile rispondere alla crisi attuale”.

Nei giorni scorsi l’autore ha partecipato a Udine al VI Congresso nazionale della Federazione Italiana Mathesis intitolato “Didattica della matematica nell’era digitale, tra innovazione, creatività e tecnologia”.E domani, Gouthier sarà a Roma dove il suo libro “Matematica fuori dalle regole” è finalista al Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica, promosso, tra gli altri, da CNR e RAI Scuola. Un’eccezione, visto che i libri di matematica raramente sono protagonisti di questa fase finale.

Professor Daniele Gouthier, quali sono i problemi della didattica della matematica nell’era digitale, tanto per riprendere il titolo del Congresso di Udine?

L’era digitale aggiunge aggravanti ma i problemi sono analogici e tradizionali e poco figli dell’era digitale.

Qual è il problema più urgente?

È sempre più importante formare alla matematica i non matematici. Il mondo del lavoro richiede competenze. La democrazia richiede una consapevolezza che permetta ad esempio di leggere dati e grafici, almeno alcuni. Quindi c’è bisogno di una riflessione – che non vedo – su quale didattica della matematica dare all’ottanta per cento della popolazione che non ha fatto una solida consapevolezza matematica ma che ha diritto ad avere strumenti di pensiero. A questo proposito io vedo quattro problemi. Il primo è di ordine teorico: quale matematica serve ai cittadini non matematici di domani? Quando lo studente sarà diventato adulto di cosa avrà bisogno?

E quali sono le risposte date dalla comunità scientifica o scolastica?

Queste riflessioni non si fanno o, nel miglior dei casi, non vengono a galla, non sono portate a compimento.

Perché non si fanno?

Il perché onestamente non lo so. Quello che io vedo nella parte più matematica della comunità è che c’è un’attenzione forte per gli aspetti tecnici, molto specialistici, e poca per quelli culturali. La matematica ha più dimensioni: tra queste, una funzionale e una culturale. È fatta dagli uomini in epoche e luoghi diversi, ma questo a scuola non ha cittadinanza. Tutto è ridotto a tecnica e operatività. Ci sarebbe anche una dimensione etica: la matematica ci insegna ad avere comportamenti e chiavi di lettura del mondo che hanno un valore: mettere al centro l’uguaglianza, ad esempio, astrarre e generalizzare, per non ridurre tutto e sempre alla sola esperienza individuale, aneddotica. Io vedo nei matematici un’attenzione maggiore alla dimensione specialistica e molto meno a quelle culturale ed etica e questo si riflette anche sulla mancata riflessione su cosa serve ai cittadini non matematici.

Come entra la scuola in questa riflessione?

Qui c’è un punto più interno alla scuola. Io respiro una grande fatica: alla scuola viene chiesto troppo, di tutto. La scuola è stata sovraccaricata di tante richieste e di tante aspettative, mentre avremmo bisogno di un insegnamento più leggero. Un insegnamento che consenta di sostare, cioè di stare sui contenuti.

Perché è importante sostare?

Perché esistono molte forme di intelligenza. In un’aula ci sono quelli che sono bravi con il calcolo, quelli bravi con la rappresentazione, quelli con l’argomentazione e così via: dobbiamo dare spazio a tutte queste persone. Se aumentiamo i contenuti inevitabilmente corriamo dietro agli aspetti tecnici e selezioniamo come bravi in matematica quelli che sono bravi nel calcolo e nella tecnica. E questo penalizza l’apprendimento.

Eppure, molti docenti si limitano a dire che è sempre stato così.

È sempre stato così ma oggi è molto pesante. Se va a vedere i programmi dei licei dei nostri tempi c’erano molti meno contenuti, meno esercizi. Un tempo nei libri c’erano circa 5.000 esercizi, oggi un libro della scuola media ne ha 15.000 e questo non consente di distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è: occorre alleggerire.

E com’è vissuta questa istanza di alleggerimento da parte della comunità?

Tutti sono d’accordo quando si parla degli ordini di scuola che precedono il proprio. Poi quando vado dagli insegnanti della scuola media mi sento dire che occorre fare tanto perché servirà alle superiori. E alle elementari è lo stesso. Nessuno è disposto a rivedere la propria programmazione in modo da restringere i contenuti, ognuno pensa che lo debbano fare gli altri, e alla fine non lo fa nessuno.

Veniamo al terzo punto

Il terzo punto, collegato a una didattica più leggere e più lenta, è che dobbiamo metterci d’accordo sui saperi minimi. Il Ministero dell’Istruzione dice: devi muoverti in questo campo, ma non dice che cosa devono sapere al minimo i ragazzi alla fine di ogni ciclo. Ad esempio, le potenze e le radici quadrate sono da sapere alle medie oppure no? Con che profondità? A che livello? E alla primaria è importante conoscere la forma della figura o è importante calcolare l’area? Dobbiamo individuare i saperi minimi altrimenti si fa sempre di più, con conseguente ansia da prestazione.

Spesso sono le famiglie a chiedere di più, specie alla primaria, quando i genitori si accorgono che in qualche altra classe parallela a quella frequentata dai figli si è più avanti nel programma. È così?

Proprio così. La questione delle famiglie si collega tra l’altro alla sicurezza di sé degli insegnanti, che si sentono in questo momento sotto attacco proprio delle famiglie. E se non concordiamo sui saperi minimi gli insegnanti si livellano verso l’alto sulle Indicazioni nazionali e sui libri di testo, che poi sono la stessa cosa. E questo non va perché si finisce per pensare che si debba fare tutto quello che c’è scritto nel libro.

Questo succede specialmente quando i docenti sono alle prime armi.

È vero o quando hanno, per ragioni legittime di formazione e di storia di vita, una consapevolezza matematica non amplissima.

Veniamo al quarto aspetto.

