L'ex
museo coloniale di Roma è ora il Museo delle Civiltà. Viene operata una
riscrittura del passato coloniale italiano.
Una sfida per la scuola
-di
Fabrizio Foschi
Roma,
città eterna e capitale d’Italia, è anche la sede di una importante
rivisitazione e riscrittura del nostro passato. Si tratta di una operazione
culturale e formativa di non poco conto. Ci riferiamo alla nuova collocazione
dell’ex museo coloniale di Roma, le cui opere e documenti hanno trovato una
nuova sistemazione presso gli edifici in stile razionalista del Museo delle
Civiltà, nella zona monumentale dell’Eur, implicato in un percorso “di
progressiva e radicale revisione che metterà in discussione, provando a
riscriverle, la sua storia, la sua ideologia istituzionale e le sue metodologie
di ricerca e pedagogiche” (questi i termini con cui si presenta il sito
museodellecivilta.it in corso di aggiornamento).
La
nuova veste, e dunque il nuovo impianto categoriale da cui si prende spunto per
comporre la nuova narrativa coloniale, fa perno sul tema della “opacità”. Il
museo delle “opacità”, si legge nelle didascalie interne alla esposizione
permanente, è indirizzato a “documentare la complessità del passato coloniale,
ricercarla nel presente, condividerla per il futuro”. Le vicende coloniali
italiane sono parte integrante, del nostro passato e non sono solo un’eredità
fascista, dato che la storia coloniale italiana in Africa data dal 1882 al
1960. Nel nuovo museo delle opacità (seguiamo sempre la traccia orientativa dei
curatori) i reperti (circa 12mila oggetti, tra carte, manufatti, opere d’arte)
chiusi dal 1971 in un deposito romano costituiscono oggi una nuova fonte di
conoscenza, testimoniando allo stesso tempo come una storia rimossa
(l’occupazione di terre oltremare) possa riprendere vita se giudicata nel
presente.
Il
nuovo progetto è così illustrato dall’attuale direttore del Museo delle
Civiltà, Andrea Viliani: “Da una parte si può pensare che il termine opacità
sia affine al velo di amnesia steso sulla storia coloniale italiana, come se
fosse qualcosa di dimenticato e dimenticabile. Dall’altro è invece un termine
positivo, che ha qualcosa di assolutamente gioioso, fantasioso e poetico. Nel
1959 uno scrittore, Édouard Glissant (Martinica, 1928-Parigi, 2011), partecipa
proprio qui a Roma al Congresso degli scrittori e degli artisti neri
all’Istituto italiano per l’Africa di Roma […] Nella poetica di questo autore
non esiste nulla di trasparente, non esiste un’identità trasparente, non esiste
un’azione trasparente. Nulla è trasparente, nemmeno l’aria, e questo ce l’ha
insegnato nella pittura già Leonardo da Vinci, con lo sfumato”. Fin qui
Viliani. In altri approfondimenti collegati al riassetto si precisa che
l’opacità teorizzata dal poeta Glissant è il diritto, valido per tutti, di “non
assoggettare la propria identità alla comprensione degli altri, alla
trasparenza che classifica in modo unilaterale, all’accettazione che riduce
alle categorie già esistenti”. In questo senso (siamo ancora nell’ottica di
Glissant), ogni individuo ha il diritto di non subordinare la propria identità
a criteri che comportano un’appropriazione e una classificazione unilaterali,
ma piuttosto al criterio della “condivisione”, che permette di assumere e
condividere identità autonome e specifiche, generate da sé stessi.
Applicata
pertanto alla storia del colonialismo, l’opacità fornirebbe uno strumento di
lettura delle sue dinamiche interne che avrebbero violato le identità altrui
(le culture dei popoli sottomessi), costringendole entro parametri di
“comprensione”, da intendere come “movimento delle mani che prendono ciò che le
circonda e lo riportano a sé”. È questo, in sintesi, quanto emerge dalle
indicazioni esplicative interne al museo e ai siti di riferimento.
Ma
c’è di più. Il museo delle opacità si propone di ricontestualizzare il passato
coloniale, ponendo gli oggetti provenienti dalle ex colonie a contatto con
documenti e opere d’arte contemporanee. Dal confronto (o dialogo) tra passato e
presente emergerebbe come la collocazione di un oggetto in una particolare
situazione (per esempio un oggetto rituale posto erroneamente a indicare una
inutile forma di superstizione piuttosto che l’anima religiosa di un popolo)
assume il valore di una “testimonianza antropologica”, ovvero si configura come
memoria critica del contesto che ha originato un certo ambito museale, nonché
delle relazioni tra gli oggetti e i dispositivi linguistici ed espositivi che
ne hanno sostenuto l’interpretazione.
Al
termine di questa breve carrellata relativa ad un’operazione culturale di
indubbio impatto e forte dimensione innovativa, specie sul versante della
proposta didattica alla scuola e all’università, è inevitabile collocare il
tentativo entro l’orizzonte di quella riscrittura del passato, bello o brutto
che sia, che orienta tanta parte della storiografia ufficiale contemporanea. Si
va dalla cancellazione di intere sequenze storiche ritenute non congruenti con
l’opinione prevalente, alla revisione di momenti della storia europea che hanno
visto gli Stati del vecchio continente lanciati verso il dominio di mezzo
mondo.
Il
colonialismo è stato un vizio comune a democrazie e autoritarismi, repubbliche
e formazioni totalitarie. Espungerlo non serve, bisogna capirlo, come tanti
studi hanno cercato di fare. In esso, e il capitolo italiano non ne è esente,
si mescolano desiderio di conquista, nazionalismo, razzismo e anche percorsi di
re-insediamento della popolazione nazionale in esubero presso territori
“vergini”. È anche vero che il colonialismo ha partorito una ermeneutica dalla
quale è ancora oggi difficile uscire, basti pensare da una parte al mito dalla
“grande proletaria” (l’Italia) che aveva il diritto ad un posto al sole e,
dall’altra, ai complessi di colpa che ancora affliggono società che hanno
pagato un alto prezzo per le loro avventure in terre lontane.
La realtà del
colonialismo bisogna guardarla tutta intera, compreso il meccanismo del
consenso che esso ha generato intorno a sé, indistintamente, presso nazioni
dalla diversa matrice e caratura. Ben venga dunque l’uso dell’opacità, purché
non sia ostativa ad una “comprensione”, afferente in questo caso più che al
verbo “afferrare”, all’intenzione di cogliere il senso di un passato che è
impossibile rimuovere perché segna ancora il nostro presente.
Il
Sussidiario
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