mercoledì 30 aprile 2025

IL BUON LAVORO


Il  “buon lavoro” 

secondo Papa Francesco


Per “recuperare” un’idea sociale,

 incardinata nella Dottrina Sociale 

della Chiesa 

che ci piace riproporre il “manifesto” del buon lavoro 

e della buona impresa,  lanciato dal pontefice argentino


by Mario Bozzi Sentieri

Papa Francesco:

Il 1° maggio, Festa del Lavoro,  di quest’anno non può non essere segnato dalla recente scomparsa di Papa Francesco, Pontefice “peronista” si è detto e quindi populista e sensibile ai temi del lavoro. E’ per “recuperare” un’idea sociale, incardinata nella Dottrina Sociale della Chiesa, ben diversa dal genericismo di certe “ricostruzioni” giornalistiche, lette in questi giorni,  che ci piace riproporre il “manifesto” del buon lavoro e della buona impresa,  lanciato da Papa Francesco, durante la sua visita pastorale  a Genova, il 27 maggio 2017, in occasione dell’ incontro con i lavoratori dell’Ilva. Si tratta di  un manifesto che ci sentiamo di condividere per il  suo valore etico-sociale e che proponiamo,  nella sua essenzialità,  per la sua forza “programmatica”.

 ***

La dignità del lavoro

È importante riconoscere le virtù dei lavoratori e delle lavoratrici. Il loro bisogno è il bisogno di fare il lavoro bene perché il lavoro va fatto bene. A volte si pensa che un lavoratore lavori bene solo perché è pagato: questa è una grave disistima dei lavoratori e del lavoro perché nega la dignità del lavoro che inizia proprio nel lavorare bene per dignità, per onore. 

Il buon imprenditore

Il vero imprenditore conosce i suoi lavoratori perché lavora accanto a loro, lavora con loro. Non dimentichiamo che l’imprenditore deve essere prima di tutto un lavoratore! Se lui non ha questa esperienza della dignità del lavoro non sarà un buon imprenditore. Condivide le fatiche dei lavoratori e condivide le gioie del lavoro, del risolvere insieme i problemi, del creare qualcosa insieme.

Chi vende la sua gente vende la dignità propria

Nessun buon imprenditore ama licenziare la sua gente! Chi pensa di risolvere il problema della sua 

impresa licenziando gente non è un buon imprenditore, è un commerciante. Oggi vende la sua gente, domani vende la dignità propria. Una malattia dell’economia è la progressiva trasformazione degli imprenditori in speculatori. L’imprenditore non va assolutamente confuso con lo speculatore, sono due tipi diversi. Lo speculatore è una figura simile a quella che Gesù nel Vangelo chiama mercenario, per contrapporlo al buon pastore. Vede azienda e lavoratori solo come mezzi per fare profitto, usa azienda e lavoratori per fare profitto, non li ama. Licenziare, chiudere, spostare l’azienda non gli creano alcun problema, perché lo speculatore usa, strumentalizza, mangia persone e mezzi per il suo profitto.

Contro l’economia senza volti

Quando l’economia è abitata da buoni imprenditori le imprese sono amiche della gente. Quando passa nelle mani degli speculatori, tutto si rovina. È una economia senza volti, astratta. Dietro le decisioni dello speculatore non ci sono persone, e quindi non si vedono le persone da licenziare e tagliare.

Quando l’economia perde contatto con i volti delle persone concrete diventa senza volto e quindi spietata. Bisogna temere gli speculatori, non gli imprenditori. 

Il lavoro è amico dell’uomo e l’uomo è amico del lavoro

La mancanza di lavoro è molto più del venir meno di una sorgente di reddito per poter vivere. Il lavoro è anche questo, ma è molto di più, lavorando diventiamo più persone, la nostra umanità fiorisce, la Dottrina sociale della Chiesa ha sempre visto il lavoro come partecipazione alla creazione che continua grazie alle mani, alla mente e al cuore dei lavoratori. Sulla terra ci sono poche gioie più grandi di quelle che sperimentano lavorando. Come ci sono pochi dolori più grandi di quando il lavoro schiaccia, umilia, uccide. Il lavoro è amico dell’uomo e l’uomo è amico del lavoro. Con il lavoro gli uomini e le donne sono unti di dignità. 

Edificare il patto sociale

Attorno al lavoro si edifica l’intero patto sociale, quando non si lavora, si lavora male o poco è la democrazia che entra in crisi, tutto il patto sociale entra in crisi. È anche questo il senso dell’articolo primo della Costituzione italiana: l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Possiamo dire che togliere il lavoro alla gente o sfruttare la gente con lavoro indegno o mal pagato, è anticostituzionale, secondo questo articolo! Se non fosse fondata sul lavoro, la Repubblica italiana non sarebbe una democrazia perché il posto del lavoro lo hanno sempre occupato privilegi, caste, rendite.

L’obiettivo sociale da raggiungere non è il reddito per tutti, ma il lavoro per tutti

Bisogna guardare alle trasformazioni tecnologiche e non rassegnarsi all’ideologia che immagina un mondo dove forse metà o due terzi dei lavoratori lavoreranno, e gli altri saranno mantenuti da un assegno sociale. Deve essere chiaro che l’obiettivo sociale da raggiungere non è il reddito per tutti, ma il lavoro per tutti. Perché senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti. Il lavoro di oggi e di domani sarà diverso, forse molto diverso, pensiamo alla rivoluzione industriale. Ci sarà una rivoluzione, ma dovrà essere lavoro, non pensione! Non pensionati, lavoro! Si va in pensione all’età giusta, è un atto di giustizia ma contro la dignità delle persone mandarle in pensione a 35-40 anni, con assegno dello Stato. 

