sabato 6 gennaio 2024

RISCRIVERE IL PASSATO

 L'ex museo coloniale di Roma è ora il Museo delle Civiltà. Viene operata una riscrittura del passato coloniale italiano. 

Una sfida per la scuola

 

-di Fabrizio Foschi

Roma, città eterna e capitale d’Italia, è anche la sede di una importante rivisitazione e riscrittura del nostro passato. Si tratta di una operazione culturale e formativa di non poco conto. Ci riferiamo alla nuova collocazione dell’ex museo coloniale di Roma, le cui opere e documenti hanno trovato una nuova sistemazione presso gli edifici in stile razionalista del Museo delle Civiltà, nella zona monumentale dell’Eur, implicato in un percorso “di progressiva e radicale revisione che metterà in discussione, provando a riscriverle, la sua storia, la sua ideologia istituzionale e le sue metodologie di ricerca e pedagogiche” (questi i termini con cui si presenta il sito museodellecivilta.it in corso di aggiornamento).

 La nuova veste, e dunque il nuovo impianto categoriale da cui si prende spunto per comporre la nuova narrativa coloniale, fa perno sul tema della “opacità”. Il museo delle “opacità”, si legge nelle didascalie interne alla esposizione permanente, è indirizzato a “documentare la complessità del passato coloniale, ricercarla nel presente, condividerla per il futuro”. Le vicende coloniali italiane sono parte integrante, del nostro passato e non sono solo un’eredità fascista, dato che la storia coloniale italiana in Africa data dal 1882 al 1960. Nel nuovo museo delle opacità (seguiamo sempre la traccia orientativa dei curatori) i reperti (circa 12mila oggetti, tra carte, manufatti, opere d’arte) chiusi dal 1971 in un deposito romano costituiscono oggi una nuova fonte di conoscenza, testimoniando allo stesso tempo come una storia rimossa (l’occupazione di terre oltremare) possa riprendere vita se giudicata nel presente.

 Il nuovo progetto è così illustrato dall’attuale direttore del Museo delle Civiltà, Andrea Viliani: “Da una parte si può pensare che il termine opacità sia affine al velo di amnesia steso sulla storia coloniale italiana, come se fosse qualcosa di dimenticato e dimenticabile. Dall’altro è invece un termine positivo, che ha qualcosa di assolutamente gioioso, fantasioso e poetico. Nel 1959 uno scrittore, Édouard Glissant (Martinica, 1928-Parigi, 2011), partecipa proprio qui a Roma al Congresso degli scrittori e degli artisti neri all’Istituto italiano per l’Africa di Roma […] Nella poetica di questo autore non esiste nulla di trasparente, non esiste un’identità trasparente, non esiste un’azione trasparente. Nulla è trasparente, nemmeno l’aria, e questo ce l’ha insegnato nella pittura già Leonardo da Vinci, con lo sfumato”. Fin qui Viliani. In altri approfondimenti collegati al riassetto si precisa che l’opacità teorizzata dal poeta Glissant è il diritto, valido per tutti, di “non assoggettare la propria identità alla comprensione degli altri, alla trasparenza che classifica in modo unilaterale, all’accettazione che riduce alle categorie già esistenti”. In questo senso (siamo ancora nell’ottica di Glissant), ogni individuo ha il diritto di non subordinare la propria identità a criteri che comportano un’appropriazione e una classificazione unilaterali, ma piuttosto al criterio della “condivisione”, che permette di assumere e condividere identità autonome e specifiche, generate da sé stessi.

 Applicata pertanto alla storia del colonialismo, l’opacità fornirebbe uno strumento di lettura delle sue dinamiche interne che avrebbero violato le identità altrui (le culture dei popoli sottomessi), costringendole entro parametri di “comprensione”, da intendere come “movimento delle mani che prendono ciò che le circonda e lo riportano a sé”. È questo, in sintesi, quanto emerge dalle indicazioni esplicative interne al museo e ai siti di riferimento.

 Ma c’è di più. Il museo delle opacità si propone di ricontestualizzare il passato coloniale, ponendo gli oggetti provenienti dalle ex colonie a contatto con documenti e opere d’arte contemporanee. Dal confronto (o dialogo) tra passato e presente emergerebbe come la collocazione di un oggetto in una particolare situazione (per esempio un oggetto rituale posto erroneamente a indicare una inutile forma di superstizione piuttosto che l’anima religiosa di un popolo) assume il valore di una “testimonianza antropologica”, ovvero si configura come memoria critica del contesto che ha originato un certo ambito museale, nonché delle relazioni tra gli oggetti e i dispositivi linguistici ed espositivi che ne hanno sostenuto l’interpretazione.

 Al termine di questa breve carrellata relativa ad un’operazione culturale di indubbio impatto e forte dimensione innovativa, specie sul versante della proposta didattica alla scuola e all’università, è inevitabile collocare il tentativo entro l’orizzonte di quella riscrittura del passato, bello o brutto che sia, che orienta tanta parte della storiografia ufficiale contemporanea. Si va dalla cancellazione di intere sequenze storiche ritenute non congruenti con l’opinione prevalente, alla revisione di momenti della storia europea che hanno visto gli Stati del vecchio continente lanciati verso il dominio di mezzo mondo.

 Il colonialismo è stato un vizio comune a democrazie e autoritarismi, repubbliche e formazioni totalitarie. Espungerlo non serve, bisogna capirlo, come tanti studi hanno cercato di fare. In esso, e il capitolo italiano non ne è esente, si mescolano desiderio di conquista, nazionalismo, razzismo e anche percorsi di re-insediamento della popolazione nazionale in esubero presso territori “vergini”. È anche vero che il colonialismo ha partorito una ermeneutica dalla quale è ancora oggi difficile uscire, basti pensare da una parte al mito dalla “grande proletaria” (l’Italia) che aveva il diritto ad un posto al sole e, dall’altra, ai complessi di colpa che ancora affliggono società che hanno pagato un alto prezzo per le loro avventure in terre lontane. 

La realtà del colonialismo bisogna guardarla tutta intera, compreso il meccanismo del consenso che esso ha generato intorno a sé, indistintamente, presso nazioni dalla diversa matrice e caratura. Ben venga dunque l’uso dell’opacità, purché non sia ostativa ad una “comprensione”, afferente in questo caso più che al verbo “afferrare”, all’intenzione di cogliere il senso di un passato che è impossibile rimuovere perché segna ancora il nostro presente.

 Il Sussidiario

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