Con la guida
profonda e sensibile di Pierangelo Sequeri andiamo in cerca dei segnali
che orientano la fede dentro la cultura di questo scorcio del nostro tempo nel
quale vediamo prevalere fattori di incertezza che sembrano scoraggiare
l’esperienza credente. Ogni domenica per otto settimane il celebre teologo milanese,
da tempo firma cara ai lettori di Avvenire, ci condurrà alla scoperta della
«fede dove non te l’aspetti» attraverso parole-guida offerte a tutti i
«cercatori e trovatori».
-
di Stefano Jan
-
L’intento di
queste riflessioni è quello di illuminare i potenziali di lievitazione del seme
cristiano nel nuovo contesto dell’epoca. Vasto programma, direte
subito voi. E avete perfettamente ragione. Nondimeno, l’obiettivo può apparire
scoraggiante, per la fede, solo se lo si concepisce appunto come una specie di
programma mondiale di regìa culturale della storia dei popoli. Il
cristianesimo, però, non è un programma di leadership o di governance del
mondo. Lo è stato, naturalmente (a partire da Carlo Magno, non
dall’imperatore Costantino), perlomeno nell’intenzione. L’impresa, come
sappiamo, al netto delle superstizioni che ne hanno contraddetto l’ispirazione,
ha pur generato una straordinaria avventura dell’Europa della filosofia e del
diritto, dell’arte e della musica, della letteratura e della politica, della
scienza e della tecnica. Nelle sue luci e nelle sue ombre, ha lasciato
un’eredità non ancora del tutto consunta. Però il suo capitale non è più sufficiente
a rilanciare il fervore di una creatività capace di aprire futuro per la storia
dell’anima fra i popoli. La cosa che impressiona di più è il fatto che la
frantumazione del legame sociale, e la crescita di aggressività isterica –
individuale e collettiva – appaiono come effetti collaterali della nostra
scoperta migliore: la dignità del singolo, la libertà dell’individuo, il
rispetto della persona.
Come ha
potuto accadere che la valorizzazione della dignità della singola persona, di
cui andiamo così fieri, ci abbia condotti a un tale degrado delle
relazioni comunitarie, al quale ci stiamo letteralmente rassegnando? Le
nascite sono in calo, il desiderio è spento, dicono gli esperti. I
poveri crescono, uno su mille ce la fa. La politica è appesa all’economia,
l’economia alla tecnica, la tecnica non è appesa a niente: solo a sé stessa. Le
stesse democrazie occidentali patiscono ora acutamente gli effetti sociali
negativi della loro evoluzione individualistica e competitiva. Ciascuno è
riconsegnato ai mezzi di cui dispone per conquistarsi il proprio
riconoscimento. E, dunque, è abbandonato a sé stesso. Le generazioni
adolescenti stanno interiorizzando questa angosciosa percezione con una
rapidità che ancora ci sfugge.
La comunità
cristiana, pur così disseminata di commoventi slanci di dedizione, non vede
ancora una via nuova (o ne vede troppe). E quindi, cerca
di fare quello che può con il linguaggio che ha e con le abitudini che sa.
Però, ogni giorno che passa, scopre al suo interno debolezze troppo a lungo
occultate, liti troppo furiosamente attizzate, omissioni troppo giulivamente
trascurate. Cerco dunque di mettermi dalla parte del “noi” che corrisponde al
cristiano comune di “oggi” (includendo anche il sacerdote, il religioso e la
religiosa, in questo caso), il quale cerca di vivere il cristianesimo che c’è,
nella cultura che c’è, al meglio che può. E cerco di farlo riaprendo
l’autoreferenzialità di un gergo troppo ecclesiastico, con qualche
parola-comune che possa restituire vitalità alle parole chiave della
lingua cristiana.
In questo
sforzo di immedesimazione mi lascio provocare dalla sollecitazione di papa
Francesco a cercare una “sinodalità” ecclesiale che ritrovi l’allegria della
fede che Gesù regala a chi non ha niente. Il tesoro è nel campo,
certamente, ma bisogna scavare nei punti giusti: altrimenti uno si trova solo
un campo pieno di buche, e si deprime. Intendo questa sinodalità –
“camminare insieme” – come il riflesso e l’illuminazione credente
della “complicità” umana e affettiva in cui si riconosce la sterminata
maggioranza degli individui-massa che vengono illusi e disillusi dai signori
della guerra, dai mercanti del tempio, dai politici della crescita, dai tecnici
dell’innovazione, dai pubblicitari del progresso. Penso che dobbiamo dedicare
più affetto ai milioni che, pur non coltivando nessuna ambizione di avere un
ruolo “regale, profetico e sacerdotale”, per il quale si sentono umilmente
impreparati, si riconoscono tuttavia amati da Dio e si sforzano di seguire
Gesù. E non si sottraggono alla testimonianza di speranza e di amore che
apprendono dal Vangelo di Gesù e ammirano nei suoi discepoli migliori.