 Gli eccessi della competizione

I valori del lavoro stanno cambiando molto velocemente e molti di questi valori della grande impresa e della grande finanza non sono in linea con la dimensione umana e pertanto con l’umanesimo cristiano. L’accento sulla competizione, oltre ad essere un errore antropologico, è anche un errore economico perché dimentica che l’impresa è cooperazione mutua. Quando si crea un sistema che mette in competizione i lavoratori tra loro, magari può ottenere nel breve periodo qualche vantaggio ma finisce col minare quel tessuto che è l’anima di ogni organizzazione e così quando arriva una crisi l’azienda si sfilaccia e implode, perché non c’è più nessuna corda che la tiene. Questa cultura competitiva è un errore, è una visione che va cambiata se vogliamo il bene dell’impresa, dei lavoratori e dell’economia. 

Gli eccessi della meritocrazia

Un altro valore che in realtà è un disvalore, è la meritocrazia oggi tanto osannata, che affascina molto. Al di là della buona fede dei tanti che la invocano, la meritocrazia sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza. Il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà una veste morale alla diseguaglianza, perché interpreta i talenti delle persone non come un dono ma come un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi. Così, se due bambini alla nascita nascono diversi per talenti o opportunità sociali ed economiche, il mondo economico leggerà i diversi talenti come merito, e li remunererà diversamente. E così, quando quei due bambini andranno in pensione, la diseguaglianza tra di loro si sarà moltiplicata. Una seconda conseguenza della cosiddetta “meritocrazia” è il cambiamento della cultura della povertà. Il povero è considerato un demeritevole, e quindi un colpevole. E se la povertà è colpa del povero i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa. Questa è la vecchia logica degli amici di Giobbe che volevano convincerlo che fosse colpevole della sua sventura, ma questa non è la logica del Vangelo e della vita. La meritocrazia nel Vangelo la troviamo nella figura del fratello maggiore del figliol prodigo che disprezza il fratello minore e pensa che debba restare un fallito. Il padre invece pensa che nessun figlio si merita le ghiande dei porci.

 La dignità del lavoro

Chi perde il lavoro e non riesce a trovarne un altro sente che perde la dignità. Come chi è costretto ad accettare lavori cattivi e sbagliati. Ci sono ancora lavori cattivi e sbagliati nel traffico illegale di armi, nella pornografia, nei giochi di azzardo e in tutte quelle imprese che non rispettano lavoratori e ambiente, come chi è pagato molto perché il lavoro prenda tutta la vita, senza orari. Senza lavoro si può sopravvivere, ma per vivere occorre il lavoro e la scelta è tra il sopravvivere e il vivere.  Un assegno statale, mensile, che ti faccia portare avanti la famiglia, non risolve il problema. Il problema va risolto col lavoro per tutti.

 Il lavoro e la Festa

Un paradosso della nostra società è la presenza di una quota di persone che vorrebbero lavorare e non riescono, o altri che vorrebbero lavorare di meno, ma non ci riescono perché sono stati comprati dalle imprese. Il lavoro diventa fratello quando accanto ad esso c’è la festa, il tempo libero. Senza questo, diventa lavoro schiavistico, anche se superpagato. Nelle famiglie dove ci sono disoccupati non è mai veramente domenica, perché manca il lavoro del lunedì. Per celebrare le feste è necessario poter celebrare il lavoro, vanno insieme, l’uno scandisce il tempo dell’altro. Il consumo è un idolo del nostro tempo, è il consumo il centro della nostra società e quindi il piacere. Oggi ci sono i nuovi templi aperti 24 ore, che promettono la salvezza, punti di puro consumo e di puro piacere. Il lavoro è fatica, e sudore, quando una società edonista vede e vuole solo il consumo, non capisce il valore della fatica e del sudore, non capisce il lavoro. Tutte le idolatrie sono esperienze di puro consumo. Senza ritrovare una cultura che stima la fatica e il sudore, non ritroveremo un nuovo rapporto con il lavoro e continueremo a sognare il consumo del puro piacere».

 Il lavoro e il consumo 

Il lavoro è il centro di ogni patto sociale non un mezzo per potere consumare. Tra il lavoro e il consumo ci sono tante cose, tutte importanti e belle: libertà onore, dignità, diritti di tutti. Se svendiamo il lavoro al consumo, svenderemo presto anche queste parole sorelle. 

Spiritualità del lavoro

Molte delle preghiere più belle dei nostri genitori e nonni, erano preghiere del lavoro recitate prima, dopo e durante il lavoro. Il lavoro è presente tutti i giorni nell’eucaristia i cui doni sono frutto della terra e del lavoro dell’uomo. I campi, il mare, le fabbriche, sono sempre stati altari dai quali si sono alzate preghiere belle e pure che Dio ha accolto e raccolto, recitate ma anche dette con le mani, il sudore, la fatica del lavoro di chi non sapeva pregare con la bocca. Dio ha accolto tutte queste e continua ad accoglierle anche oggi. Per questo vorrei terminare con una preghiera: il vieni Santo Spirito: “Manda a noi un raggio della luce, vieni padre dei poveri, dei lavoratori e delle lavoratrici”.

@barbadilloit



 

martedì 29 aprile 2025

INSEGNANTE ARTIGIANO DELLA SPERANZA

 *IT - FR - EN - ES*

 L’insegnante è un artigiano della speranza: il gesto gentile, quella parola nel momento giusto, uno sguardo che dà fiducia. 
Sono gli strumenti per costruire il futuro


 insegnante speranza futuro ENDownload


Di Bruno Lorenzo Castrovinci

 La campanella che scandisce il ritmo delle giornate, ogni mattina, da settembre a giugno, è il battito silenzioso di un tempo che si rinnova con lentezza e costanza. Questa è la scuola: un luogo dove il futuro non è mai del tutto scritto, dove ogni giorno è un’occasione nuova, e ogni sogno trova spazio per nascere. Un mondo bellissimo, carico di attese, di speranza, di possibilità.