Il quarto punto è che la matematica è una disciplina nella quale molti di coloro che la insegnano non si sentono o non sono adeguati a farlo.

Che cosa intende?

Le maestre hanno spesso una formazione matematica debole e chi insegna alle medie ha una laurea in scienze biologiche, in chimica, in scienze naturali, in scienza della nutrizione, cioè ha una formazione matematica poco solida e spesso insegna sulla difensiva, essendo a disagio. E questo in un futuro prossimo succederà anche alle superiori, perché il mercato del lavoro attira i laureati a fare lavori diversi dall’insegnamento, attrae verso professioni con un miglior riconoscimento economico e sociale. Sembra che svolgere un lavoro di tipo matematico in un altro contesto sia meglio che farlo a scuola: io non la penso così ma quello che conta, ci piaccia o meno, è la considerazione sociale. E dunque come facciamo ad aiutare le persone che insegnano matematica – verso le quali dobbiamo avere rispetto e gratitudine per il ruolo che ricoprono – a insegnarla in modo significativo? È un problema che ci dobbiamo porre.

Come si fa, secondo lei?

Un punto centrale è favorire il confronto. Trovare i modi per costruire una formazione tra pari: colleghi che formano colleghi. Abbiamo bisogno che inizino a emergere insegnanti di matematica che siano autorevoli per i colleghi. Che si dia spazio a chi studia la matematica e il suo insegnamento per favorire la crescita di una comunità insegnante che si ponga il problema dello scambio, del confronto a favore di una dinamica che faccia fare un passo avanti a tutti.

Questo richiede tanta umiltà.

Serve umiltà e occorre che sul territorio ci siano sedi di dialogo che a me piace immaginare come dei “tè della matematica”, luoghi dove ci si confronti sulla matematica; luoghi nei quali insegnanti di ogni ordine e grado si trovino anche in maniera informale. Io partirei da qui per favorire un maggior dialogo tra insegnanti dei diversi ordini di scuola.

Tutto questo perché?

Vorrei che chi insegna ai bambini più piccoli avesse una visione dei contenuti previsti negli ordini di scuola successivi: non voglio che una maestra parli dei polinomi ma voglio che sappia che poi i suoi allievi dovranno affrontarli, e che presti attenzione a non creare i germi di future misconcezioni. Nel verso opposto, è necessario che gli insegnanti delle superiori sappiano quali sono i cambiamenti sociali che stanno emergendo, cambiamenti che le maestre vivono alcuni anni prima di loro. Si pensi se l’avessimo fatto quanto hanno iniziato a emergere problemi seri di comprensione del testo: se avessimo avuto queste occasioni di scambio, gli insegnanti delle superiori avrebbero avuto, prima, gli elementi per affrontare questa ondata problematica. Ci sono professionalità, esperienze, qualità a tutti i livelli: dobbiamo favorire lo scambio e l’osmosi per un insegnamento della matematica meglio coordinato e armonizzato.

Perché non ci sono questi suoi “tè della matematica”?

Io qualche idea ce l’ho. Penso che siamo in un’epoca molto individualista, in generale, anche fuori dalla scuola, nella quale ognuno è convinto di bastare a sé stesso, e così il confronto non parte nemmeno. Una seconda ragione è che la scuola è oberata da momenti di incontro che non hanno alcun significato e impatto e dunque qualsiasi offerta di incontro ulteriore viene vista come una perdita di tempo e come una fonte di pressione e stress.

I tanti docenti nostalgici della scuola di una volta sostengono che tante preoccupazioni sono superflue, che per ottenere i risultati di una volta sarebbe sufficiente tornare a essere severi con gli studenti e bocciare quando gli studenti non raggiungono gli obiettivi.

Intanto una volta non c’era l’obbligo scolastico che c’è oggi e non è che tutti noi che abbiamo conseguito quell’obbligo siamo andati alle superiori. La popolazione che proseguiva oltre le medie era più selezionata e motivata allo studio ed è chiaro che di conseguenza riusciva meglio. Cinquant’anni orsono ci ponevamo molto meno l’obiettivo di non lasciarci indietro qualcuno, e se qualcuno abbandonava la scuola la preoccupazione generale era molto scarsa: non era un tema in agenda tanto quanto lo è oggi. E si potrebbe continuare con le differenze sociali e culturali. Fare questi confronti è scorretto: stiamo parlando di due universi troppo diversi.

Tornando alla didattica della matematica, molti insegnanti pensano che per risolvere un problema matematico ci sia una sola strategia e impongono quella agli alunni. Del resto, si dice che la matematica non è un’opinione.

È vero che lo si dice… ma non è proprio così. Di fronte a un problema ci possiamo muovere in maniere diverse, possiamo esercitare la nostra libertà di pensiero e di creatività. Occorre spingere alla costruzione del pensiero autonomo ma anche all’esperienza del trovarsi in difficoltà. Molto spesso si pensa che tutto va bene quando tutto è facile: la matematica, invece, non si capisce al primo colpo. In matematica occorre sperimentare gli errori, trovarsi in difficoltà, e se vogliamo che i ragazzi maturino un proprio pensiero, non possiamo immaginare che questo accada in poco tempo, quasi schiacciando un bottone: abbiamo bisogno che facciano i propri tentativi, che sbaglino e che riprovino. Meglio una risoluzione sbagliata, che però è autentica e “propria”, piuttosto che una procedura replicata in modo meccanico.

E invece?

E invece c’è la spinta a una matematica nella quale imitiamo ragionamenti fatti da altri senza un’autonomia di pensiero.

 Orizzonte scuola

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LA PESTE IN AGGUATO

 

POTREBBE RIGUARDARE ANCHE NOI 


 Indagine sulla destra in Germania di Tonia Mastrobuoni

 

Trama libro

In Germania c'è una peste che non si vede, ma cresce. 

