- di Giuseppe Savagnone *
- Sui
giornali è stata abbondantemente celebrata, con una fioritura di titoli ad
effetto, la “Giornata della Memoria”, sottolineando, giustamente, la necessità
di educare le nuove generazioni a non dimenticare gli orrori dell’Olocausto. Ha
indubbiamente costituito un incentivo il monito dolente di Liliana Segre
riguardo al pericolo che, col trascorrere del tempo, vada attenuandosi, fino a
spegnersi del tutto, l’indignazione per quanto è accaduto.
Il
grande rischio di queste corali rievocazioni, tuttavia, è che esse finiscano
per trasformarsi in rituali che, concentrando l’attenzione sui drammi del
passato, distolgono lo sguardo da quelli del presente. Perché la memoria di ciò
che di terribile hanno fatto i nostri padri – a perseguitare gli ebrei non sono
stati solo i tedeschi, ma anche gli italiani! –
ha un senso solo se ci spinge a chiederci se non siamo anche noi passivi
spettatori, e per ciò stesso complici, di nefandezze magari meno atroci, ma
comunque tali da offendere l’umana dignità di tante persone.
Sarebbe
facile osservare che, mentre continuiamo a ripetere, con sincera commozione, il
nostro “Mai più!” a proposito delle persecuzioni razziali contro gli ebrei, il governo
italiano – col vento in poppa nei sondaggi – favorisce l’accoglienza dei
profughi ucraini, ma perseguita sistematicamente i migranti che vengono
dall’Africa, cercando di ostacolare come può l’opera di soccorso delle navi
delle Ong e costringendo i poveracci tratti in salvo a lunghissimi tragitti in
mare, in condizioni estremamente disagiate, prima di potere sbarcare. E forse i
nostri figli dovranno istituire una “Giornata della Memoria” in cui ricordare
le migliaia di vittime annegate in questi anni nel Mediterraneo fra
l’indifferenza generale.
Il
naufragio del Meridione
Ma
c’è un’altra mostruosità ancora più vicina a noi – e forse proprio per questo
invisibile ai nostri occhi – con cui continuiamo tranquillamente a convivere,
ed è il divario crescente tra Nord e Sud d’Italia. In un bell’articolo su
«Avvenire» del 27 gennaio scorso Roberto Petrini riferisce i dati del più
recente rapporto Istat su questo tema: «Il Sud si sta spopolando: nell’ultimo
decennio la popolazione è calata di 642mila unità, contro una crescita di
335mila nel Centro-Nord». E ad andarsene, per mancanza di prospettive di
lavoro, sono i giovani, soprattutto i più qualificati, che lasciano dietro di
sé il deserto.
Per
rendersi conto dell’abisso, basta guardare il Pil pro capite, che nelle regioni
meridionali «è circa la metà, 55-58%, di quello del Centro Nord: 18mila euro
contro 33mila euro». Oppure la scolarizzazione: «Nel 2020 il 32% dei
meridionali in età adulta aveva concluso al più la terza media, al Centro-Nord
la percentuale scende al 24,5%». E poi i servizi: «L’obsolescenza delle reti
idriche segna tre quarti delle Province del Mezzogiorno (nel Centro-Nord solo
un quarto)». Per non parlare della sanità…
Quasi
una secessione
Non
si può dire che il governo attuale non stia facendo nulla, di fronte a questa
situazione: sta preparando, su impulso della Lega, un’autonomia regionale che
consentirà alle regioni del Nord di utilizzare in proprio le loro risorse
economiche, lasciando al loro destino quelle meridionali. Recentemente il
ministro per gli affari Regionali, Roberto Calderoli, ha presentato alla
conferenza Stato-Regioni una proposta per l’attuazione del “regionalismo
differenziato”, del resto chiaramente previsto dal programma della coalizione
che gli italiani hanno premiato col loro voto.
In
base al progetto del ministro leghista – di cui recentemente Salvini ha detto
che «sarà realtà nel 2023» – alcune regioni, che già scalpitano per essere
sciolte dai vincoli di solidarietà nazionale che ne limitano i poteri:
Lombardia, Veneto e Friuli-Venezia Giulia (ma in pole position ci sono pure
Emilia-Romagna e Toscana), potrebbero organizzare e gestire autonomamente il
sistema scolastico quello sanitario, quello energetico, quello dei trasporti
(porti, aeroporti). Per citare solo alcune delle ventitré materie che sarebbero
devolute dallo Stato ai governi regionali. Quasi una secessione.
È
in questo contesto che Giuseppe Valditara, ministro (anche lui leghista)
dell’Istruzione e del Merito, ha proposto, suscitando varie e opposte reazioni, una
differenziazione degli stipendi degli insegnanti in base al costo della vita
nel luogo in cui vivono, dicendosi anche disposto ad aprire al finanziamento
privato delle scuole pubbliche.
In
sé, l’idea non è affatto assurda, perché è vero che un professore, che a Noto o
a Reggio Calabria col suo stipendio può vivere decentemente, a Milano è un
poveraccio. Ma un testo va letto alla luce del contesto. E le parole di
Valditara non possono non far venire alla mente il progetto di Calderoli – suo
compagno di partito – sui sistemi scolastici autonomi. Tanto più che il
riferimento ai finanziamenti privati – subito rimangiato dal ministro, ma
evidentemente presente nel suo pensiero – si presta perfettamente a una
riorganizzazione della scuola in funzione di esigenze territoriali.
La
linea del governo
Perché,
invece, non alzare gli stipendi a tutti gli insegnanti italiani, portandoli ai
livelli degli altri paesi europei? Di questo Valditara non ha parlato. Perché
lo Stato non ha i soldi. Ma non li ha anche perché la Destra (con la complicità
della “Sinistra”) si è sempre aspramente opposta ad ogni riforma fiscale che
colpisca i ricchi – emblematica la bassissima tassa di successione,
assurdamente inferiore, nel nostro paese, a quella di tutto il resto d’Europa!
– e, ora che è al governo, ha anzi nel suo programma di favorirli con la flat
tax, che abolisce la progressione delle imposte a vantaggio dei redditi più
cospicui.
Quel
che è certo è che per il Sud non si prospetta un futuro migliore, anzi… Si dirà
che questa è la democrazia: evidentemente gli elettori italiani – e non certo
solo da ora – non sembrano avere particolarmente a cuore la soluzione di questo
problema e anzi, con le loro ultime scelte, hanno avallato una linea che
esaspererà il divario tra regioni povere e regioni ricche.
Con
i costi umani che saranno pagati dai più deboli economicamente e socialmente.
In Italia, secondo le statistiche ufficiali, ci sono cinque milioni e mezzo di
persone in condizione di povertà assoluta, la maggior parte nel Meridione,
destinate a essere sempre più emarginate e costrette a vivere in condizioni di
crescente indigenza.
Certo,
non è un sacrificio umano neppure lontanamente paragonabile all’Olocausto. Ma è
una ferita profonda a uomini e donne che vorrebbero anche loro vivere in
pienezza. Perciò vorremmo tanto che, mentre ci indigniamo per quello che è
accaduto nel passato e ci sforziamo di non perderne la memoria, provassimo a
essere meno indifferenti verso quello che accade nel presente e sta per
accadere nel futuro a questi uomini e a queste donne. Per evitare che i nostri figli debbano
istituire una “Giornata della Memoria” per quello che è stato fatto al Sud.
Scrittore
ed Editorialista.
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