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venerdì 14 giugno 2024

GIORGIA REGINA

 

Il trionfo della Meloni



-         di Giuseppe Savagnone*


Per una volta tutti gli osservatori concordano su un dato di fatto che appare indiscutibile: la vincitrice di queste elezioni europee, in Italia – e non solo in Italia – è Giorgia Meloni.

Ha impostato la campagna elettorale come un referendum, non tanto sul modello di Europa, quanto sulla sua persona – «scrivete Giorgia» – , e l’ha avuto: 2 mln e mezzo di voti, un trionfo.

Voleva un referendum sul suo partito, Fdi, e c’è stato: il 26% delle politiche, indicato alla vigilia come il risultato da confermare, è stato ampiamente superato da un risultato che si avvicina al 29%, il triplo dei voti degli alleati di Forza Italia (9,7%) e Lega (9,1%).

Voleva un referendum sul governo, a più di un anno e mezzo dalla sua entrata in carica, e tutti e tre i partiti che lo compongono escono rafforzati, in percentuale, rispetto alle politiche, dalla tornata elettorale.

Il successo della Meloni è reso più clamoroso se lo si colloca in un quadro europeo che ha visto tutti i partiti di governo più o meno pesantemente sconfitti e che consente perciò alla nostra premier di presentarsi alla guida del G7 come l’unica “anatra saltellante” – come ha scritto Paolo Garimberti – in un consesso di “anatre zoppe”.

 L’astensionismo

Eppure, non mancano, in questo quadro radioso, delle ombre. Per la prima volta, alle elezioni europee è andato a votare meno di un italiano su due degli aventi diritto. La partecipazione si è attestata al 49,7%, cinque punti percentuali in meno rispetto alla precedente tornata elettorale del 2019, quando avevano votato il 54,5%.

 È il punto più basso una linea in continua discesa. Nel 1979, prima elezione a suffragio universale dell’europarlamento, aveva votato oltre l’85% degli italiani. Da allora l’affluenza alle urne ha subito un calo continuo e inesorabile. Il più vistoso è stato quello che dall’81,07% del 1989 – ancora nel quadro della Prima Repubblica – la fece precipitare al 73,60% del 1994, quando si era da poco insediato il primo governo di Silvio Berlusconi. Per scendere poi al 71,02% del 2004, al 65,05% del 2009, al 57,02% del 2014 e al 54,05% del 2019. E ora siamo al 49,69%.

Un calo che corrisponde, del resto, a quello registrato alle politiche che, il 25 settembre 2022, hanno visto un’affluenza alle urne pari al 63,9%, anche in questo caso il dato più basso di sempre, nettamente in diminuzione anche rispetto al 2018, quando ai seggi elettorali si è recato il 72,93% degli aventi diritto al voto.

Per avere un’idea delle proporzioni del fenomeno, si pensi che fino al 1979 la percentuale dei votanti non era mai scesa sotto il 90% e ancora nel 2001era stata dell’81,35%. A quanto pare, la Seconda Repubblica – nata, alla fine del secolo scorso, con la “discesa in campo” di Berlusconi, sull’onda di una reazione nei confronti della Prima e della “casta” che la governava – , ha dato luogo, invece che a un rafforzamento della partecipazione democratica, a un crescente distacco della gente dalla politica.

Qualcuno obietterà che quello dell’8 e 9 giugno è il risultato di elezioni europee, tradizionalmente meno sentite dall’elettorato. Ma proprio queste ultime, come abbiamo prima notato, sono state interpretate in chiave quasi esclusivamente nazionale.

Basti ricordare che il voto alla Meloni era chiesto non per farla andare al Parlamento europeo  – ovviamente impensabile, dato il suo ruolo –  ma per esprimere il consenso alla sua linea politica in Italia.

