venerdì 4 luglio 2025

GAZA E LAMECH

 


La tregua di Gaza

 alla prova 

della legge di Lamech




L’accettazione della legge di Lamech ha annullato, 

in diciotto mesi, 

quel diritto internazionale che il mondo democratico 

aveva faticosamente messo al centro della politica mondiale. 

-         di  Giuseppe Savagnone 

Un cattivo precedente

Il presidente americano Trump ha annunciato che Israele ha accettato le condizioni per una tregua di 60 giorni a Gaza, dichiarando di sperare che Hamas accetti la nuova proposta per il cessate il fuoco.

Da parte sua Hamas, per bocca di un suo funzionario, ha dichiarato che il gruppo è «pronto e seriamente intenzionato a raggiungere un accordo (…) che porti chiaramente alla fine completa della guerra». Secondo un’agenzia di stampa saudita, l’organizzazione islamica sarebbe «soddisfatta» delle garanzie incluse nella proposta di tregua che ha ricevuto.

Si profila dunque la possibilità di un arresto delle ostilità che conduca, finalmente, ad una pace? Sia permesso, a chi segue questa guerra dall’inizio, avanzare qualche dubbio.

Intanto, quella che si profila è la seconda tregua di cui Trump si fa promotore. Ce n’è stata un’altra, iniziata il 19 gennaio, scorso e che il governo di Tel Aviv ha rotto unilateralmente, dopo due mesi,  rifiutandosi di passare alla seconda fase, che prevedeva il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia, in vista  di un definitivo accordo di pace.

Bruscamente, il graduale processo di reciproci scambi di ostaggi e di prigionieri fu sostituito da un ultimatum israeliano che chiedeva la liberazione immediata di tutti gli ostaggi senza condizioni.

Secondo gli osservatori probabilmente ha influito su questo voltafaccia lo scontento dei ministri ultraortodossi, esasperati anche per la spettacolarizzazione da parte di Hamas del rilascio degli ostaggi. Qualcuno ha anche fatto notare che, proprio in quei giorni, il premier Netanyahu avrebbe dovuto comparire in aula per il processo che lo vede imputato per corruzione, ma ne è stato esonerato dal tribunale «a causa della ripresa della guerra».

Quale che sia stato il motivo della rottura, Trump, contro ogni evidenza, ne ha addossato la colpa ad Hamas, dicendo che  aveva «scelto la guerra». E subito dopo, ricevendo Netanyahu a Washington, ha rilanciato il suo progetto di fare della Striscia un resort turistico gestito dall’America, lasciando ad Israele il compito di cacciare gli attuali abitanti: «Gaza ha un incredibile valore immobiliare», ha detto.

«Una forza di pace guidata dagli Stati Uniti sarebbe una buona soluzione». Netanyahu ha appoggiato l’idea, sottolineando la volontà di «dare una scelta ai palestinesi», lasciandoli liberi di andarsene “volontariamente”. Dopo di che, gli attacchi israeliani sono ripresi con violenza ancora maggiore, dando luogo alle stragi quotidiane di cui i telegiornali ci trasmettono le immagini. Non è un buon precedente.

«Distruggere Hamas»

Ma c’è anche un motivo più profondo di perplessità sulla riuscita di questa tregua. Fin dall’inizio il conflitto in corso è stato percepito da Israele come uno scontro all’ultimo sangue, che non poteva concludersi finché gli aggressori del 7 ottobre non fossero stati annientati.  In tutti questi mesi il premier israeliano ha continuato a ripetere che la guerra finirà solo con «la distruzione totale di Hamas». Lo aveva detto già all’indomani del 7 ottobre, additando questo come il primo dei due obiettivi a cui Israele non poteva rinunziare.