Avanza silenziosa nelle campagne, si radica in villaggi dimenticati, si insinua nelle scuole, nei corpi civili, nelle associazioni culturali e religiose. Non porta bandiere, ma idee. Idee vecchie, che sembravano sepolte dalla storia: razzismo, culto della purezza, antisemitismo, gerarchia biologica tra esseri umani. 

Dietro il volto rassicurante dell'agricoltura bio o della pedagogia alternativa, un universo inquietante prende forma. È quello delle comunità völkisch, dei neonazisti "ecologisti", dei nostalgici del Reich, che educano i propri figli in fattorie isolate, li addestrano nei campi paramilitari, e sognano un nuovo ordine etnico. In questo libro-inchiesta, Tonia Mastrobuoni ricostruisce una rete capillare di movimenti estremisti che hanno smesso di stare ai margini: oggi lavorano con metodo per infiltrare le istituzioni, costruire consenso locale, riscrivere la memoria e conquistare il potere "dal basso". 

Il partito Alternative für Deutschland è oggi il principale vettore politico di questa radicalizzazione. Nato come forza euroscettica e populista, ha progressivamente assorbito istanze razziste e nazionaliste e il pensiero della Nuova destra, fino a diventare un crocevia tra la dimensione parlamentare e l'ampia galassia dell'estremismo neofascista. Oggi è un partito classificato dai servizi segreti tedeschi come un movimento antidemocratico e a rischio eversivo. 

Mastrobuoni racconta una Germania che resiste, certo, ma è sotto attacco: giudici, maestri, pastori evangelici, sindaci vengono minacciati, isolati, aggrediti. Un intero tessuto democratico rischia di essere logorato dall'interno, senza che l'allarme sia percepito fino in fondo. 

Un viaggio disturbante nel cuore di una democrazia che si scopre vulnerabile. Un avvertimento lucido, documentato, urgente: se sta succedendo in Germania, può accadere ovunque. In Germania si prepara qualcosa. Non marce, ma infiltrazioni. Non parole d'ordine, ma manuali. Non nostalgie, ma strategie. 

Un'inchiesta sul volto nascosto dell'estrema destra tedesca: dalle fattorie neonaziste alla radicalizzazione dell'AfD.

Parla della Germania, ma riguarda  anche noi e le altre nazioni.


La peste. Indagine sulla destra in Germania

Editore:

Feltrinelli

Collana:
Scintille
Data di Pubblicazione:
14 ottobre 2025
EAN:

9788807175206

ISBN:

8807175207

Pagine:
256



 

lunedì 15 dicembre 2025

VENIRE ALLA LUCE

 

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-di Alessandro D’Avenia

 

Il Pantone Color Institute ha scelto per il 2026 un colore paradossale: il bianco.

Per identificarlo lo ha infatti dovuto rappresentare con una donna che danza tra le nubi: «Cloud Dancer». Non quindi un bianco sparato, ma una tonalità ariosa e pacifica come le nubi dei giorni sereni, che invoca calma in una vita maltrattata da un eccesso di stimoli, paure, rumori, fretta... È ora di dare «una mano di bianco» a quest'anima nostra così usurata. Il bianco inaugura, viene prima del colore, come la biacca sulle tele dei pittori. È indossato da chi ha, almeno negli intenti, purezza e virtù: papi, spose, medici, neonati, cuochi, tennisti (a Wimbledon), defunti (in Oriente) e, nell'antica Roma, ragazzi tra 14 e 18 anni e politici in campagna elettorale, «candidato» era infatti chi indossava una veste bianca (candida) in segno di onestà. 

 Un rumore si dice bianco perché contiene tutte le frequenze, smorza gli altri rumori e calma anima e corpo. Sul ponte purtroppo non sventola la bandiera bianca, in compenso prenotiamo le settimane bianche. Notti e balene se sono bianche diventano memorabili. Diciamo bianco il vino che in realtà non lo è, ma il rosso e il bianco, sangue e latte, sono i colori della vita e per questo i primi a esser nominati in quasi tutte le culture. Mettere nero su bianco è chiarezza, avere carta bianca è libertà. E bianco è il Natale anche perché la luce torna a prevalere sul buio. Bianco viene infatti da una radice antica per «splendore». E noi, splendiamo? 

 Bianca è la luce dei fotoni che in 8 minuti dal Sole incontra le cose terrestri, colorandosi delle frequenze che ciascuna riflette (il colore di una cosa è proprio quello che essa restituisce alla luce, una specie di grazie che ognuna pronuncia apparendo), quindi un oggetto è bianco quando riflette quasi tutta la luce che lo investe, non trattiene nulla, come le nubi, la neve, il latte, i cigni, le ninfee e la Luna che infatti catturano artisti e bambini. L'esperienza del bianco è esperienza radicale, del venire alla luce e quindi del venire alla vita. 

 Qualche giorno fa mentre passeggiavo in una tersa notte stellata stesa su maestose montagne innevate, la Luna, che gli antichi chiamavano Selene, cioè la Splendente, piena per l'ultima volta nell'anno, faceva brillare la neve in un crescendo di quel bianco che per Kandinsky colpisce gli uomini come un grande assoluto. Nel cielo danzava in bianca coreografia anche Orione, costellazione invernale, visibile da quasi ogni punto della Terra e nota, con miti diversi, a quasi tutti i popoli della Storia. Per i Greci antichi era il coraggioso Cacciatore che sfida il Toro o lo Scorpione, costellazioni a cui contende la volta celeste. 