Le percentuali e i numeri reali

È la riduzione di votanti causata dall’astensionismo a spiegare come mai i tre partiti che compongono la maggioranza di governo, pur mantenendo alte percentuali relative, abbiano in realtà raccolto, in questa tornata elettorale, circa 11 milioni di voti, rispetto ai 13,2 milioni delle precedenti elezioni europee del 2019 (quando non erano tutti e tre insieme al governo), perdendo ben 2,2 milioni di voti. Che non è poco. Col risultato che l’attuale coalizione di governo che, dopo le politiche rappresentava il 24,7% del corpo elettorale, ora è scesa addirittura al 22,7%.

Anche rispetto alle ultime elezioni politiche Fratelli d’Italia, ha sì accresciuto la propria quota percentuale dal 25,98% al 28,81%, ma perdendo qualcosa come 600 mila voti: da 7,3 a 6,7 milioni.

Anche la Lega, pur crescendo dall’8,79% al 9%, ha perso, rispetto alle politiche, 380 mila consensi: nonostante la valanga di 500 mila preferenze per il generale Vannacci. Unico partito nell’attuale maggioranza a rimanere quasi stabile dal punto di vista numerico è Forza Italia.

La fuga del Meridione

A questa flessione, mascherata dalle percentuali (che tengono conto non degli aventi diritto ma solo degli effettivi votanti), si aggiunge un altro motivo che dovrebbe far riflettere chi è al governo, ed è il fatto che l’astensionismo si è verificato soprattutto al Sud.

 In Sardegna e in Sicilia (circoscrizione Isole), ad esempio, si è registrato un tasso di partecipazione del 37,31% mentre nel resto dell’Italia meridionale (circoscrizione Sud) non è andato oltre il 43,73%. Insomma, mentre le altre tre circoscrizioni – quella Nord Occidentale, quella Nord Orientale e quella Centrale hanno superato ampiamente il 50% dei votanti, in queste il 60% degli elettori ha disertato le urne. La gente del Meridione abbandona la politica e lo Stato, da cui non sente rappresentata. E si capisce.

Ha commentato un noto economista, Emanuele Felice, in un articolo intitolato «Il Sud tradito si vendica delle destre. I dubbi di Meloni sull’autonomia»: «Il governo Meloni è uno dei più antimeridionali della storia d’Italia e i cittadini del Sud se ne sono accorti. Hanno ormai capito, innanzi tutto, che l’autonomia differenziata è stata un colpo mortale per il Mezzogiorno. Senza risorse aggiuntive, che non ci sono né potranno esserci, nelle regioni meridionali mancheranno presto i soldi per i servizi essenziali ai cittadini, dai diritti fondamentali al funzionamento dell’amministrazione» («Domani» del 12/6/24).

Proprio in questi giorni il disegno di legge sull’autonomia differenziata, che è già stato approvato al Senato, è in discussione alla Camera, tra incidenti clamorosi e perfino violenze fisiche tra maggioranza e opposizione. E passerà. Ma che cosa implica questo per il rapporto del governo con il Sud?

Due riforme che si contraddicono

Forse la domanda potrebbe essere più radicale: che cosa implica per il nostro paese? I vescovi italiani recentemente hanno messo in guardia: «Il progetto di legge con cui vengono precisate le condizioni per l’attivazione dell’autonomia differenziata rischia di minare le basi di quel vincolo di solidarietà tra le diverse Regioni, che è presidio al principio di unità della Repubblica».

È paradossale che la Meloni, formata a una tradizione politica che sottolinea l’identità e l’unità della Nazione, si stia assumendo la responsabilità storica di una riforma che, a detta di molti, porterà inesorabilmente alla sua disintegrazione. I poteri assegnati alle regioni autonome sono così ampi da renderle ben poco dipendenti dal governo centrale. La nostra presidente del Consiglio insiste sulla necessità di un premierato forte – la «madre di tutte le riforme» – , ma forse dovrebbe chiedersi se questo progetto a lei così caro non sia in rotta di collisione con quello che il suo governo sta di fatto varando, sotto impulso della Lega.