Il secondo era la liberazione degli ostaggi. Ma anche questo dipendeva dalla «vittoria totale di Israele» contro i terroristi: «Siamo quasi vicini alla vittoria. Se ci arrendiamo ad Hamas non solo non arriveremo al rilascio degli ostaggi, ma ad un secondo massacro (…). Solo la pressione militare agisce per la liberazione degli ostaggi».

Questa logica non è mai stata rimessa in discussione neppure quando Israele ha accettato la prima tregua. E, proprio subito dopo l’annunzio di Trump riguardante la seconda, Netanyahu ha ribadito il suo mantra: la guerra finità solo con l’annientamento di Hamas e la liberazione degli ostaggi da parte dell’Idf.

È evidente che quello che lo Stato ebraico sta accettando è dunque, ancora una volta, solo un cessate il fuoco tattico, finalizzato ad un ulteriore scambio di ostaggi con prigionieri delle carceri israeliane e soprattutto a compiacere le ambizioni di grande pacificatore dell’alleato Trump. Dopo di che, missili e bombe a volontà. Come la prima volta.

Una metamorfosi terrificante

Quello che forse però è il motivo più forte per dubitare che la tregua, ammesso che si avvii, possa portare veramente alla pace, è la drammatica metamorfosi dell’immagine dello Stato ebraico nel corso di questa guerra. Una metamorfosi per cui la vittima dell’atroce violenza del 7 ottobre – che a tutti ha ricordato quella ancora più spaventosa della Shoah – si è trasformata in un perfetto corrispettivo, opposto e simmetrico, dei suoi immediati aggressori e, più indietro nel tempo, dei suoi aguzzini nazisti.

La stessa lucida spietatezza. Lo stesso assoluto disprezzo per le persone. La stessa arrogante pretesa di avere il diritto di violare ogni regola etica e giuridica in nome dell’affermazione non solo della sicurezza, ma – come sempre più chiaramente i fatti stanno dimostrando – della espansione del proprio popolo.

Per sempre nel Giorno della Memoria, dedicata dal mondo intero al dramma della Shoah, fra noi e quella tragedia si frapporranno le immagini spaventose del nuovo Olocausto, di cui gli ebrei israeliani sono stati non le vittime, ma gli autori.

Qualche osservatore ha posto il quesito: che cosa avrebbe dovuto fare Israele dopo il 7 ottobre? Per prima cosa avrebbe dovuto prendere atto della sua parte di responsabilità – si pensi alla Nakba – in quello che era accaduto, invece di respingere con esasperata indignazione l’invito che veniva in questo senso dal Segretario generale dell’ONU. E, su questa base, avrebbe potuto chiedersi se fosse saggio perseverare sul rifiuto – sostenuto fermamente da Netanyahu – della prospettiva dei due Stati e, in questa logica, se non si poteva puntare sulla inimicizia tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Hamas per rafforzare la prima, disposta ormai da tempo al riconoscimento di Israele, ed isolare il secondo.

Invece il governo di Tel Aviv ha voluto mostrare i muscoli e dimostrare che con la sua innegabile superiorità militare poteva schiacciare chi lo aveva aggredito. Così è scattata quella che più che una operazione volta a prevenire, in una logica difensiva, altri attacchi, ha assunto subito lo stile di una vendetta piena di odio. E non nella forma dell’“occhio per occhio, dente per dente”, ma in quella, più arcaica, più selvaggia, di cui parla la Bibbia, mettendo in bocca a Lamech, discendente di Caino (non a caso!), parole piene di orgogliosa tracotanza: «Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette» (Genesi, 4, 23-24).

La legge del taglione, pur nella sua brutalità, si è affermata nelle antiche legislazioni proprio per limitare questa smisuratezza incontrollabile, consentendo all’offeso di replicare solo nei limiti del danno ricevuto.  La risposta di Israele, più che questa logica, ricorda quella di Lamech.

Tanto più sproporzionata, se si pensa che, secondo lo stesso governo israeliano, il responsabile da punire è Hamas e non la popolazione palestinese, la quale ne sarebbe – secondo le autorità ebraiche – solo ostaggio.

