alla prova
della legge di Lamech
L’accettazione della legge di Lamech ha annullato,
in diciotto mesi,
quel diritto internazionale che il mondo democratico
aveva faticosamente messo al centro della politica mondiale.
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di Giuseppe Savagnone
Un cattivo precedente
Il
presidente americano Trump ha annunciato che Israele ha accettato le
condizioni per una tregua di 60 giorni a Gaza, dichiarando di sperare che
Hamas accetti la nuova proposta per il cessate il fuoco.
Da
parte sua Hamas, per bocca di un suo funzionario, ha dichiarato che il gruppo è
«pronto e seriamente intenzionato a raggiungere un accordo (…) che porti
chiaramente alla fine completa della guerra». Secondo un’agenzia di stampa
saudita, l’organizzazione islamica sarebbe «soddisfatta» delle garanzie incluse
nella proposta di tregua che ha ricevuto.
Si
profila dunque la possibilità di un arresto delle ostilità che conduca,
finalmente, ad una pace? Sia permesso, a chi segue questa guerra dall’inizio,
avanzare qualche dubbio.
Intanto,
quella che si profila è la seconda tregua di cui Trump si fa promotore. Ce
n’è stata un’altra, iniziata il 19 gennaio, scorso e che il governo di Tel Aviv
ha rotto unilateralmente, dopo due mesi, rifiutandosi di passare alla
seconda fase, che prevedeva il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia,
in vista di un definitivo accordo di pace.
Bruscamente,
il graduale processo di reciproci scambi di ostaggi e di prigionieri fu
sostituito da un ultimatum israeliano che chiedeva la liberazione immediata di
tutti gli ostaggi senza condizioni.
Secondo
gli osservatori probabilmente ha influito su questo voltafaccia lo scontento
dei ministri ultraortodossi, esasperati anche per la spettacolarizzazione da
parte di Hamas del rilascio degli ostaggi. Qualcuno ha anche fatto notare
che, proprio in quei giorni, il premier Netanyahu avrebbe dovuto comparire
in aula per il processo che lo vede imputato per corruzione, ma ne è stato
esonerato dal tribunale «a causa della ripresa della guerra».
Quale
che sia stato il motivo della rottura, Trump, contro ogni evidenza, ne ha
addossato la colpa ad Hamas, dicendo che aveva «scelto la guerra». E
subito dopo, ricevendo Netanyahu a Washington, ha rilanciato il suo progetto di
fare della Striscia un resort turistico gestito dall’America, lasciando ad
Israele il compito di cacciare gli attuali abitanti: «Gaza ha un incredibile
valore immobiliare», ha detto.
«Una
forza di pace guidata dagli Stati Uniti sarebbe una buona soluzione». Netanyahu
ha appoggiato l’idea, sottolineando la volontà di «dare una scelta ai
palestinesi», lasciandoli liberi di andarsene “volontariamente”. Dopo di che,
gli attacchi israeliani sono ripresi con violenza ancora maggiore, dando luogo
alle stragi quotidiane di cui i telegiornali ci trasmettono le immagini. Non è
un buon precedente.
«Distruggere
Hamas»
Ma
c’è anche un motivo più profondo di perplessità sulla riuscita di questa
tregua. Fin dall’inizio il conflitto in corso è stato percepito da Israele come
uno scontro all’ultimo sangue, che non poteva concludersi finché gli aggressori
del 7 ottobre non fossero stati annientati. In tutti questi mesi il
premier israeliano ha continuato a ripetere che la guerra finirà solo con «la
distruzione totale di Hamas». Lo aveva detto già all’indomani del 7 ottobre,
additando questo come il primo dei due obiettivi a cui Israele non poteva
rinunziare.
Il
secondo era la liberazione degli ostaggi. Ma anche questo dipendeva dalla
«vittoria totale di Israele» contro i terroristi: «Siamo quasi vicini alla
vittoria. Se ci arrendiamo ad Hamas non solo non arriveremo al rilascio degli
ostaggi, ma ad un secondo massacro (…). Solo la pressione militare agisce per
la liberazione degli ostaggi».