In questo spazio semplice e straordinario, fatto di suoni familiari e gesti quotidiani, anche il sorriso del bidello diventa segno di accoglienza e calore. Ed è lì, in quell’inizio ordinario, che accade qualcosa di speciale: insegnanti e studenti danno vita, insieme, alla magia dell’apprendere. Una magia che prende forma diversa in ogni classe, in ogni sguardo curioso, in ogni mente pronta a lasciarsi trasformare. Alla fine di ogni lezione, qualcosa è cambiato: un pensiero in più, un dubbio nuovo, una luce accesa. E quel cambiamento fa la differenza, rende la vita più intensa, più consapevole, più bella.

In un tempo segnato da crisi globali, da smarrimento e cambiamento continuo, la figura dell’insegnante acquista un valore sempre più centrale. Non è solo colui che insegna, ma chi accompagna, chi ascolta, chi semina. È un artigiano della speranza, capace di incidere con semplicità nella vita di chi ha davanti. Un gesto gentile, una parola detta al momento giusto, uno sguardo che infonde fiducia: sono questi gli strumenti con cui costruisce il futuro.

In un mondo dove tutto si muove velocemente e molte certezze si sgretolano, l’insegnante resta una guida preziosa, una presenza stabile, un punto di riferimento umano ed etico. La scuola, per tanti bambini e ragazzi, è l’unico vero spazio di comunità, l’unico luogo dove sentirsi accolti, riconosciuti, protetti. Insegnare oggi vuol dire affrontare sfide complesse: la dispersione scolastica, la povertà educativa, le solitudini emotive. Ma significa anche essere testimoni del cambiamento, costruttori di possibilità. Insegnare è scegliere, ogni giorno, di credere nel potenziale dell’altro.

Esploriamo allora il mestiere dell’insegnante in tutte le sue sfumature: dalla vocazione più profonda agli aspetti psicologici, pedagogici, sociali e neuroscientifici. Uno sguardo che si apre anche al mondo, per capire come la scuola possa essere diversa ma restare, ovunque, il cuore pulsante della società. Perché educare è un viaggio dentro la complessità dell’essere umano, un atto continuo di fiducia, una promessa quotidiana fatta al domani.

La vocazione all’insegnamento: tra scelta e destino

Insegnare non è semplicemente un mestiere, è, per molti, una chiamata profonda, un’inclinazione che nasce dal desiderio di incidere positivamente nella vita degli altri. La vocazione all’insegnamento si manifesta come un impulso interiore, una tensione verso la condivisione del sapere e la cura delle giovani menti. Chi sceglie di insegnare spesso sente di avere un compito da svolgere, una responsabilità morale nei confronti della società e delle future generazioni.

Tuttavia, il cammino verso la docenza non è sempre lineare o frutto di una scelta pienamente consapevole. Esistono docenti che approdano alla cattedra come esito di un lungo percorso formativo, guidati da ideali di trasformazione sociale e da un profondo amore per la conoscenza. Altri, invece, vi giungono per necessità, a volte come ripiego dopo la rinuncia a carriere considerate più prestigiose o remunerative. In taluni casi, l’insegnamento si rivela una seconda opportunità, capace di dare nuovo significato alla propria vita, offrendo spazi di espressione personale e di gratificazione relazionale.

In entrambi gli scenari, insegnare diventa un atto esistenziale: un incontro quotidiano con la complessità dell’essere umano in crescita. Spesso, chi ha iniziato per caso scopre nel tempo un senso profondo nel proprio ruolo, riscoprendo una vocazione che forse era solo sopita. L’insegnamento, allora, non è solo trasmissione di contenuti, ma relazione, cura, presenza, costruzione di senso. Una fonte inaspettata di realizzazione che cambia radicalmente il modo di stare nel mondo e di guardare al futuro.

Aspetti psicologici, sociologici e pedagogici del mestiere

Dal punto di vista psicologico, l’insegnante è chiamato a sviluppare un’elevata intelligenza emotiva: deve saper riconoscere, gestire e rispecchiare le emozioni proprie e altrui. La relazione educativa, essendo profondamente asimmetrica, richiede una continua capacità di mettersi nei panni dell’altro, di ascoltare in profondità e di costruire un clima di fiducia. L’empatia, in questo senso, non è solo una qualità relazionale, ma uno strumento didattico potente, che permette di personalizzare l’insegnamento e di rispondere in modo efficace ai bisogni affettivi e cognitivi degli studenti.

Sociologicamente, l’insegnante occupa una posizione centrale nella rete di significati che struttura la società: è ponte tra generazioni, custode e trasmettitore di cultura, ma anche agente del cambiamento. Le sue azioni educative si inseriscono in un tessuto collettivo fatto di norme, valori, aspettative sociali e storie individuali. Il docente, in questo senso, rappresenta spesso la prima figura adulta esterna alla famiglia con cui il giovane si confronta in modo stabile, e la sua autorevolezza può diventare leva per emanciparsi, crescere e orientarsi nel mondo.

Dal punto di vista pedagogico, l’insegnamento si configura come un mestiere artigianale che unisce arte e scienza. È arte, perché implica creatività, intuito, sensibilità; ma è anche scienza, perché richiede competenze teoriche, padronanza metodologica, conoscenze disciplinari aggiornate. Insegnare significa progettare, sperimentare, osservare, valutare, riflettere. Ogni classe è diversa, ogni studente un universo unico: per questo occorre calibrare ogni giorno metodi, tempi, contenuti e contesti. La pedagogia contemporanea, da Freinet a Montessori, da Bruner a Vygotskij, ha messo in luce come l’apprendimento sia un processo sociale, attivo e costruttivo: il docente ne è il facilitatore, colui che crea ambienti favorevoli e stimolanti, in cui ciascuno possa apprendere secondo i propri tempi e potenzialità.