Non è forse
in questo modo che il cristianesimo mette il sapore di un sale non scipito
nell’insipida zuppa della storia? Forse qualcuno è un po’ samaritano,
qualcuno fin troppo pubblicano. E allora? Lo Spirito non è forse arrivato da
Zaccheo, da Cornelio, dalla donna samaritana e dal centurione romano assai
prima che arrivassimo noi? Imparare a cercare la fede anche dove non ci
aspettiamo di trovarla – Gesù non faceva altro – è un esercizio che può
rivelarsi salutare per la riscoperta della fede che abbiamo già trovato. I miei
punti di osservazione sono sette parole, che adopero come il bastoncino del
rabdomante: il futuro; le élites; i molti; l’intesa; l’onore; la prova;
l’attesa. Vediamo cosa trovano.
La prima
parola è il “ futuro”, che non è più quello di una volta. Insistendo
sul tempo biblico-lineare del regno di Dio, siamo diventati inconsapevolmente
debitori della pubblicità- progresso? Di fatto, del destino che accomuna gli
umani dell’intera storia i nostri figli non sentono più neppure una parola. La
prossima generazione super-tecnologica sarà forse più vicina al regno di
Dio? La seconda parola è élite, argomento
di grandi dispute socio-politiche, apparentemente. Il nostro tema sarà questo:
la questione non è la mediazione delle élites – ecclesiastiche o laiche che
siano –: il problema è la sostituzione, ossia il sequestro del cristiano
impeccabile, e dell’umano realizzato in una comunità sempre più ristretta e
selezionata dei salvati (perché perfettamente osservanti, o perché abbastanza
ricchi, o perché meglio armati, dipende). E per i sommersi, pazienza.
La terza
parola è i molti. Le società evolute, le chiese perfette,
contengono le nuove moltitudini planetarie di individui, che non sono più di
nessuna tribù, o le respingono? Sono allegramente inclusive e colorate o sempre
più selettive e grigie? La quarta parola sarà l’intesa. Qui
si ragionerà sul fiuto spirituale, ossia sulla sensibilità umana per la
consolazione di una complicità appassionatamente solidale dell’umano che è
comune: oltre le lingue, le etnìe, le politiche, le religioni. Fiuto
scoraggiato, fiuto pervertito, fiuto lietamente ritrovato e condiviso. La
quinta parola è l’onore. L’ipotesi di partenza è questa:
l’avvilimento e l’umiliazione dell’altro è la madre di tutti i delitti.
L’umiliazione e l’avvilimento di Dio, che falsifica la sua complicità con
l’umano, lo ferisce nell’onore. Peccato contro lo Spirito, a Dio insopportabile
(proprio come la mortificazione del prossimo).
La sesta
parola è la prova. L’iniziazione alla vita è
iniziazione alla giustizia dell’amore: passa attraverso la prova, vive la
cognizione del dolore. Lasciare solo l’altro, in questa iniziazione, è la
malattia mortale della comunità umana: il giudizio e la salvezza di Dio si
decidono qui. La settima parola sarà attesa. Il
compimento dell’avventura umana con «la risurrezione dei morti e la vita del
mondo che verrà», secondo la bella espressione del Credo liturgico (più bella
di tutti i nostri ispidi trattati teologici su morte, giudizio, inferno,
purgatorio, paradiso), significa che Gesù desidera che tutti e tutte abbiano la
possibilità di partecipare alla vita di un mondo realmente riconciliato dalle
sue ferite e onorato per le sue lacrime (della quali, troppo spesso, siamo
responsabili).
Fino ad
allora, non lasceremo indietro nessuno per sopravvivere meglio, e
non faremo sacrifici umani per assicurarci una razza superiore. E non
malediremo la vita come se fossimo gli unici a patirne le ingiustizie. Meno
retorica e più umiltà, nel condividere l’attesa di riscatto che accomuna
gli umani e non si estingue con la morte, non ci faranno che bene. La fede va
chiesta a Dio gentilmente, per tutti. E dove meno te l’aspetti, sarà trovata.
Nessun commento:
Posta un commento