La verità è che nel programma elettorale della destra le due spinte contraddittorie sono state entrambe accolte, allargando il campo dei consensi e portando la coalizione alla vittoria. Ma ora i nodi vengono al pettine. E ad avere la meglio sembra quella di Salvini e Calderoli, realizzando l’originario sogno leghista di un Nord finalmente sganciato dalla palla al piede del Sud e dalla dipendenza da “Roma ladrona”.

Ma così la Meloni rischia di diventare la premier “forte” di un paese diviso tra un Nord che ormai, essendo autonomo, sarà poco vincolato dalle sue decisioni, e un Sud sempre più immiserito e lontano dallo Stato. Il suo sogno – una ragazza di borgata che alla fine diventa regina – potrebbe allora trasformarsi nella triste scoperta di essere la regina del nulla.

*Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura, Arcidiocesi Palermo

www.tuttavia.eu


venerdì 27 gennaio 2023

UNA GIORNATA DELLA MEMORIA ... PER IL SUD




- di Giuseppe Savagnone *

 -  Il rischio delle celebrazioni ufficiali

- Sui giornali è stata abbondantemente celebrata, con una fioritura di titoli ad effetto, la “Giornata della Memoria”, sottolineando, giustamente, la necessità di educare le nuove generazioni a non dimenticare gli orrori dell’Olocausto. Ha indubbiamente costituito un incentivo il monito dolente di Liliana Segre riguardo al pericolo che, col trascorrere del tempo, vada attenuandosi, fino a spegnersi del tutto, l’indignazione per quanto è accaduto.

Il grande rischio di queste corali rievocazioni, tuttavia, è che esse finiscano per trasformarsi in rituali che, concentrando l’attenzione sui drammi del passato, distolgono lo sguardo da quelli del presente. Perché la memoria di ciò che di terribile hanno fatto i nostri padri – a perseguitare gli ebrei non sono stati solo i tedeschi, ma anche gli italiani! –  ha un senso solo se ci spinge a chiederci se non siamo anche noi passivi spettatori, e per ciò stesso complici, di nefandezze magari meno atroci, ma comunque tali da offendere l’umana dignità di tante persone.

Sarebbe facile osservare che, mentre continuiamo a ripetere, con sincera commozione, il nostro “Mai più!” a proposito delle persecuzioni  razziali contro gli ebrei, il governo italiano – col vento in poppa nei sondaggi – favorisce l’accoglienza dei profughi ucraini, ma perseguita sistematicamente i migranti che vengono dall’Africa, cercando di ostacolare come può l’opera di soccorso delle navi delle Ong e costringendo i poveracci tratti in salvo a lunghissimi tragitti in mare, in condizioni estremamente disagiate, prima di potere sbarcare. E forse i nostri figli dovranno istituire una “Giornata della Memoria” in cui ricordare le migliaia di vittime annegate in questi anni nel Mediterraneo fra l’indifferenza generale.

Il naufragio del Meridione

Ma c’è un’altra mostruosità ancora più vicina a noi – e forse proprio per questo invisibile ai nostri occhi – con cui continuiamo tranquillamente a convivere, ed è il divario crescente tra Nord e Sud d’Italia. In un bell’articolo su «Avvenire» del 27 gennaio scorso Roberto Petrini riferisce i dati del più recente rapporto Istat su questo tema: «Il Sud si sta spopolando: nell’ultimo decennio la popolazione è calata di 642mila unità, contro una crescita di 335mila nel Centro-Nord». E ad andarsene, per mancanza di prospettive di lavoro, sono i giovani, soprattutto i più qualificati, che lasciano dietro di sé il deserto.