Neuroscienze e processi cognitivi: cosa accade nella mente di chi insegna (e di chi impara)

Le neuroscienze educative hanno dimostrato che l’apprendimento è un processo dinamico, multisensoriale e relazionale, che coinvolge in modo interconnesso la memoria, l’attenzione, le emozioni e la motivazione. Le ricerche più recenti, grazie all’utilizzo della risonanza magnetica funzionale, hanno messo in luce come l’apprendimento non possa avvenire senza una base affettiva solida e un coinvolgimento attivo del sistema limbico, la sede delle emozioni. L’insegnante efficace è colui che sa creare ambienti stimolanti, capaci di attivare le aree cerebrali legate alla curiosità, al piacere della scoperta e alla costruzione del significato personale.

Quando un insegnante suscita interesse, suscita anche una risposta dopaminergica: la dopamina, neurotrasmettitore della motivazione e del piacere, favorisce l’apprendimento e la memorizzazione. La mente che apprende è una mente emozionata, e un insegnamento che lascia il segno è quello che riesce a connettere i contenuti alla vita degli studenti, ai loro vissuti, sogni, domande. Insegnare, a sua volta, attiva nel cervello del docente un’intensa attività di elaborazione: occorre prendere decisioni rapide, leggere il contesto relazionale, adattare la proposta didattica, anticipare reazioni. Tutto ciò richiede un’enorme capacità cognitiva e affettiva.

Non meno importanti sono le ricompense implicite legate alla relazione educativa: il sorriso di uno studente che ha capito, la domanda inaspettata che rompe gli schemi, la gratitudine espressa da un gesto o da uno sguardo. Questi segnali positivi attivano nel docente circuiti cerebrali legati al rinforzo sociale e al senso di autostima, nutrendo la motivazione intrinseca e rafforzando il senso di efficacia personale. L’insegnamento, dunque, è anche biologicamente un atto generativo, in cui mente e cuore si intrecciano in un’esperienza trasformativa tanto per chi apprende quanto per chi educa.

Perché è bello lavorare con bambini e giovani

Lavorare con le giovani generazioni è un privilegio raro e profondamente trasformativo. Bambini e ragazzi sono specchi trasparenti, capaci di entusiasmo sincero, intuizioni disarmanti e critica spietata. In loro, l’adulto può ritrovare una parte dimenticata di sé, riscoprire il senso dell’inaspettato, della meraviglia, del possibile. Offrono continuamente occasioni per mettersi in discussione, per apprendere nuove modalità comunicative, per aggiornare la propria visione del mondo.

Essere insegnante significa partecipare attivamente alla costruzione dell’identità di qualcun altro, diventare parte integrante del suo racconto di vita, contribuire alla formazione di uno sguardo sul futuro. Significa assumersi la responsabilità di accogliere le fragilità, valorizzare i talenti, sostenere i percorsi anche quando sono tortuosi. Ogni giornata scolastica è una palestra di ascolto, dialogo, reciprocità: un intreccio di emozioni, scoperte e piccoli gesti che lasciano segni duraturi.

Avere l’opportunità di seminare futuro ogni giorno, anche nei contesti più difficili, rende l’insegnamento una missione ad alto valore umano. La classe non è solo un luogo di trasmissione di contenuti, ma uno spazio relazionale in cui si sperimentano valori, si esercita la cittadinanza, si vivono emozioni autentiche. È un laboratorio di umanità, dove l’adulto e il giovane imparano insieme a diventare persone migliori.

Le diverse tipologie di insegnanti

Non esiste un solo tipo di insegnante, così come non esiste un solo modo di educare. Vi sono i maestri della scuola primaria, che lavorano con delicatezza sulle fondamenta dell’apprendimento, coltivando le prime scoperte, le emozioni basilari, il linguaggio e la socialità. La loro funzione è cruciale: gettano i semi su cui poggerà tutta l’architettura del sapere futuro. I docenti delle scuole secondarie, invece, accompagnano gli studenti attraverso le sfide dell’adolescenza, un’età di passaggio in cui si affrontano interrogativi esistenziali, crisi identitarie e primi confronti critici con il mondo. In questo contesto, il docente diventa anche mentore, guida, figura di riferimento.

I professori universitari, dal canto loro, sono spesso più concentrati sulla ricerca, ma non meno importanti nella trasmissione del pensiero critico e della conoscenza avanzata. Il rischio, in certi contesti accademici, è quello di perdere il contatto umano con lo studente, a favore dell’efficienza produttiva o dell’elaborazione teorica. Tuttavia, quando la passione didattica si unisce alla profondità intellettuale, l’insegnamento universitario diventa fonte inesauribile di ispirazione.

Ogni livello ha la sua peculiarità, ma tutti gli insegnanti sono chiamati a un continuo aggiornamento professionale e a una tensione costante verso il miglioramento personale. L’insegnamento richiede una formazione continua, non solo sulle discipline, ma anche sulle dinamiche relazionali, sulla psicologia dello sviluppo, sull’educazione inclusiva.

Esistono inoltre insegnanti che operano in contesti informali o alternativi, come le scuole parentali, le carceri, le strutture ospedaliere, i contesti di marginalità. In questi luoghi, dove il sapere è spesso l’unico strumento di emancipazione possibile, la funzione educativa assume una potenza etica ancora più profonda. A dimostrazione che l’insegnamento può assumere forme plurime, stili diversi, intenzioni molteplici. Ma il cuore resta sempre lo stesso: la relazione educativa, fondata sull’ascolto, sulla fiducia e sulla possibilità di far emergere l’altro nella sua interezza.

Uno sguardo globale: la figura del docente nel mondo

Nel mondo, la figura dell’insegnante è valorizzata in modo molto diverso, rispecchiando le priorità culturali, economiche e politiche dei singoli contesti nazionali. In Finlandia, per esempio, è una delle professioni più ambite e rispettate: l’accesso all’insegnamento richiede una preparazione rigorosa, e gli insegnanti sono considerati alla stregua dei medici o degli ingegneri. La fiducia della società nel sistema educativo si riflette nella libertà pedagogica concessa ai docenti, nella qualità della formazione iniziale e nella stabilità contrattuale garantita.