 Sotto un cielo così è difficile avere pensieri cattivi, e forse per questo le città di notte sono spesso malvagie o tristi, perché ci rubano il bianco di Luna e stelle, bianco che risveglia in noi il desiderio (distanza de- dalle stelle -sidera) di vita, spazio vuoto che chiede pienezza, mancanza non assenza. Lo sapeva il presidente della Repubblica CecaVáclav Havel, che nel 2002 firmò una legge per proteggere il cielo stellato, imponendo limiti alla luce artificiale emessa verso l'alto. 

Per Havel, che era un artista, la politica era un potenziamento della libertà dei cittadini, e quindi della loro ricerca di senso che sempre comincia dalla bellezza: senza cielo stellato è impossibile avere un'anima, sentire la gratuità della vita, come il giovane Werther di Goethe che tentenna di fronte al suicidio perché non vuole perdere lo spettacolo delle stelle. 

 «Fill in the blanks» (riempi gli spazi) mi chiedevano gli esercizi scolastici d'inglese, e in quella lingua infatti la radice di «bianco» ha dato la parola «blank», un vuoto da riempire. Bianco è lo spazio in cui la vita chiede compiutezza, attesa di colori. L'esperienza del bianco è questa: io non mi basto, e non bastarsi è l'origine di ogni ricerca e quindi di ogni compimento, difficile da accettare in una cultura del «pienessere», dal tempo (ri-)pieno di bambini derubati dell'immaginazione che cresce solo nel vuoto, all'ego di adulti pieni di sé e quindi vuoti d'amore. 

 Chi è pieno non crea altra vita, la consuma o si consuma. Un paradosso che Cristo delinea in una di quelle sue pazze definizioni di felicità: «Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati», perché può essere felice solo chi cerca la verità (giustizia ne è sinonimo nella lingua evangelica) e trasforma il desiderio in azione creativa. Crea chi sa stare nel vuoto, nel bianco, come lo scrittore nella pagina, il pittore nella tela, il musico nel silenzio, l'innamorato nella distanza, lo scienziato nell'ignoto, l'uomo nella preghiera... La vita è già in noi, come lo sono i colori nella luce, ma come i colori emergono quando la luce incontra un limite, così la vita si colora grazie ai nostri limiti, intesi come ciò che ci rende unici. 

 L'odierna fortuna dell'armocromia tradisce un profondo bisogno spirituale: rivogliamo i nostri colori in un quotidiano spesso grigio e uniforme in cui non c'è spazio per diventare chi siamo ma solo chi ci dicono o obbligano ad essere. 

 Il bianco ce lo chiede con la sua luce: «Ricomincia, prepara i colori». È il colore del desiderio, che è quella inesauribile mancanza che ci rende incapaci di accontentarci di niente che non sia «per sempre», cioè infinito, e ci spinge quindi a cercare e creare sempre il nuovo: «ancora» è l'avverbio del desiderio. 

 Desideriamo senza poter esaurire il desiderio, perché il desiderio non è di qualcosa di preciso, perché è l'energia stessa che ci rende vivi, ci spinge a mettere vita nella vita, a diventare vivi. 

Agostino per questo diceva che vivere è esercizio del desiderio: «C’è una preghiera interiore che non conosce interruzione, ed è il desiderio. Se non vuoi interrompere la preghiera, non smettere mai di desiderare. Continuo è il tuo desiderio, e continua sarà la tua voce... non sempre esso giunge alle orecchie degli uomini, ma non resta mai lontano dalle orecchie di Dio». 

 Perché il bianco del 2026 non resti una metafora, una trovata pubblicitaria, un colore da indossare e basta, usiamolo come colore dell'anima. Il Natale è allora l'occasione per riscoprire che cosa ci impedisce di venire alla luce e quindi alla vita, per questo è bianco, non per la neve e le luci artificiali, che sono solo metafore mondane della verità, ma perché illumina, anche con dolore, gli angoli bui della nostra vita: disamore, paure, fallimenti, tristezze, rabbia, fatiche, inquietudine, ferite, tradimenti, delusioni... Ma è proprio grazie a questo buio che può brillare la vita che noi da soli non ci siamo dati e non possiamo darci, ed è questa Vita che è luce invincibile che festeggiamo: «In lui è la vita e la vita è la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre ma le tenebre non l'hanno vinta» (Gv 1).

 Corriere della Sera

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MALATI DI EPISTEMIA

 


Ci stiamo ammalando

 di epistemia, 


l'illusione 

di sapere cose 

solo perché 

l'AI le scrive bene



L'intelligenza artificiale è molto brava a farci credere di sapere cose che non sa.

 E noi ci stiamo convincendo di conoscerle,

 mentre ci affidiamo a risposte che suonano bene

 

-di Luca Zorloni

C'era una volta l'episteme. La vera conoscenza, secondo i filosofi dell'antica Grecia. Oggi ci ritroviamo invece con l'epistemia. Che della conoscenza è un'illusione. Una sorta di specchio della realtà deformato da una fede cieca nelle risposte dei grandi modelli linguistici (Llm) alle nostre domande. Giudizi. Valutazioni. Classificazioni di fonti. Azioni di discernimento che deleghiamo ai modelli di AI. E fin qui, tutto lecito. Il problema insorge quando riceviamo la risposta. Quanto la prendiamo per buona?

Qui si colloca il bivio tra episteme ed epistemia. Tra conoscenza e illusione. Perché gli Llm non sono progettati per effettuare verifiche sostanziali, ma per generare una risposta che sia plausibile dal punto di vista linguistico. Il loro scopo, in fondo, è questo. Restituire un output che “suoni” bene. Al netto che sia vero o falso. Se quel risultato non viene verificato da chi delega all'AI un pezzo del suo lavoro, ecco che succede il patatrac.