Questa
logica non è mai stata rimessa in discussione neppure quando Israele ha
accettato la prima tregua. E, proprio subito dopo l’annunzio di Trump
riguardante la seconda, Netanyahu ha ribadito il suo mantra: la guerra finità
solo con l’annientamento di Hamas e la liberazione degli ostaggi da parte
dell’Idf.
È
evidente che quello che lo Stato ebraico sta accettando è dunque, ancora una
volta, solo un cessate il fuoco tattico, finalizzato ad un ulteriore scambio di
ostaggi con prigionieri delle carceri israeliane e soprattutto a compiacere le
ambizioni di grande pacificatore dell’alleato Trump. Dopo di che, missili e
bombe a volontà. Come la prima volta.
Una
metamorfosi terrificante
Quello
che forse però è il motivo più forte per dubitare che la tregua, ammesso che si
avvii, possa portare veramente alla pace, è la drammatica metamorfosi
dell’immagine dello Stato ebraico nel corso di questa guerra. Una metamorfosi
per cui la vittima dell’atroce violenza del 7 ottobre – che a tutti ha
ricordato quella ancora più spaventosa della Shoah – si è trasformata in un
perfetto corrispettivo, opposto e simmetrico, dei suoi immediati aggressori e,
più indietro nel tempo, dei suoi aguzzini nazisti.
La
stessa lucida spietatezza. Lo stesso assoluto disprezzo per le persone. La
stessa arrogante pretesa di avere il diritto di violare ogni regola etica e
giuridica in nome dell’affermazione non solo della sicurezza, ma – come
sempre più chiaramente i fatti stanno dimostrando – della espansione del
proprio popolo.
Per sempre
nel Giorno della Memoria, dedicata dal mondo intero al dramma della Shoah, fra
noi e quella tragedia si frapporranno le immagini spaventose del nuovo
Olocausto, di cui gli ebrei israeliani sono stati non le vittime, ma gli
autori.
Qualche
osservatore ha posto il quesito: che cosa avrebbe dovuto fare Israele dopo il 7
ottobre? Per prima cosa avrebbe dovuto prendere atto della sua parte di
responsabilità – si pensi alla Nakba – in quello che era accaduto, invece di
respingere con esasperata indignazione l’invito che veniva in questo senso dal
Segretario generale dell’ONU. E, su questa base, avrebbe potuto chiedersi
se fosse saggio perseverare sul rifiuto – sostenuto fermamente da Netanyahu –
della prospettiva dei due Stati e, in questa logica, se non si poteva puntare
sulla inimicizia tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Hamas per rafforzare la
prima, disposta ormai da tempo al riconoscimento di Israele, ed isolare il
secondo.
Invece
il governo di Tel Aviv ha voluto mostrare i muscoli e dimostrare che con la sua
innegabile superiorità militare poteva schiacciare chi lo aveva aggredito. Così
è scattata quella che più che una operazione volta a prevenire, in una logica
difensiva, altri attacchi, ha assunto subito lo stile di una vendetta piena di
odio. E non nella forma dell’“occhio per occhio, dente per dente”, ma in
quella, più arcaica, più selvaggia, di cui parla la Bibbia, mettendo in bocca a
Lamech, discendente di Caino (non a caso!), parole piene di orgogliosa
tracotanza: «Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio
livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette» (Genesi, 4,
23-24).
La
legge del taglione, pur nella sua brutalità, si è affermata nelle antiche
legislazioni proprio per limitare questa smisuratezza incontrollabile,
consentendo all’offeso di replicare solo nei limiti del danno ricevuto.
La risposta di Israele, più che questa logica, ricorda quella di Lamech.
Tanto
più sproporzionata, se si pensa che, secondo lo stesso governo israeliano, il
responsabile da punire è Hamas e non la popolazione palestinese, la quale ne
sarebbe – secondo le autorità ebraiche – solo ostaggio.