In Giappone, l’insegnante gode di un altissimo status sociale e culturale. I docenti vengono spesso indicati come modelli di disciplina e dedizione, e la cultura scolastica valorizza il rispetto verso di loro fin dalla più tenera età. In Corea del Sud, dove l’istruzione è vista come chiave per la mobilità sociale, gli insegnanti sono fortemente incentivati e sottoposti a valutazioni costanti, ma ricevono anche grande stima pubblica.

In molti paesi del Sud globale, invece, la situazione è drammaticamente diversa: qui il docente è spesso mal retribuito, privo di risorse, costretto a operare in condizioni strutturali precarie e con classi sovraffollate. In alcuni casi, la professione è vista come un ripiego, e la formazione continua è carente o inesistente. Tuttavia, proprio in questi contesti, l’insegnante può diventare un vero e proprio eroe silenzioso: colui che, pur tra mille ostacoli, riesce a fare la differenza nella vita dei suoi studenti.

Anche nei paesi occidentali, il riconoscimento sociale della figura del docente è in crisi: la precarizzazione del lavoro, il carico burocratico e la crescente disillusione rischiano di erodere il senso della missione educativa. Tuttavia, ovunque, chi insegna è ancora percepito come un costruttore di futuro, un attore fondamentale nella formazione delle coscienze e nello sviluppo delle comunità. L’UNESCO ha riconosciuto l’importanza strategica del docente nella promozione dello sviluppo sostenibile, della cittadinanza globale e nella costruzione di una cultura di pace e giustizia.

Conclusione: un mestiere artigianale, una speranza quotidiana

L’insegnante è davvero un artigiano della speranza: plasma ogni giorno con pazienza, dedizione e cura, come uno scultore che lavora con mani leggere ma ferme sul materiale più delicato e imprevedibile che esista: l’essere umano in crescita. Ogni parola, ogni gesto, ogni silenzio misurato con attenzione può lasciare un segno duraturo nel cammino di uno studente. L’insegnante è colui che custodisce sogni, ripara ferite invisibili, orienta traiettorie esistenziali spesso incerte.

In un mondo in continuo cambiamento, segnato da disorientamento, frenesia e frammentazione, il docente resta un punto di riferimento stabile, un costruttore di senso e di comunità. È testimone e interprete del presente, ma anche seminatore di futuro. La sua missione non si esaurisce nella trasmissione del sapere, ma si espande nel compito più alto e difficile: accendere menti e cuori, rendere visibile ciò che ancora non esiste, evocare possibilità.

Ed è proprio in questa capacità di generare speranza, di alimentare fiducia, di dare forma a ciò che è in divenire, che questo mestiere rivela la sua straordinaria bellezza: quella di chi lavora nel silenzio, ma lascia eco; di chi non sempre raccoglie frutti immediati, ma sa che ogni seme, prima o poi, trova la sua terra.

 

Orizzzonte Scuola


 


 

LA FORZA DEI GIOVANI

 


“Io sono 

solo 

un ragazzo”


Meditando sui giovani 

con i re Davide e Salomone




Vincenzo Anselmo

È possibile fare affidamento sui giovani? Non è forse rischioso dare delle responsabilità a chi non ha maturato esperienza? La fiducia in un giovane potrebbe essere mal riposta?

 A queste domande sembra rispondere il Qoelet, quando afferma: «Povero te, o paese, che per re hai un ragazzo (na‘ar)» (Qo 10,16). Anche il profeta Geremia, davanti alla missione che Dio gli affida, si schermisce e si oppone, adducendo a motivo la sua giovane età: «Ahimè, Signore Dio! Ecco, io non so parlare, perché sono un ragazzo (na‘ar)» (Ger 1,6). A causa della sua giovane età Geremia si sente inadatto e immaturo per parlare e per compiere la missione profetica. In entrambi i casi viene utilizzata in ebraico la parola na‘ar, che generalmente indica un uomo non adulto, un giovane, un adolescente, ma si può riferire anche a un bambino e a un infante[1].

Ma, può la giovane età, da sola, essere un segno di incompetenza e di inadeguatezza? Alle perplessità di Geremia risponde Dio stesso: «Non dire: “Sono giovane”. Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò e dirai tutto quello che io ti ordinerò» (Ger 1,7). Qui, come in altri passi della Bibbia, il Signore mostra che i propri criteri di scelta vanno al di là della mera età anagrafica. Dio non agisce come un selezionatore alla ricerca di curricula che offrano un ampio ventaglio di esperienze maturate. Come ha ricordato papa Francesco nel recente incontro pre-sinodale con i giovani: «In tanti momenti della storia della Chiesa, così come in numerosi episodi biblici, Dio ha voluto parlare per mezzo dei più giovani […]. Nei momenti difficili, il Signore fa andare avanti la storia con i giovani»[2].

Vedremo, infatti, come il Signore non tema di affidare proprio a dei giovani le sorti del suo popolo.

Il più piccolo dei figli di Iesse: Davide

La monarchia, in Israele, ha una storia travagliata e complessa. Dopo il lungo periodo dei giudici, gli anziani chiedono a Samuele un re che li governi al pari degli altri popoli (cfr 1 Sam 8,5). La scelta ricade su Saul, il quale, dopo un inizio promettente, si rivela un sovrano disobbediente e ribelle: durante le guerre contro i Filistei e contro gli Amaleciti egli rigetta la parola del Signore (cfr 1 Sam 13-15).