È qualcosa che ricorda molto da vicino il confronto tra Socrate e i sofisti nell'Atene del quinto secolo. Di questi uno degli esponenti di spicco era Gorgia. Il quale sosteneva che nulla esiste, che se anche esistesse non sarebbe conoscibile e se anche fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile. L'AI fa un po' il contrario, perché può comunicare tutto, pur senza conoscerlo. Alla fine, però, l'esito è lo stesso. Un esercizio di persuasione che si fonda sulla capacità di costruire un discorso plausibile, non vero.

Lo studio italiano

Un recente studio pubblicato su Pnas e condotto da un team di ricerca guidato da Walter Quattrociocchi, docente dell'università La Sapienza di Roma e al timone del Center of data science and complexity for society, ha analizzato per la prima volta in modo sistematico come sei modelli linguistici di ultima generazione, tra cui ChatGPT di OpenAI, Gemini di Google o Llama di Meta, “operazionalizzano il concetto di affidabilità". Come si legge nella nota che annunciava la pubblicazione del progetto, "il lavoro confronta le loro valutazioni con quelle prodotte da esseri umani ed esperti del settore (NewsGuard, Mbfc), utilizzando un protocollo identico per tutti: stessi criteri, stessi contenuti, stessa procedura. Il focus non è sull’accuratezza del risultato finale, ma su come il giudizio viene costruito”.

In una parola, l'epistemia. Se dovessi scegliere, è questa per me la parola dell'anno. Perché identifica questa nuova stagione della nostra società dominata dalla costruzione di una impressione di conoscenza che sta in piedi perché non si sa, perché non si sa delegare all'AI e perché non si sa controllare e verificare il risultato. Ci si bea, in compenso, di una risposta cucita talmente bene da illuderci di non poter essere che vera. L'AI ci renderà più stupidi se vorremo cullarci nella stupidità indotta. Se ci accontenteremo della prima risposta del chatbot, senza considerare i meccanismi probabilistici che governano il funzionamento dei grandi modelli linguistici.

Come reagire?

Le conclusioni dello studio condotto dal team di Quattrociocchi non identificano solo il problema, ma indicano anche la soluzione. Che è saperne di più dell'AI a cui ci affidiamo. Delegare la navigazione solo se si conosce la rotta, la destinazione, gli scogli che affiorano. O se si hanno gli strumenti per comprendere se, circondati dalla nebbia, si sta viaggiando nella giusta direzione. L'impiego dell'AI richiede di alzare il nostro livello di conoscenza, di ampliarlo e di mantenerlo aggiornato. Da un lato, rispetto alla capacità di utilizzare gli strumenti di intelligenza artificiale, di saperne distinguere i risultati, i meccanismi di funzionamento e quindi i punti di forza e quelli di debolezza. Dall'altro, rispetto alle materie su cui chiedono all'AI di sostituirci a noi.

Alla fine, quando si parla degli effetti della tecnologia sul sapere, torniamo sempre al punto di partenza. Che fake news, deepfake, epistemia si disinnescano non tanto con etichette posticce o filigrane, ma coltivando lo spirito critico, investendo sulla formazione, allenando la mente a non cadere nei tranelli di una conoscenza superficiale. È una buona notizia, se volete, che ridimensiona gli allarmi delle trombe dell'Apocalisse. Ma è anche una consapevolezza che sposta il fuoco della trasformazione dall'AI a noi stessi. E ci inchioda alle nostre responsabilità. Sapremo uscirne migliori?

  WIRED

Immagine: Il pensatore di Auguste RodinGABRIEL BOUYS/AFP via Getty Images

sabato 13 dicembre 2025

HAMAS E ISRAELE

 


I crimini 

contro l’umanità 

di Hamas,

 e quelli di Israele

 

Amnesty International documenta il genocidio e l'apartheid commessi da Israele e i crimini di guerra di Hamas e altri gruppi armati palestinesi, in particolare l'attacco del 7 ottobre 2023. «I responsabili di crimini di diritto internazionale devono rispondere alla giustizia. Tutte le parti devono riconoscere le proprie responsabilità», dice Agnès Callamard, segretaria generale dell'organizzazione.

 

di Redazione

 Al termine dell’Assemblea degli stati parte della Corte penale internazionale, svoltasi all’Aja, Amnesty International ha chiesto agli stati di dimostrare il loro impegno per la giustizia internazionale assicurando che le vittime dei crimini di guerra, dei crimini contro l’umanità e del genocidio nel Territorio palestinese occupato e in Israele vedano i responsabili chiamati a risponderne.

«Il sistema di giustizia Internazionale è sotto attacco ed è di fronte a minacce alla sua esistenza. Non c’è maggiore banco di prova della situazione in Israele e nel Territorio palestinese occupato. Gli stati devono dimostrare il loro impegno per la giustizia internazionale sostenendo organismi come la Corte penale internazionale e proteggendo la possibilità che essa giudichi i responsabili di crimini internazionali», ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.

Amnesty International ha ampiamente documentato come Israele abbia commesso e stia continuando a commettere il crimine di genocidio contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza, persino dopo il cessate il fuoco, e come il suo sistema di apartheid costituisca un crimine contro l’umanità. L’organizzazione per i diritti umani ha pubblicato anche un’approfondita ricerca sui crimini di guerra e sui crimini contro l’umanità commessi da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi durante e dopo gli attacchi lanciati il 7 ottobre 2023.

«I leader mondiali hanno accolto con favore la risoluzione adottata il mese scorso dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sul piano per una pace sostenibile nella Striscia di Gaza. Ma decenni di crimini internazionali non possono essere nascosti sotto il tappeto proprio mentre gli accordi in essere ignorano la ricerca delle responsabilità e rafforzano l’ingiustizia. Verità, giustizia e riparazioni sono le fondamenta di una pace duratura», ha aggiunto Callamard. «Chiediamo a tutte le parti coinvolte in Israele e nel Territorio palestinese occupato, così come alla comunità internazionale che nutre preoccupazione per le evidenti mancanze insite nella risoluzione del Consiglio di sicurezza, di sviluppare e impegnarsi a realizzare una roadmap verso la giustizia e le riparazioni, i cui obiettivi siano da un lato la fine del genocidio israeliano, del sistema di apartheid e dell’occupazione illegale del territorio palestinese e dall’altro la persecuzione dei crimini internazionali commessi da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi».

