CIO' CHE CI PROVOCA ANGOSCIA TENDIAMO A DIMENTICARLO
- -di Franco Vaccari
Il giorno dopo. Dipende da cosa e come si è vissuto quello
prima. Se è stato il “Giorno della Memoria”, il giorno dopo inizia il problema:
come non dimenticare. Perché aveva ragione il poeta: «e involve Tutte cose
l’oblio nella sua notte». A questa legge non si sottrae neanche una ricorrenza
che fa del ricordare il suo stesso contenuto. Certo, non un ricordo qualsiasi,
ma quel ricordo: la Shoah. La Shoah stessa è intrisa fin dal suo orribile
concepimento della dinamica dell’oblio: fu un’idea di eliminazione dall’umanità
di un gruppo di persone, appunto la cancellazione dalla memoria di milioni e
milioni di persone “per la sola colpa di essere nati”. Fu un’azione che
confidava nell’oblio, la sua radice maligna si nutriva di alcuni componenti
costitutivi della persona umana: dimenticare, rimuovere, adattarsi.
Circa il dimenticare non può certo consolarci la forza della
tecnologia che promette di rendere “eterni” i ricordi. Quanto alla rimozione
Sigmund Freud ce lo ha svelato irrevocabilmente: ciò che ci dà angoscia
tendiamo a rimuoverlo. Considerando la forza formidabile ma ambivalente
dell’adattamento, conviene ricordare quanto mi disse una giovane armena: «Cosa
c’è di peggiore della guerra? Adattarsi alla guerra». I testimoni stessi degli
orrori lo sanno bene: ricordare con precisione è un duro impegno per non
rischiare di non essere creduti, prestando il fianco al negazionismo. Se dunque
siamo naturalmente inclini a dimenticare, rimuovere, adattarci, come
raccogliere, il giorno dopo, il messaggio di ricordare che ci viene dal giorno
prima? Evitare, il giorno prima, la dimensione celebrativa che collega la
rilevanza al clima culturale e politico del momento, cioè alla possibilità o
meno di agganciarsi con interessi estranei e di parte.Ma soprattutto,
ricordando che Shoah è una parola di fuoco, evitare la banalizzazione o
l’enfasi eccessiva: nel primo caso sarebbe svuotata di significato, nel secondo
caricata di retorica. Due modi di tradirla. Sì, dobbiamo temere un approccio
superficiale, visivo, collegato a volte agli eventi, ripetuti o ripetitivi, “di
massa”, senza che incidano sui singoli. La ricerca di impatti quantitativi più
che qualitativi.
La Shoah è una vicenda che è nata nell’intimo delle persone,
delle loro relazioni, all’inizio quasi sussurrata e poi cresciuta, ostentata,
urlata e dilagata nella retorica del terrore. Perché non torni più, l’orrore di
quella vicenda – insieme alla forza di chi gli si oppose – deve incidere
nell’intimo delle persone di oggi, delle loro relazioni, abbandonando nuove
retoriche, ostentazioni e urla. Chiede di esserci il giorno dopo; non nelle
riunioni, nelle piazze o nelle televisioni, ma dove si sbriciola nell’ordinarietà
della vita quotidiana.
Perché in quella vita ordinaria, molti anni fa, diligenti
impiegati tedeschi si trasformarono in ubbidienti contabili di morte del Reich
e buoni italiani andarono a denunciare conoscenti ebrei, così come, alcuni anni
dopo, pacifici vicini di casa divennero assassini della porta accanto nei
Balcani, e altri uomini e donne, oggi, in Ucraina, in Israele, a Gaza, stanno
compiendo efferatezze, certamente convinti, nella loro falsa coscienza, di fare
la cosa giusta o di ubbidire agli ordini. I bambini che sopravviveranno a
questi nuovi orrori saranno potenziali incubatori di odio.
Il Giorno della Memoria esige una convinta pratica
quotidiana: così il giorno prima si coniuga con il giorno dopo in una
continuità che si chiama educazione. Conosco una docente di storia che si
guarda bene dal celebrare il Giorno della Memoria. Per lei il 27 gennaio è un
giorno come gli altri perché – dice – nel normale programma di storia i miei
studenti e le mie studentesse vengono a conoscenza della Shoah, si interrogano
con me e ne usciamo inquieti, con domande nuove sul come agire di conseguenza.
Fu una decisione che prese un giorno in cui la sua scuola
aveva dedicato una settimana intera alla Memoria e un suo alunno sincero
esclamò: «Basta con questa Shoah! Non se ne può più». La professoressa fu
intelligente e non reagì, ma il giorno dopo riunì gli studenti e mise a tema
l’intervento politicamente scorretto del loro compagno, senza indignarsi, ma
col gusto di ascoltare. Insieme presero la decisione di «vivere la memoria in
tutto l’anno di storia e non celebrarla».
Mi piacerebbe che ciascuno di noi appartenesse a quella
classe, il giorno dopo, convinto della necessità di andare alla radice di
quello che è accaduto e non solo al suo esito palesemente tragico: come l’odio
ha covato ed è cresciuto nel suo brodo di cultura naturale che è
l’indifferenza. Quella radice, infatti, non è di “allora”, ma è di “oggi”, non
si è sviluppata solo in “quelli là”, ma si può sviluppare, anzi si sta
sviluppando in “noi qua”.
Ciascuno è un portatore sano di una possibilità di
odio e di indifferenza, sulla soglia tra il giorno prima e il giorno dopo c’è
ciascuno di noi. La Memoria di quell’odio diventa allora la memoria del nostro
odio, del mio possibile odio, della mia possibile indifferenza.
www.avvenire.it
Immagine
Nessun commento:
Posta un commento