A seguito delle trasgressioni del re, Dio arriva a pentirsi di averlo collocato sul trono di Israele. Samuele si rivolge a Saul, annunciandogli che «il Signore si è già scelto un uomo secondo il suo cuore e gli comanderà di essere capo del suo popolo» (1 Sam 13,14). Più avanti il profeta interpella il re con parole altrettanto dure e nette: «Oggi il Signore ha strappato da te il regno d’Israele e l’ha dato a un altro migliore di te» (1 Sam 15,28). Samuele annuncia una nuova scelta da parte di Dio. La tensione narrativa cresce, mentre il lettore si domanda chi sarà quest’uomo secondo il cuore di Dio, che si rivelerà migliore del re Saul. Sarà costui un guerriero di valore, di nobile lignaggio, alto e bello come lo è Saul (cfr 1 Sam 9,1-2)?

Mentre sta piangendo perché Saul è stato rigettato dal Signore, il profeta riceve l’ordine divino di ungere un altro re: «Riempi d’olio il tuo corno e parti. Ti mando da Iesse il Betlemmita, perché tra i suoi figli ho visto per me un re» (1 Sam 16,1)[3]. Dio vede un re per sé. Questa nota personale da parte del Signore differenzia la nuova elezione di Davide da quella di Saul, il cui compito era quello di regnare per il popolo (cfr 1 Sam 8,22)[4]. Questa volta la scelta divina implica una relazione personale e un’affinità elettiva tra Dio e il nuovo sovrano.

Samuele si reca quindi a Betlemme per offrire un sacrificio e vedere il re che Dio si è scelto. In tutto il capitolo la radice ebraica r’h, «vedere», ricorre 6 volte come verbo e 2 volte come sostantivo, e riveste un ruolo centrale nella narrazione[5]. C’è un sottile gioco che alterna il punto di vista di Dio e quello degli uomini: che cosa vede Samuele?

Che cosa vede il Signore? Che cosa vedono gli altri personaggi?

Tra i figli di Iesse il profeta vede Eliàb, ma le proprie certezze si sgretolano davanti alle parole di Dio: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede gli occhi, ma il Signore vede il cuore» (1 Sam 16,7). In ebraico, la frase è complessa e di difficile traduzione. L’ultima parte potrebbe tradursi letteralmente così: l’uomo vede «agli occhi», «negli occhi», «secondo gli occhi», ma il Signore vede «al cuore», «nel cuore», «secondo il cuore»[6]. In ebraico, con la parola «cuore», si intende la sede del pensiero e della volontà[7], il luogo dove risiede la capacità di scegliere[8].

Dio non solo vede il cuore, ma vede secondo il cuore, cioè attraverso una visione profonda, non superficiale, che si ferma all’apparenza. Allo stesso modo, anche il profeta è invitato a non fermarsi a ciò che vedono gli occhi. Saul era stato scelto in base alla sua forza e alla sua casata, alla sua bellezza e alla sua statura (cfr 1 Sam 9,1-2). Forse era il più bello tra i figli d’Israele, ma certamente non era il migliore re possibile[9].

Dunque, Samuele passa in rassegna i figli di Iesse, uno dopo l’altro, ma il Signore non posa lo sguardo su nessuno di loro. Al profeta vengono presentati sette giovani. Questo numero dà l’idea che l’insieme dei figli di Iesse sia sfilato davanti al profeta nella sua totalità, ma nessuno di essi viene scelto.

«Samuele chiese a Iesse: “Sono qui tutti i giovani?”. Rispose Iesse: “Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge”» (1 Sam 16,11). Il profeta – e con lui il lettore – scopre che c’è ancora un altro figlio, che doveva apparire così insignificante agli occhi del padre da non essere stato neppure invitato al sacrificio insieme agli altri fratelli. È come se per Iesse questo figlio non esistesse, e invece sarà proprio Dio a vederlo, scegliendo per sé il più giovane[10].

Davide è «il figlio che rimane». Il verbo che viene usato qui si ricollega a un tema molto caro all’Antico Testamento, quello del «resto di Israele». La persona di Davide richiama quel piccolo resto che rimane fedele al Signore e che sarà salvato affinché ritorni nella Terra promessa e adori il Signore suo Dio. Pertanto, il termine «resto» attribuito a Davide fa pensare a tutto il popolo d’Israele, il popolo più piccolo, ma amato da Dio (cfr Dt 7,7-8)[11].

«[Iesse] lo mandò a chiamare e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto. Disse il Signore: “Àlzati e ungilo: è lui!”» (1 Sam 16,12). Gli occhi del profeta continuano a vedere l’aspetto esteriore, mentre il segreto del cuore di Davide è conosciuto e visto soltanto da Dio, che ha scelto il giovane pastore come re secondo il suo cuore (cfr 1 Sam 13,14).

«Samuele prese il corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi» (1 Sam 16,13). Il più piccolo della casa di Iesse diventa sovrano in mezzo ai suoi fratelli. Colui che pascolava il gregge ora è chiamato a pascolare il popolo di Dio, Israele. Dopo l’unzione, lo spirito di Dio irrompe su di lui e gli dà un pubblico riconoscimento nella sua famiglia.

Allo spirito che scende su Davide corrisponde lo spirito che si ritira da Saul (cfr 1 Sam 16,14), il quale si ritrova atterrito e spaventato da uno spirito cattivo. Uno dei suoi domestici gli suggerisce che proprio Davide potrebbe essere colui che, con il suono della sua cetra, lo potrà far star meglio: «Ecco, ho visto il figlio di Iesse il Betlem­mita: egli sa suonare ed è forte e coraggioso, abile nelle armi, saggio di parole, di bell’aspetto, e il Signore è con lui» (1 Sam 16,18). Qui ricorre ancora una volta il verbo «vedere». Il punto di vista è quello del giovane domestico[12] di Saul, che vede nel figlio di Iesse la soluzione ai problemi del re. Il ritratto che viene fatto, pur senza nominare direttamente Davide, anticipa alcuni aspetti del giovane figlio di Iesse che torneranno più avanti nel racconto.

