I più fragili e la “gogna” dei social
«Educare tutti alla responsabilità»
La morte della ristoratrice di Lodi, criticata ferocemente
per un post, ha aperto una riflessione sul ruolo dei media. «La bufera online
colpisce i più deboli, non i personaggi pubblici»
Il sociologo Pira: le leggi non hanno dato risultati, serve
un cambiamento culturale. La consulente Bonini: attenti a opinioni al limite
della violenza
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di ELISA CAMPISI
«Sui social ci sentiamo come James Bond, con la licenza di
“uccidere”. Manca un’educazione alla responsabilità». Francesco Pira,
professore associato di sociologia dei processi culturali e comunicativi
all’Università di Messina, ha dedicato gran parte delle sue ricerche ai
fenomeni di comunicazione online e all’impatto dei nuovi media sulla società.
La storia della ristoratrice Giovanna Pedretti, morta suicida pochi giorni fa
nel Lodigiano dopo essere stata vittima di feroci critiche sui social, ha reso
ancora più urgente un’assenza di riflessione sui rischi della cosiddetta “gogna
mediatica”, in particolare per le persone comuni, meno abituate a finire al
centro dell’attenzione mediatica. «La bufera social, la cosiddetta shitstorm,
fa male a tutti. Un personaggio pubblico sa che fa parte del gioco. La gente
comune, invece, una volta che sente lesa la propria dignità fa più fatica a
superare questa fase come se nulla fosse. Tutto questo può portare, talvolta,
anche a gesti estremi», spiega il sociologo.
La proiezione psicologica
In questa, come in altre vicende simili degli ultimi anni,
entrano in gioco alcune caratteristiche umane che nei social hanno proliferato:
«Tendiamo a creare un io “iperfluido”, che mostri non chi siamo, ma ciò che può
piacere agli altri e crea consenso». Succede così che alcuni post possano
portare rapidamente alla ribalta chiunque, per poi gettare le stesse persone,
soprattutto le più fragili, nella polvere. Lo stesso meccanismo fomenta anche i
contenuti di odio: «Si provoca per creare dibattito, interazioni. Si tira fuori
il peggio delle persone, ma la colpa non è delle piattaforme. I media
diffondono contenuti negativi perché la gente scrive, legge, interagisce su
quelli».
Il web a molti sembra un giardino sicuro, ma poi qualcosa va
storto e ci si accorge che non lo è. Il tradimento di cui è stata vittima la
ristoratrice è lo stesso che secondo le accuse dei familiari avrebbe travolto
l’imprenditore agrigentino Alberto Re, morto lo scorso novembre. Una spietata
campagna social, dopo il flop del festival che aveva contribuito a promuovere,
l’aveva portato alla disperazione. Il 78enne, responsabile delle pubbliche
relazioni della 43esima edizione del Paladino d’Oro Sportfilmfestival, aveva
provato a spiegare e rassicurare sui ritorni economici dell’iniziativa, ma poi
gli attacchi: «Quanto è costato questo festival? Chi e quanto si è pagato per
organizzare questa farsa?», scriveva per esempio un utente su Facebook.
Critiche e sfottò che Re, non avvezzo a certe dinamiche, ha preso come attacchi
alla sua integrità. Il 22 novembre, dopo aver scritto una lettera ai familiari,
si è sparato un colpo di pistola in testa.
A ottobre era toccato invece al giovane tiktoker bolognese,
Vincent Plicchi, in arte Inquisitor Ghost. Logorato, sotto il fango che gli
hanno buttato addosso gli haters della rete, il 23enne non ha resistito e si è
tolto la vita in diretta social. Secondo il padre Matteo, il figlio sarebbe
stato spinto al suicidio da accuse infondate, come quella di pedofilia, create
e diffuse proprio per infamarlo.
Nei suoi video Plicchi indossava una maschera, ma il
travestimento nascondeva un ragazzo comune che si è visto messo alla gogna
senza un processo. Al di là delle fragilità della vittima di turno, «il
problema è che si scrive senza pensare che dietro il nickname c’è una persona
reale », spiega ancora il professore.
Regole, “maschere” e cambiamenti
Le parole del sociologo fanno eco a quelle di Matteo
Mariotti, il ventenne amputato di una gamba dopo l’attacco di uno squalo, che
solo pochi giorni fa ha subito l’odio sui social. «Mi tocca tanto la storia di
questa signora perché anch’io sono andato vicino alla disperazione — ha detto,
commentando le accuse verso Pedretti — . Sono cose pesanti, che andrebbero
regolate per legge». Secondo Pira, «le leggi non hanno dato i risultati
sperati. Serve un cambiamento culturale». Le persone possono essere spietate.
In queste vicende, però, entrano in gioco anche fattori più tecnici, che vanno
compresi per non esserne sopraffatti. «Possiamo andare indietro fino al 2016,
al caso di Tiziana Cantone. La dinamica è sempre quella — spiega l’esperta di
social media Paola Bonini, docente all’Università di Bologna e consulente Rai
per i media digitali — . Gli algoritmi assorbono i nostri comportamenti,
rilevano gli argomenti che generano interesse. Così un contenuto diventa virale
e fa crescere i guadagni che vengono dalle inserzioni pubblicitarie». Cantone
si suicidò a 31 anni dopo la diffusione online di un video hot amatoriale e le
conseguenti critiche. La vicenda social di Pedretti e il suo debunking, lo
smascheramento attraverso le verifiche, probabilmente non meritavano questa
visibilità. «Non era una notizia — dice Bonini — . La sua pubblicazione nei
media tradizionali ha fatto sentire soltanto alcune persone più legittimate di
altre a dare opinioni sbagliate, al limite della violenza».
www.avvenire.it
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