giovedì 11 gennaio 2024

SACRIFICIO, IMPEGNO, DISCIPLINA

C’È UN DIZIONARIO 

DA RIABILITARE

Le dinamiche educative mostrano un ripensamento opportuno


 -        di LELLO PONTICELLI*

 

Sono tra i tanti che avevano apprezzato la testimonianza del padre di Giulia Cecchettin, come pure la riflessione offerta nel giorno del funerale della figlia. Con lo strazio nel cuore e con una compostezza affettuosa e disarmante, papà Gino ha coraggiosamente richiamato valori e contenuti su cui tutti dovremmo confrontarci. Come si ricorderà, nel passaggio rivolto ai genitori, ha chiesto di insegnare «ai nostri figli il valore del sacrificio e dell’impegno»; di aiutarli «anche ad accettare le sconfitte».

 Mi ha colpito il riferimento alla parola sacrificio, da molti considerata desueta o, addirittura, censurata. E ho pensato che non è l’unica ad aver avuto questa sorte nell’ambito della “vulgata educativa”. Ci sono anche dovere, obbligo, divieto, disciplina, controllo, rinuncia, e altre ancora, insieme alla monosillaba “no” che molti, di recente, hanno avvertito l’esigenza di rilanciare come necessaria.

 Allora chiedo: abbiamo riflettuto abbastanza sulle conseguenze che la rimozione di queste parole ha sulla dinamica educativa? Se sono state usate male o abusate, è razionale “buttare l’acqua sporca con il bambino”? La parola “autorità”, ad esempio, è stata connotata in senso negativo, come se favorisse automaticamente l’autoritarismo. Questo ha contribuito a una deresponsabilizzazione negli adulti che, in teoria, dispongono di autorità per favorire la crescita di bambini e ragazzi loro affidati. Se la parola “dovere” viene estromessa, per cui le cose si fanno quando portano piacere e mai perché “si deve”, si può immaginare un vero percorso di maturità?

 Anni fa, Rita Levi Montalcini esprimeva la necessità di scrivere una carta dei doveri analogamente alla carta dei diritti: con facilità ci si dimentica che quando non si osservano i doveri si penalizzano certamente i diritti altrui.

Da tempo nell’educazione va di moda il non obbligare mai. Siamo sicuri che sia giusto? Non ci sono forse degli “obblighi” di coscienza, come pure nell’amicizia, nell’amore, nella responsabilità educativa, cui allenarsi? Il “vietato vietare”, ormai dato per scontato, non aiuta a discernere tra i divieti utili, opportuni, necessari ai fini educativi e quelli che non lo sono, o sono posti da chi non ha legittimità morale né giuridica. Che dire, poi, della parola “disciplina”? Anch’essa sembra sottoposta a troppo facili stroncature. Ratzinger, da fine intellettuale, fece notare che “disciplina” viene da “discepolo” e questo, in casa cristiana, ha un sapore tutto evangelico. Così in ambito laico: non v’è sport, pratica scientifica o altro importante percorso che non esiga disciplina.

Anche l’autodisciplina, importante obiettivo educativo, passa attraverso l’etero-disciplina. Una pedagogia degna di questo nome non deve in alcuni momenti esercitare con amore e fermezza la funzione della vigilanza e del controllo? Si acquisisce forse la maturità senza imparare l’autocontrollo in emozioni, impulsi, bisogni? È appunto una disciplina da apprendere in certe fasi dello sviluppo, in cui esercitarsi attraverso il dar conto a un’autorità che legittimamente incoraggia, vigila, corregge... Insomma: le parole non sono mai neutre, né innocenti. Sono simboli, hanno significato oggettivo, razionale e conscio, da un lato, soggettivo dall’altro: possono essere accolte o respinte per la valenza affettiva che hanno, talvolta inconsapevolmente, o addirittura distorte, rimosse, perché evocano ferite e traumi. L’impressione è che la “censura” di un certo vocabolario in ambito educativo – quello evocato, ovviamente, è solo una parte – sia frutto anche di una diffusa regressione a modalità di pensiero poco razionale, se non primitivo, e dell’abbassamento del senso critico.

Di qui la necessità di una riconciliazione con la propria storia personale e collettiva, come di un più serrato e sereno confronto culturale, affinché ci si desti dal “sonno della ragione”.

 Grazie ancora, dunque, al papà di Giulia che dalla cattedra del dolore ha suggerito, tra sacrifici e sconfitte, un rinnovato impegno, senza rimuovere dall’alfabeto educativo certe parole scomode, ma importanti.

 *Sacerdote e psicologo

 www.avvenire.it  

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