Il suicidio di Israele (e dell’Occidente)

È tragico che tutto ciò sia avvenuto – a differenza che nel caso  del nazismo e del terrorismo di Hamas – con il pieno appoggio dell’Occidente, che ha giustificato a lungo questo comportamento in nome dell’aggressione del 7 ottobre.  Come ribadì allora il nostro vice-premier e ministro degli Esteri Antonio Tajani: «Il gruppo terroristico è responsabile di tutto ciò che accade in Medio Oriente». Su questa linea anche la grande stampa che, in Italia (esemplari gli editoriali di Paolo Mieli sul «Corriere della sera» del 24 ottobre e di Ezio Mauro su «Repubblica» del 30 ottobre), accusò i manifestanti che avevano protestato per il massacro dei palestinesi di dimenticare l’episodio decisivo che aveva  determinato l’inizio della guerra. 

E anche adesso che cominciano ad arrivare i riconoscimenti  che la reazione di Israele  è sproporzionata e ha dato luogo a una situazione inaccettabile, le democrazie occidentali continuano non solo a evitare ogni sanzione nei confronti dello Stato ebraico (proprio l’Italia in questi giorni si è opposta a quella che era stata proposta da 17 Stati dell’UE), ma anche a fornirgli le armi con cui sta proseguendo il macello quotidiano di civili.

Anche se ormai è chiaro, da settimane, quello che ha scritto onestamente, già il 19 aprile, il quotidiano di Gerusalemme «Haaretz»:  «Non è più una guerra, ma un assalto sfrenato ai civili. In assenza di veri obiettivi militari, Israele sta conducendo un’offensiva sconsiderata contro coloro che non sono in alcun modo coinvolti nella lotta (…). Ciò che accade non è guerra, ma attacco sfrenato contro persone che non sono coinvolte in questa guerra».

L’operazione «Carri di Gedeone», voluta dagli ultraortodossi, serve solo a eliminare più palestinesi possibile, sfruttando cinicamente la loro disperata ricerca di cibo.

La verità è che lo Stato ebraico ha stupito il mondo con le sue fulminee vittorie  – contro Hezbollah, contro l’Iran, contro gli stessi vertici di Hamas – , ma si trova dopo diciotto mesi a non aver raggiunto nessuno dei due obiettivi che si proponeva, la liberazione degli ostaggi e, soprattutto, l’annientamento di Hamas. 

Per la prima volta nella sua storia, dopo aver stravinto le battaglie, sta perdendo la guerra. E accettare la pace ora significherebbe riconoscerlo. Ma proprio per questo non riesce a fermarsi sulla via di violenza insensata che una storica ebrea, in un suo libro recente, ha definito «il suicidio d’Israele».

E che è purtroppo anche il suicidio delle nostre democrazie, complici, con la loro inerzia, anzi col loro attivo appoggio militare e politico ad Israele, della violazione continua e deliberata della dignità umana di due milioni di persone.

L’accettazione della legge di Lamech ha annullato, in diciotto mesi, quel diritto internazionale che il mondo democratico aveva faticosamente messo al centro della politica mondiale. In nome di che cosa adesso l’Europa protesta per i soprusi russi nei confronti dell’Ucraina? E in nome di che cosa verrà garantita ogni possibile tregua a Gaza? Chi fermerà Lamech?

Rimane aperta la grande via della retorica e della menzogna. Trump testimonia che si può dire tutto il contrario della realtà senza essere smentiti. E così ben venga anche la soddisfazione del nostro governo per il proprio sostegno alla causa palestinese, dopo essersi rifiutato di appoggiare ben quattro mozioni presentate all’ONU in difesa del popolo di Gaza (non di Hamas!) ed essersi opposto alle sanzioni nei confronti di Israele. Seguendo questo stile, si potrà presto esultare per la pace in Palestina.

 www.tuttavia.eu

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