Per garantire una giustizia genuina, efficace e significativa e la non ripetizione dei crimini internazionali, Amnesty International ha raccomandato che questa roadmap si fondi sulla complementarità di più istituzioni e meccanismi giudiziari.

Le indagini della Corte penale internazionale sui crimini commessi dal lato israeliano e da quello palestinese devono andare avanti senza essere ostacolate e prendere in considerazione tanto il genocidio e il crimine contro l’umanità di apartheid da parte israeliana quanto i crimini commessi dai gruppi armati palestinesi prima, durante e dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023 in modo da assicurare che tutte le singole persone – per lo meno, quelle ancora in vita tra le principali responsabili – siano portate di fronte alla giustizia.

La roadmap dovrebbe impegnare gli stati a sostenere e a collaborare pienamente con organismi quali la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite e la stessa Corte penale internazionale. Gli stati dovrebbero eseguire i mandati d’arresto della Corte e fare tutti i passi necessari per assicurare l’annullamento delle sanzioni e delle restrizioni imposte alle organizzazioni palestinesi per i diritti umani, che da decenni documentano le violazioni del diritto internazionale e ne rappresentano tutte le vittime.

Parallelamente ai meccanismi internazionali, gli stati possono tratteggiare un nuovo corso per la pace basato sulla giustizia attraverso gli organi giudiziari nazionali, la giurisdizione universale o ulteriori forme di giurisdizione penale extraterritoriale per i crimini commessi nel Territorio palestinese occupato e in Israele.

«Le vittime delle atrocità in Israele e nel Territorio palestinese occupato meritano una giustizia autentica. Questo significa non solo vedere i responsabili processati e condannati ma anche assicurare rimedi effettivi e sviluppare garanzie di non ripetizione. Non c’è alcun dubbio che questi siano passi cruciali verso una pace e una sicurezza che durino nel tempo», ha commentato Callamard.

Il genocidio, l’apartheid e l’occupazione illegale

Trascorsi due mesi dall’annuncio del cessate il fuoco e rientrati in Israele tutti gli ostaggi ancora in vita, le autorità israeliane stanno ancora commettendo nella totale impunità il crimine di genocidio nei confronti della popolazione palestinese della Striscia di Gaza occupata, continuando a sottoporla deliberatamente a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, senza alcun segnale di un cambiamento nelle loro intenzioni. Amnesty International ha recentemente pubblicato un’analisi giuridica della situazione in atto che dimostra come il genocidio stia continuando, unita a testimonianze di abitanti della Striscia di Gaza e di personale medico e umanitario che hanno evidenziato le drammatiche condizioni in cui versa la popolazione palestinese. Nonostante una riduzione dell’intensità degli attacchi e alcuni limitati miglioramenti, non c’è un significativo cambiamento delle condizioni cui Israele sta sottoponendo la popolazione della Striscia di Gaza e non vi è alcuna prova che le intenzioni israeliane stiano mutando.

Almeno 327 persone, tra le quali 136 minorenni, sono state uccise dagli attacchi israeliani a partire dal 9 ottobre 2025, giorno in cui è stato annunciato il cessate il fuoco. Nel contesto del genocidio ancora in corso da oltre due anni, Israele ha intenzionalmente ridotto alla fame i civili palestinesi e limitato – nonostante alcuni modesti miglioramenti – l’accesso ad aiuti fondamentali e a forniture di soccorso, quali quelle mediche e le attrezzature necessarie per riparare infrastrutture indispensabili per la vita umana. Ha sottoposto la popolazione civile palestinese a successive ondate di trasferimenti forzati in condizioni inumane che hanno acuito la sua catastrofica sofferenza. Complessivamente almeno 70mila persone palestinesi sono state uccise e 200mila sono rimaste ferite, molte delle quali in un modo grave e che ha cambiato la loro vita.

La probabilità oggettiva che le attuali condizioni possano causare la distruzione della popolazione palestinese della Striscia di Gaza persiste tuttora. Ciò nonostante, le autorità israeliane non hanno mostrato un cambiamento nelle loro intenzioni: hanno ignorato tre serie di decisioni vincolanti della Corte internazionale di giustizia e non hanno indagato né sottoposto a procedimenti giudiziari le persone sospettate di atti di genocidio o chiamato a rispondere le autorità e i funzionari che hanno fatto dichiarazioni genocidarie. Le autorità responsabili della direzione e della commissione del genocidio restano al potere, con la garanzia di poter continuare a commettere atrocità. Il genocidio israeliano contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza va collocato nel contesto di una pervasiva impunità per il crimine contro l’umanità di apartheid tuttora in corso e di decenni di occupazione illegale del territorio palestinese.«È in questo scenario di apartheid e occupazione illegale che Israele ha intenzionalmente causato una carestia di massa, un bagno di sangue senza precedenti, livelli apocalittici di distruzione e massicci sfollamenti forzati e ha intenzionalmente bloccato l’aiuto umanitario: tutti esempi del crimine in corso di genocidio», ha commentato Callamard.