Di fatto, Saul riconosce Davide nella descrizione del servo e lo convoca presso di sé. Nel corso della narrazione Davide sarà chiamato a mostrare forza e coraggio, abilità nelle armi e saggezza, sapendo che il Signore è con lui. Solo lo sguardo di Dio e quello di un servo sono capaci di vedere in un ragazzo l’anticipazione di ciò che egli diventerà.

Il gigante e il ragazzo

Nel capitolo 17 del primo libro di Samuele, Davide viene presentato di nuovo nel racconto[13]. Il contesto è quello della guerra tra Israele e i Filistei. Tra le schiere filistee emerge un campione, chiamato Golia, un gigante alto quasi tre metri, che indossa un’armatura che pesa circa 50 kg. Golia sfida in combattimento un campione tra i figli d’Israele, ma il re Saul, come pure tutto Israele, è inibito e atterrito davanti a lui (cfr 1 Sam 17,11.24). Che cosa accadrà? Chi potrà intervenire per combattere contro Golia e salvare il popolo?

Mentre il lettore si pone queste domande, il giovane pastorello Davide si presenta nell’accampamento di Israele, inviato dal padre per portare un po’ di vettovaglie ai fratelli andati in guerra. Quando giunge, non si limita a obbedire al comando del padre, ma raccoglie informazioni sulla ricompensa promessa per chi abbatterà il gigante filisteo.

La presenza di questo ragazzo sul campo di battaglia provoca rea­zioni colorite da parte degli altri personaggi, suscitando irritazione, incredulità e sdegno. Il fratello maggiore si indispettisce: «Ma perché sei venuto giù e a chi hai lasciato quelle poche pecore nel deserto? Io conosco la tua boria e la malizia del tuo cuore: tu sei venuto giù per vedere la battaglia» (1 Sam 17,28). Eliàb interpreta la presenza di Davide sul campo di battaglia in modo malevolo, come una fastidiosa intrusione. Infatti, ai suoi occhi, il cuore di Davide appare arrogante e malizioso. In realtà, il lettore sa bene che Davide è giunto all’accampamento per ordine del padre, e non per ambizione o vanità.

E anche Saul, di fronte a Davide che vuole combattere contro Golia, reagisce con diffidenza e scetticismo: «Saul rispose a Davide: “Tu non puoi andare contro questo Filisteo a combattere con lui: tu sei un ragazzo (na‘ar) e costui è uomo d’armi fin dalla sua adolescenza”» (1 Sam 17,33). Saul vede in Davide solo un ragazzo e lo pone davanti al paradosso di una sfida impossibile che si profila tra un giovane senza esperienza e un uomo adulto, addestrato ed esperto, che combatte fin dalla sua giovinezza. Tuttavia Davide non si scoraggia, rifiuta la pesante armatura di Saul e affronta la sfida con le proprie armi: la fionda e i ciottoli del torrente. Non vuole indossare l’armatura del re, ma, liberatosi di essa, si ritrova libero e leggero, affidandosi alla propria abilità e, soprattutto, all’aiu­to del Signore.

Di fronte al giovane Davide, anche la reazione di Golia è di irrisione e di disprezzo: «Il Filisteo scrutava Davide e, quando lo vide bene, ne ebbe disprezzo, perché era un ragazzo, fulvo di capelli e di bell’aspetto» (1 Sam 17,42). Agli occhi del gigante, la giovane età, la bellezza e i capelli rossi di Davide sono motivi sufficienti per guardare a lui con presunzione e superiorità. I criteri di Golia sono puramente esteriori e superficiali[14].

Il figlio di Iesse però non si scoraggia né si indispettisce, ma risponde al Filisteo, rivelando il suo segreto: «Tu vieni a me con la spada, con la lancia e con l’asta. Io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti, Dio delle schiere d’Israele, che tu hai sfidato. […] Tutta la terra saprà che vi è un Dio in Israele. Tutta questa moltitudine saprà che il Signore non salva per mezzo della spada o della lancia, perché del Signore è la guerra ed egli vi metterà certo nelle nostre mani» (1 Sam 17,45-47).

Il giovane chiama in causa la sua vera forza: la sua arma è colui che lo ha scelto e lo ha unto re. Il Signore non ha giudicato Davide secondo le apparenze – come hanno fatto gli adulti Eliàb, Saul e Golia –, ma ha scommesso proprio su un ragazzo come liberatore del suo popolo.

Se la forza di Davide è nel Signore, qual è concretamente lo strumento con cui otterrà la vittoria? Certamente la fionda, con la quale egli sconfiggerà Golia, ma soprattutto il suo acume e la sua intelligenza, con i quali ribalterà le sorti proprie e quelle del popolo. Se Davide non fosse ingegnoso e intelligente, morirebbe per mano di Golia. Il giovane sa di essere stato scelto dal Signore, ma questo va congiunto alla sua abilità, altrimenti egli sarebbe un incosciente e un folle. La scelta divina si unisce ai talenti di Davide, che sono anch’essi doni di Dio.

Davide agisce con grande abilità e astuzia, e questo è il motivo della sua vittoria su Golia. Ma qui, oltre alla causalità esercitata dagli uomini, si manifesta anche la causalità di Dio in quanto Signore della storia, Dio d’Israele, nel cui nome Davide agisce (cfr 1 Sam 17,37.45-47)[15].

Un re troppo giovane? Salomone

Il racconto dell’elezione di Davide (cfr 1 Sam 16–17) non è l’unico nella Bibbia che vede al centro un giovane chiamato da Dio e investito di una responsabilità sul popolo d’Israele. Anche Salomone, figlio di Davide, si sente solo un «piccolo ragazzo» (na‘ar qāṭōn) quando sulle sue giovani spalle viene posto il peso del regno paterno.