Per rendersi conto dell’abisso, basta guardare il Pil pro capite, che nelle regioni meridionali «è circa la metà, 55-58%, di quello del Centro Nord: 18mila euro contro 33mila euro». Oppure la scolarizzazione: «Nel 2020 il 32% dei meridionali in età adulta aveva concluso al più la terza media, al Centro-Nord la percentuale scende al 24,5%». E poi i servizi: «L’obsolescenza delle reti idriche segna tre quarti delle Province del Mezzogiorno (nel Centro-Nord solo un quarto)». Per non parlare della sanità…

Quasi una secessione

Non si può dire che il governo attuale non stia facendo nulla, di fronte a questa situazione: sta preparando, su impulso della Lega, un’autonomia regionale che consentirà alle regioni del Nord di utilizzare in proprio le loro risorse economiche, lasciando al loro destino quelle meridionali. Recentemente il ministro per gli affari Regionali, Roberto Calderoli, ha presentato alla conferenza Stato-Regioni una proposta per l’attuazione del “regionalismo differenziato”, del resto chiaramente previsto dal programma della coalizione che gli italiani hanno premiato col loro voto.

In base al progetto del ministro leghista – di cui recentemente Salvini ha detto che «sarà realtà nel 2023» – alcune regioni, che già scalpitano per essere sciolte dai vincoli di solidarietà nazionale che ne limitano i poteri: Lombardia, Veneto e Friuli-Venezia Giulia (ma in pole position ci sono pure Emilia-Romagna e Toscana), potrebbero organizzare e gestire autonomamente il sistema scolastico quello sanitario, quello energetico, quello dei trasporti (porti, aeroporti). Per citare solo alcune delle ventitré materie che sarebbero devolute dallo Stato ai governi regionali. Quasi una secessione.

È in questo contesto che Giuseppe Valditara, ministro (anche lui leghista) dell’Istruzione e del Merito, ha proposto, suscitando  varie e opposte reazioni, una differenziazione degli stipendi degli insegnanti in base al costo della vita nel luogo in cui vivono, dicendosi anche disposto ad aprire al finanziamento privato delle scuole pubbliche.

In sé, l’idea non è affatto assurda, perché è vero che un professore, che a Noto o a Reggio Calabria col suo stipendio può vivere decentemente, a Milano è un poveraccio. Ma un testo va letto alla luce del contesto. E le parole di Valditara non possono non far venire alla mente il progetto di Calderoli – suo compagno di partito – sui sistemi scolastici autonomi. Tanto più che il riferimento ai finanziamenti privati – subito rimangiato dal ministro, ma evidentemente presente nel suo pensiero – si presta perfettamente a una riorganizzazione della scuola in funzione di esigenze territoriali.

La linea del governo

Perché, invece, non alzare gli stipendi a tutti gli insegnanti italiani, portandoli ai livelli degli altri paesi europei? Di questo Valditara non ha parlato. Perché lo Stato non ha i soldi. Ma non li ha anche perché la Destra (con la complicità della “Sinistra”) si è sempre aspramente opposta ad ogni riforma fiscale che colpisca i ricchi – emblematica la bassissima tassa di successione, assurdamente inferiore, nel nostro paese, a quella di tutto il resto d’Europa! – e, ora che è al governo, ha anzi nel suo programma di favorirli con la flat tax, che abolisce la progressione delle imposte a vantaggio dei redditi più cospicui.

Quel che è certo è che per il Sud non si prospetta un futuro migliore, anzi… Si dirà che questa è la democrazia: evidentemente gli elettori italiani – e non certo solo da ora – non sembrano avere particolarmente a cuore la soluzione di questo problema e anzi, con le loro ultime scelte, hanno avallato una linea che esaspererà il divario tra regioni povere e regioni ricche.

Con i costi umani che saranno pagati dai più deboli economicamente e socialmente. In Italia, secondo le statistiche ufficiali, ci sono cinque milioni e mezzo di persone in condizione di povertà assoluta, la maggior parte nel Meridione, destinate a essere sempre più emarginate e costrette a vivere in condizioni di crescente indigenza.

Certo, non è un sacrificio umano neppure lontanamente paragonabile all’Olocausto. Ma è una ferita profonda a uomini e donne che vorrebbero anche loro vivere in pienezza. Perciò vorremmo tanto che, mentre ci indigniamo per quello che è accaduto nel passato e ci sforziamo di non perderne la memoria, provassimo a essere meno indifferenti verso quello che accade nel presente e sta per accadere nel futuro a questi uomini e a queste donne.  Per evitare che i nostri figli debbano istituire una “Giornata della Memoria” per quello che è stato fatto al Sud.

 * Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo,

Scrittore ed Editorialista.


 www.tuttavia.eu 


sabato 25 settembre 2021

STATO E MAFIA, UNA VICENDA CHE C'INTERROGA

- di Giuseppe Savagnone *


 Alterne vicende giudiziarie

Ha destato reazioni contrastanti l’assoluzione piena dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, da parte della Corte d’assise d’appello di Palermo. Nella sentenza di primo grado, tre anni e mezzo fa, l’ex collaboratore e “braccio destro” di Berlusconi era stato condannato a dodici anni di carcere come «cinghia di trasmissione» tra i clan e gli interlocutori istituzionali, nella cosiddetta “trattativa Stato-mafia”, volta a convincere la mafia a desistere dalla strategia stragista, in cambio di un’attenuazione dell’art. 41-bis che prevedeva il carcere duro per i boss.

Perplessità o in qualche caso sdegno si registrano nei commenti della sinistra, mentre esultano i giornali di destra.  «Una sentenza di verità», titola uno di essi. Altri parlano di una «bufala» finalmente smascherata e della fine di una «persecuzione».

Non sono molti, stranamente, a ricordare che in realtà Dell’Utri è appena reduce da una condanna a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, inflittagli nel 2013 dalla Corte d’Appello di Palermo e confermata nel 2014 dalla Corte di Cassazione, perché ritenuto il mediatore di un patto tra Berlusconi e la mafia siciliana. Pena ridotta a poco più di cinque anni e scontata in parte in carcere, in parte agli arresti domiciliari. L’ulteriore condanna, ora annullata, si aggiungeva a questa, ormai passata agli atti e consegnata alla storia.

Siamo dunque davanti a una vicenda giudiziaria da leggere in un contesto più ampio, che peraltro va ben al di là degli anni della Seconda Repubblica e che è il caso di ricostruire, senza fermarsi alle polemiche contingenti, alla luce di una storia che comincia con l’unità d’Italia. Perché in questo caso, come in tanti altri, il presente si capisce meglio alla luce del passato e una società senza memoria, come la nostra, rischia di non cogliere il senso più profondo di quello che sta vivendo.

Le radici del problema: come gestire l’unità d’Italia?

È la storia a dirci che, dopo l’unità, il problema dei rapporti tra Nord e Sud diventò drammatico. I governi della cosiddetta “Destra storica”, formati, dopo il 1861, da piemontesi e toscani, non capivano nulla della mentalità e delle esigenze del Meridione e concepivano l’unificazione come una proiezione su di esso della legislazione del Piemonte. Si era fatta l’Italia ma, secondo l’espressione di D’Azeglio, bisognava ora «fare gli italiani». Solo che si stentava a rinunziare a un modello univoco di unità e di cittadinanza, che era indigeribile da Roma in giù. Senza parlare dei disastrosi effetti che l’unità ebbe per le manifatture del Sud, travolte dal mercato unico, che le esponeva alla concorrenza vincente di quelle settentrionali.

Da qui il brigantaggio meridionale, affrontato con tremenda durezza grazie alla legge Pica. Da qui la ribellione di Palermo, nel 1866, repressa a cannonate dalla flotta italiana.

Il modello rigido di unità voluto dalla “Destra storica” costava insomma troppe lacrime e sangue e non funzionava. Da qui la proposta fatta dalla “Sinistra” (anche questa liberale), che vinse le elezioni del 1876 alleandosi con le classi dirigenti meridionali, a cui si prometteva un ampio campo autonomo d’azione, in cambio di una fedeltà sostanziale al nuovo Regno.

Si deve a questa alleanza se un ampio sottobosco di malavitosi al servizio dei notabili siciliani poté fiorire e consolidare il proprio potere incuneandosi tra la popolazione e lo Stato, percepito al Sud come lontano e minaccioso. Siamo alle origini prossime (quelle remote risalgono alla dominazione spagnola) del potere della mafia, che poté avvalersi anche di una tacita “alleanza” con la Chiesa, anch’essa emarginata dal nuovo sistema politico.