 In Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, il crudele sistema di apartheid israeliano e l’occupazione illegale costano assai caro alla popolazione palestinese. Le operazioni militari israeliane, compresi gli attacchi aerei, hanno causato l’uccisione di almeno 995 persone palestinesi tra le quali almeno 219 minorenni, lo sfollamento di decine di migliaia di esse ed estesi danni a infrastrutture civili essenziali, ad abitazioni e a terreni agricoli. Negli ultimi due anni c’è stato un aumento degli attacchi dei coloni sostenuti dallo stato israeliano, che hanno causato morti, feriti e sfollamenti tra la popolazione palestinese. L’Ufficio di coordinamento per gli affari umanitari delle Nazioni Unite ha documentato, dal gennaio 2025, oltre 1.600 attacchi dei coloni che hanno causato danni alle persone o a proprietà. Le comunità di pastori dell’area C sono quelle più colpite da questa ondata di incessante violenza sostenuta dallo stato israeliano. Nonostante le condanne internazionali e alcuni provvedimenti restrittivi adottati da stati terzi contro singoli coloni e loro organizzazioni, la violenza continua a crescere a causa del sostegno del governo israeliano e della pressoché totale impunità di cui beneficiano i coloni. Il piano di pace Trump è l’ultima di una serie di iniziative fatalmente manchevoli, che cercano di proporre “soluzioni” che ignorano il diritto internazionale premiando così implicitamente Israele per la sua occupazione illegale, i suoi insediamenti illegali e il suo sistema di apartheid che sono le cause di fondo delle continue atrocità inflitte alla popolazione palestinese.

Le condizioni stabilite durante l’attuale cessate il fuoco rafforzano ulteriormente il sistema israeliano di apartheid e l’occupazione illegale così come l’ingiustizia. L’imposizione, da parte israeliana, di un “perimetro di sicurezza” (una zona cuscinetto) nella Striscia di Gaza rischia di rendere permanente l’illegale occupazione israeliana e priva la popolazione palestinese delle sue terre più fertili, così come di perpetuare la frammentazione territoriale che puntella il sistema israeliano di apartheid impedendo la libertà di movimento delle persone palestinesi verso l’altra parte del territorio occupato. Analogamente, beneficiano dell’impunità le forze israeliane responsabili delle detenzioni arbitrarie, delle sparizioni e della sistematica tortura delle persone prigioniere palestinesi. Di recente il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha descritto una “politica statale de facto di maltrattamenti e torture organizzati e diffusi, gravemente intensificatasi dal 7 ottobre 2023” e ha espresso forte preoccupazione per le “ampie denunce di violenza sessuale nei confronti di prigioniere e prigionieri palestinesi, che costituiscono maltrattamenti e torture”. «L’ostinata mancanza di azione da parte della comunità internazionale per chiamare Israele a rispondere dei suoi crimini internazionali e premere affinché aderisca alle raccomandazioni dai meccanismi delle Nazioni Unite e delle organizzazioni internazionali per i diritti umani ha rafforzato l’occupazione illegale e l’apartheid e ha direttamente permesso a Israele di compiere il crimine di genocidio contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza», ha ribadito Callamard.

I crimini contro l’umanità commessi da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi

È a sua volta fondamentale assicurare giustizia per i crimini commessi dai gruppi armati palestinesi. A oltre due anni distanza, continuano a emergere resoconti delle atrocità da loro commessi durante gli attacchi del 7 ottobre 2023 guidati da Hamas nel sud d’Israele e il successivo trasferimento di ostaggi nella Striscia di Gaza. Le persone sopravvissute agli attacchi, gli ex ostaggi e le loro famiglie continuano a tenere accesi i riflettori sull’esperienza passata e a chiedere giustizia e riparazioni. Il rapporto pubblicato da Amnesty International dà conto dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità commessi dall’ala militare di Hamas, le Brigate al-Qassam, e da altri gruppi armati palestinesi durante il loro assalto nel sud d’Israele e contro gli ostaggi successivamente portati nella Striscia di Gaza.

Nelle prime ore del 7 ottobre 2023, le forze di Hamas e altri gruppi armati palestinesi hanno lanciato un attacco coordinato, principalmente contro luoghi civili. Sono state uccise circa 1.200 persone, oltre 800 delle quali civili, compresi 36 minorenni: prevalentemente ebrei israeliani ma anche beduini con cittadinanza israeliana e decine di lavoratori, studenti e richiedenti asilo di nazionalità straniera. Sono state ferite oltre 4mila persone e centinaia di case e di strutture civili sono state distrutte o rese inabitabili. Attraverso l’analisi dello schema seguito negli attacchi, prove e contenuti delle comunicazioni tra le persone che vi stavano prendendo parte, Amnesty International ha concluso che questi crimini sono stati condotti nell’ambito di un attacco massiccio e sistematico contro una popolazione civile. Gli uomini armati hanno ricevuto istruzioni di prendere di mira persone civili.

«Le nostre ricerche hanno confermato che i crimini commessi da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi nei loro attacchi del 7 ottobre 2023 e contro le persone prese in ostaggio hanno fatto parte di un massiccio e sistematico assalto contro la popolazione civile e costituiscono pertanto crimini contro l’umanità», ha dichiarato Callamard. «Hamas e altri gruppi armati palestinesi hanno mostrato un abominevole disprezzo per la vita umana: hanno intenzionalmente e sistematicamente colpito civili nelle loro abitazioni e durante un festival musicale con l’obiettivo di prendere ostaggi, ciò che costituisce un crimine di guerra; hanno deliberatamente ucciso centinaia di civili, usando armi da fuoco e granate per portare fuori dalle loro stanze di sicurezza, o da altri luoghi in cui si nascondevano, persone terrorizzate, comprese famiglie con bambini piccoli o le hanno attaccate mentre erano in fuga. Amnesty International ha trovato prove che alcuni palestinesi si sono resi responsabili di pestaggi e aggressioni sessuali e hanno maltrattato i corpi di coloro che avevano ucciso», ha aggiunto Callamard.