Il
suicidio di Israele (e dell’Occidente)
È
tragico che tutto ciò sia avvenuto – a differenza che nel caso del
nazismo e del terrorismo di Hamas – con il pieno appoggio dell’Occidente, che
ha giustificato a lungo questo comportamento in nome dell’aggressione del
7 ottobre. Come ribadì allora il nostro vice-premier e ministro degli
Esteri Antonio Tajani: «Il gruppo terroristico è responsabile di tutto ciò che
accade in Medio Oriente». Su questa linea anche la grande stampa che, in Italia
(esemplari gli editoriali di Paolo Mieli sul «Corriere della sera» del 24
ottobre e di Ezio Mauro su «Repubblica» del 30 ottobre), accusò i manifestanti
che avevano protestato per il massacro dei palestinesi di dimenticare
l’episodio decisivo che aveva determinato l’inizio della guerra.
E
anche adesso che cominciano ad arrivare i riconoscimenti che la reazione
di Israele è sproporzionata e ha dato luogo a una situazione
inaccettabile, le democrazie occidentali continuano non solo a evitare ogni
sanzione nei confronti dello Stato ebraico (proprio l’Italia in questi giorni
si è opposta a quella che era stata proposta da 17 Stati dell’UE), ma anche a
fornirgli le armi con cui sta proseguendo il macello quotidiano di civili.
Anche
se ormai è chiaro, da settimane, quello che ha scritto onestamente, già il 19
aprile, il quotidiano di Gerusalemme «Haaretz»: «Non è più una
guerra, ma un assalto sfrenato ai civili. In assenza di veri obiettivi militari,
Israele sta conducendo un’offensiva sconsiderata contro coloro che non sono in
alcun modo coinvolti nella lotta (…). Ciò che accade non è guerra, ma attacco
sfrenato contro persone che non sono coinvolte in questa guerra».
L’operazione
«Carri di Gedeone», voluta dagli ultraortodossi, serve solo a eliminare più
palestinesi possibile, sfruttando cinicamente la loro disperata ricerca di
cibo.
La
verità è che lo Stato ebraico ha stupito il mondo con le sue fulminee
vittorie – contro Hezbollah, contro l’Iran, contro gli stessi
vertici di Hamas – , ma si trova dopo diciotto mesi a non aver raggiunto
nessuno dei due obiettivi che si proponeva, la liberazione degli ostaggi e,
soprattutto, l’annientamento di Hamas.
Per
la prima volta nella sua storia, dopo aver stravinto le battaglie, sta perdendo
la guerra. E accettare la pace ora significherebbe riconoscerlo. Ma proprio per
questo non riesce a fermarsi sulla via di violenza insensata che una storica
ebrea, in un suo libro recente, ha definito «il suicidio d’Israele».
E
che è purtroppo anche il suicidio delle nostre democrazie, complici, con la
loro inerzia, anzi col loro attivo appoggio militare e politico ad Israele,
della violazione continua e deliberata della dignità umana di due milioni di
persone.
L’accettazione
della legge di Lamech ha annullato, in diciotto mesi, quel diritto
internazionale che il mondo democratico aveva faticosamente messo al centro
della politica mondiale. In nome di che cosa adesso l’Europa protesta per i
soprusi russi nei confronti dell’Ucraina? E in nome di che cosa verrà garantita
ogni possibile tregua a Gaza? Chi fermerà Lamech?
Rimane
aperta la grande via della retorica e della menzogna. Trump testimonia che si
può dire tutto il contrario della realtà senza essere smentiti. E così ben
venga anche la soddisfazione del nostro governo per il proprio sostegno alla
causa palestinese, dopo essersi rifiutato di appoggiare ben quattro mozioni
presentate all’ONU in difesa del popolo di Gaza (non di Hamas!) ed essersi
opposto alle sanzioni nei confronti di Israele. Seguendo questo stile, si potrà
presto esultare per la pace in Palestina.
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