«Il ministro della malavita»

Tutto questo, naturalmente, richiedeva il mantenimento di un compromesso costante fra i governi liberali di Roma e questi centri di potere che operavano spesso oltre i margini della legalità, e che però erano utili per convogliare i voti e appoggiare i partiti di governo. Uno scambio di favori che funzionò. Al punto che ben due primi ministri del Regno, dopo la svolta, Crispi e Di Rudinì, furono siciliani. In un contesto che però si basava sull’abbandono del Meridione alle sue tendenze più regressive.

Si spiega così perché Giolitti, il più importante, forse, tra i nostri presidenti del Consiglio, autore di una politica innovativa che ha segnato una svolta nella nostra storia, sia stato però definito da Gaetano Salvemini, nel titolo di un suo libro, «il ministro della malavita» proprio per la sua compromissione con casi di clientelismo e di corruzione verificatisi nell’Italia del Sud.

La tacita convivenza tra Stato e Mafia, dal dopoguerra in poi

Non si può non tenere presente questa storia quando si parla di quella, già molto più vicina a noi, dei governi democristiani del dopoguerra. È famoso il caso dell’on. Andreotti, più volte presidente del Consiglio, finito sotto processo per associazione mafiosa. Tra le accuse rivolte all’uomo politico c’era quella di avere baciato, durante un suo viaggio in Sicilia, il boss Riina. Non so se l’accusa fosse vera – come è noto Andretti alla fine fu assolto (in parte per sopravvenuta prescrizione) –, ma è certo che il suo uomo di fiducia nell’Isola, Salvo Lima, svolgeva la funzione di “proconsole” e aveva stretti rapporti con la mafia (da cui infatti venne ucciso in un agguato, probabilmente per non aver rispettato gli accordi).

Non si trattava, peraltro, di un problema legato a una sola persona. Ancora una volta una stupefacente mancanza di memoria storica fa sì che si riversino solo su Andreotti le responsabilità di questa collusione con la mafia e non si ricordi che Lima, prima di essere andreottiano, aveva fatto parte, insieme a Vito Ciancimino e Giovanni Gioia, di un terzetto di spregiudicati politici legati ad Amintore Fanfani (anch’egli una grande personalità della storia della Democrazia cristiana).

A rendere più facile questa convivenza pacifica e perfino collaborativa tra uomini di governo e mafia sono state, a lungo, la sottovalutazione della gravità del fenomeno mafioso e una certa tendenza a valorizzarne, addirittura, la pretesa funzione di “forza d’ordine”, in una società come quella siciliana, in cui lo Stato non riusciva spesso ad avere il controllo del territorio.

È impressionante che ancora nel gennaio del 1955, il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, Giuseppe Guido Loschiavo, in occasione della morte di Calogero Vizzini, ritenuto il vertice della gerarchia mafiosa, abbia potuto tranquillamente scrivere su una rivista giuridica: «Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi e ai fuorilegge (…) ha affiancato addirittura le forze dell’ordine (…) Oggi si fa il nome di un autorevole successore nella carica tenuta da Don Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto alle leggi dello Stato e del miglioramento sociale della collettività». Lascio immaginare a chi legge cosa accadrebbe oggi se un alto magistrato scrivesse qualcosa di simile.

Non c’è da stupirsi, perciò, che una certa forma di “collaborazione” tra Stato e mafia si sia a lungo mantenuta e abbia dato luogo a una logica ricorrente, di cui naturalmente, finita l’era democristiana, ha verosimilmente fruito il nuovo potere berlusconiano. Qui il “proconsole” è stato – secondo la sentenza del 2014 – Marcello Dell’Utri. Con ottimi risultati: nelle elezioni del 2001 la Casa delle libertà fece, in Sicilia, un impressionante en plein, vincendo in tutti i sessantun collegi uninominali in ballo (20 al senato e 41 alla Camera). Un risultato che, per chi conosce l’ambiente umano dell’Isola, sarebbe inspiegabile senza l’aiuto dei “poteri forti” che controllano il territorio.