Hamas ha sostenuto che le sue forze non sono state coinvolte negli omicidi mirati, nei rapimenti e nei maltrattamenti dei civili durante gli attacchi del 7 ottobre 2023 e che molti civili sono stati uccisi dal fuoco israeliano. Ma, sulla base di ampie prove, video inclusi, e testimonianze, Amnesty International è giunta alla conclusione che, seppure alcuni civili siano stati uccisi dalle forze israeliane nel tentativo di respingere gli attacchi, la vasta maggioranza delle persone morte è stata intenzionalmente uccisa da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi, che hanno preso di mira luoghi civili lontani da qualsiasi obiettivo militare. Uomini armati palestinesi, comprese le forze di Hamas, sono stati allo stesso modo responsabili del rapimento di civili da più località e di violenza fisica, sessuale e psicologica contro le persone rapite.

Sono state 251 le persone, per lo più civili compresi anziani e bambini, prese in ostaggio e portate nella Striscia di Gaza. Nella maggioranza dei casi, sono state rapite vive ma si ritiene che 36 di esse fossero già morte. Queste persone sono state trattenute per settimane, mesi e in alcuni casi due anni. Alcuni degli ostaggi tornati vivi hanno riferito ad Amnesty International o in occasione di incontri pubblici di essere stati tenuti in catene in tunnel sottoterra per parte o per tutto il tempo e di aver subito intense violenze, privazioni e tormenti psicologici come la minaccia di esecuzione. Alcuni di loro hanno subito aggressioni e violenze sessuali e minacce di matrimonio forzato e sono stati costretti a stare nudi. Almeno sei ostaggi sono stati uccisi dai loro rapitori.

Amnesty International ha intervistato 70 persone: 17 sopravvissute agli attacchi del 7 ottobre 2023, familiari di vittime, medici legali, professionisti sanitari, avvocati, giornalisti e autori di indagini. I suoi ricercatori hanno visitato alcuni dei luoghi attaccati e hanno esaminato oltre 350 fotografie e video di tali luoghi e delle persone tenute in ostaggio nella Striscia di Gaza. Sulla base delle proprie indagini Amnesty International ha concluso che Hamas e altri gruppi armati palestinesi hanno commesso i crimini contro l’umanità di “uccisione”, “sterminio”, “imprigionamento o altra grave forma di privazione della libertà fisica in violazione delle norme fondamentali del diritto internazionale”, “sparizione”, “tortura”, “stupro (…) o ogni altra forma di violenza sessuale di gravità comparabile” e “altri atti inumani”.

«Decenni di spaventose violazioni ai danni delle persone palestinesi e di occupazione illegale e di apartheid nonché il genocidio tuttora in corso nella Striscia di Gaza non possono giustificare in alcun modo questi crimini né esonerare i gruppi armati palestinesi dai loro obblighi di diritto internazionale. Le violazioni dei diritti umani da parte dei gruppi armati palestinesi nel contesto degli attacchi del 7 ottobre 2023 devono essere riconosciute e condannate per ciò che sono: crimini di atrocità. Hamas, inoltre, deve restituire senza alcuna condizione il corpo di una persona uccisa il 7 ottobre 2023 e presa in ostaggio non appena lo avrà localizzato», ha sottolineato Callamard.

Nelle ultime settimane il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato la costituzione di un comitato che esaminerà il processo decisionale del governo in occasione degli attacchi del 7 ottobre 2023. Questo annuncio è stato assai criticato, anche dalle persone sopravvissute agli attacchi e dalle famiglie di quelle uccise, in quanto privo di indipendenza e disallineato rispetto ai precedenti di commissioni d’inchiesta dirette da un giudice. Amnesty International chiede alle autorità dello Stato di Palestina di riconoscere e denunciare le gravi violazioni del diritto internazionale commesse dai gruppi armati palestinesi e di condurre indagini indipendenti e imparziali per identificare persone sospettate di aver commesso crimini di diritto internazionale nonché di cooperare totalmente coi meccanismi internazionali d’indagine, anche condividendo prove in loro possesso.

Una giustizia internazionale necessaria per tutte le vittime

Le indagini in corso della Corte penale internazionale sulla “situazione in Palestina” e i mandati d’arresto emessi dalla stessa Corte nei confronti del primo ministro Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa Gallant per crimini di guerra e crimini contro l’umanità restano elementi fondamentali di un genuino accertamento delle responsabilità. Assumere iniziative per chiamare alti funzionari israeliani a rispondere di crimini di diritto internazionale è un passo essenziale per far terminare il genocidio israeliano nella Striscia di Gaza, per ripristinare la fiducia nel diritto internazionale e per assicurare a tutte le vittime dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità giustizia, verità e riparazioni.

Ad avviso di Amnesty International, la Corte penale internazionale dovrebbe proseguire a indagare sui crimini commessi dai gruppi armati palestinesi prima, durante e dopo gli attacchi del 7 ottobre, per assicurare che le persone sospettate di essere responsabili di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità siano portate di fronte alla giustizia. «Si tratta di questioni non negoziabili. I responsabili di crimini di diritto internazionale devono rispondere alla giustizia e le istituzioni che essi rappresentano, devono avviarsi lungo un percorso nuovo, basato sui diritti umani e sul diritto internazionale, anche adottando leggi che impediscano la futura ripetizione di tali violazioni. Tutte le parti devono riconoscere le proprie responsabilità e fornire piena collaborazione agli organismi investigativi e ai meccanismi della giustizia internazionale, come la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite e la Corte penale internazionale, dando seguito alle loro raccomandazioni e permettendo loro di raccogliere, conservare e analizzare prove al fine di accertare le responsabilità. Le vittime devono essere ascoltate, devono essere riconosciute per ciò che hanno subito e devono ricevere rimedi efficaci, comprese le riparazioni. Senza queste misure concrete per assicurare verità e giustizia non potrà esserci alcuna pace duratura», ha concluso Callamard.

VITA