L’urgenza di un reale cambiamento culturale

Tutto questo, ovviamente, non implica alcuna critica alla sentenza della Corte d’assise d’appello di Palermo. C’è una “verità processuale”, che risulta da un complesso di fattori emersi nel giudizio, di cui il giudice deve tenere conto – carte, testimonianze, etc. – e che, in uno Stato di diritto, deve prevalere sulle convinzioni extragiudiziali presenti nell’opinione pubblica o nella mente degli stessi giudici.

La verità – nel nudo significato di questo termine, che implica una aderenza ai fatti reali – può non coincidere con quella accertabile nel processo. Ed è giusto che sia così. Solo negli Stati totalitari si può condannare qualcuno prescindendo dalle prove che si hanno contro di lui.

Peraltro, al di là del caso Dell’Utri, da quanto detto nascono domande inquietanti che riguardano il Meridione – in particolare ho presente la Sicilia –, il suo passato, ma soprattutto il suo presente e il suo futuro. Quella che emerge è la storia di un popolo che, pur con le sue grandi qualità umane, non è mai riuscito ad avere una vera coscienza del bene comune ed è rimasto in una certa misura prigioniero di logiche feudali e familiste, di cui la mafia è sta l’espressione criminale.

Il problema, perciò, non è solo Cosa Nostra, ma una mentalità, una cultura che l’ha alimentata e continua a essere presente, in forme meno eclatanti, nell’amministrazione pubblica, nell’esercizio dei diritti politici, nella vita quotidiana dei privati.

È da questa cultura che derivano molti mali del Sud. Non possono bastare i soldi del Recovery Fund a superarli – quanti finanziamenti, in passato (si pensi alla Cassa per il Mezzogiorno) sono andati a vuoto, sperperati o finiti nelle tasche dei mafiosi! –, se non sopravvengono un atteggiamento e uno stile diverso da parte delle persone.

Non mancano, per fortuna, persone e gruppi che lottano con tutte le loro forze per il cambiamento. Ma bisogna riconoscere che è una battaglia ancora lontana dall’essere vinta. È su questa battaglia culturale che oggi più che mai bisogna concentrarsi. Perché la politica, in Sicilia e in tutto il Sud, non sia più inquinata da logiche perverse che produrranno sempre, se non vengono corrette, i frutti avvelenati che nessuna sentenza di assoluzione può nascondere.

 

*Ufficio Cultura Diocesi Palermo

 

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lunedì 6 dicembre 2010

VERSO I 150 ANNI DELL'UNITA' D'ITALIA

“Nelle elezioni trionfa danaro, il favore, l‟imbroglio; ma non accettare tali mezzi è considerato come ingenuità imperdonabile… Tutto cade. Ogni ideale svanisce. I partiti non esistono più, ma soltanto gruppetti e clientele. Dal parlamento il triste spettacolo si ripercuote nel paese. Ogni partito è scisso. Le grandi forze cedono di fronte a uno spappolamento e disgregamento morale di tutti i centri d‟unione.”


Di quale Italia si parla? Di quella di oggi? In realtà si tratta di un testo di Giuseppe Prezzolini di cento anni fa, alla vigilia del cinquantenario dell‟Unità del 1911. Allora, la monarchia e il governo di Giolitti investirono molto sul “giubileo della patria”, culmine del processo di costruzione nazionale del Risorgimento. Ma anche allora, come si è visto, il paese e la politica sembravano in acque torbide secondo un illustre osservatore, come Prezzolini.......
 
Così il prof. Andrea Riccardi nella relazione introduttiva al X Forum del Progetto Culturale della CEI sui 150 anni dell'unità d'Italia svoltosi nei giorni scorsi a Roma.
 
Leggi l'intervento: IDENTITA' E MISSIONE