Davide è ormai vicino alla morte, ed è giunto per lui il momento di lasciare le proprie disposizioni testamentarie[16]. Egli dice a Salomone: «Io me ne vado per la strada di ogni uomo sulla terra. Tu sii forte e móstrati uomo. Osserva la legge del Signore, tuo Dio, procedendo nelle sue vie ed eseguendo le sue leggi, i suoi comandi, le sue norme e le sue istruzioni, come sta scritto nella legge di Mosè, perché tu riesca in tutto quello che farai e dovunque ti volgerai, perché il Signore compia la promessa che mi ha fatto dicendo: “Se i tuoi figli nella loro condotta si cureranno di camminare davanti a me con fedeltà, con tutto il loro cuore e con tutta la loro anima, non ti sarà tolto un discendente dal trono d’Israele”» (1 Re 2,2-4).

Alcuni vedono in questa prima parte del discorso di Davide (vv. 2-4) un intervento successivo del redattore[17], per mitigare la seconda parte (vv. 5-9), che è molto crudele e in cui Davide chiede al figlio di eseguire azioni di sangue per regolare i conti con coloro che lo hanno avversato durante il suo regno. In realtà, da un punto di vista narrativo, questa prima parte è fondamentale, perché il vecchio re svolge infine il suo ruolo di padre, consegnando alla generazione successiva la legge di Mosè e la promessa del Signore, che qui viene ricordata (cfr 2 Sam 7).

Al livello del macroracconto, Davide realizza la propria paternità[18]: trasmette ciò che il popolo ha ricevuto attraverso Mosè e la promessa che a lui stesso è stata consegnata. Come il padre descritto nel libro del Deuteronomio (cfr Dt 6,1-9), egli trasmette al proprio figlio la legge; come un re secondo il cuore di Dio, ha davanti ai propri occhi la legge del Signore (cfr Dt 17,18-20).

In seguito il narratore ci comunicherà che Salomone ama il Signore e segue ciò che il padre gli ha prescritto, ma la sua fede in Dio è ancora incerta: infatti, alla dedizione al Signore si accompagnano i sacrifici consumati sulle alture, luoghi dove si compiono pratiche idolatriche (cfr 1 Re 3,3)[19].

È proprio durante uno di questi sacrifici, a Gàbaon, che il Signore si rivela a Salomone. La trasmissione generazionale della fede di padre in figlio non è sufficiente: occorre che anche Salomone faccia esperienza viva del Dio di suo padre.

«A Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: “Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda”» (1 Re 3,5). Le parole del Signore sono sorprendenti: non sono né di rimprovero né di condanna per il fatto che Salomone compia sacrifici di genere idolatrico; ma Dio si presenta a lui come colui che dona.

Anche l’atteggiamento di Salomone è sorprendente: paradossalmente la sua saggezza comincia proprio qui, nel mostrare uno spirito umile e assennato, che lo dispone ad accogliere la Sapienza[20]. Egli sa quale sia la cosa giusta da chiedere: «Ora, Signore, mio Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide, mio padre. Ebbene io sono solo un piccolo ragazzo (na‘ar qāṭōn); non so uscire né entrare. […] Concedi al tuo servo un cuore che ascolta, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?» (1 Re 3,7-9)[21].

Salomone si presenta come servo del Signore e riconosce di essere solo un piccolo ragazzo, inesperto a causa della sua giovane età. La sua reazione riecheggia quella di Geremia di fronte alla missione che Dio gli affida: «Ahimè, Signore Dio! Ecco, io non so parlare, perché sono un ragazzo (na‘ar)» (Ger 1,6). L’essere un ragazzo renderebbe Salomone incapace di assumere obblighi pubblici e militari[22]; è questo il senso della confessione: «Non so uscire né entrare». Eppure il giovane re si mostra già sapiente in ciò che chiede: un cuore che ascolta.

Per il credente israelita, infatti, l’orecchio è l’organo principale della percezione. Nella Bibbia il verbo «ascoltare» compare più di mille volte. Israele è chiamato ad ascoltare la parola di Dio. La preghiera quotidiana del credente israelita comincia con l’imperativo ema‘ Yisrā’ēl: «Ascolta, Israele!» (Dt 6,4). Il popolo che ascolta le parole di Dio è obbediente alla Torah e intraprende il cammino verso la vita.

Salomone è inesperto e sa ancora poco della vita. Un cuore che ascolta diventa così il presupposto affinché il giovane re possa esercitare la giustizia e il discernimento per governare il popolo d’Israele. Salomone potrà essere un re secondo il cuore di Dio, come Davide suo padre? Il modello di monarchia che traspare dalle sue parole lascia ben sperare. Salomone appare come un re che vuole servire Dio e Israele, e non come un sovrano egoisticamente ripiegato su di sé, che approfitta del popolo per perseguire i propri interessi (si veda il discorso di Samuele in 1 Sam 8,11-18).

Pertanto, al Signore piace la richiesta di Salomone: «Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te discernimento per fare udienza giudiziaria, ecco, faccio secondo le tue parole. Ti concedo un cuore saggio e intelligente: uno come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te» (1 Re 3,11-12). Poiché Salomone ha espresso a Dio la richiesta più importante, il Signore concederà a lui tutto, ricchezza e gloria, come a nessun altro.

Risvegliatosi dal sonno, Salomone tornerà a Gerusalemme con una nuova consapevolezza; il segno esterno di tale mutamento interiore è che egli non compirà sacrifici sulle alture, ma starà davanti all’arca del Signore[23].

Conclusione

Nel libro dei Proverbi, l’essere giovani è accostato a inesperienza e a mancanza di giudizio: «Ecco, io vidi dei giovani inesperti, e tra loro scorsi un adolescente dissennato [letteralmente: privo di cuore]» (Pr 7,7). L’elezione di Davide e quella di Salomone rovesciano decisamente questa prospettiva.

Rievocando la storia d’Israele, san Paolo afferma: «[Dio] suscitò per loro Davide come re, al quale rese questa testimonianza: “Ho trovato Davide, figlio di Iesse, uomo secondo il mio cuore; egli adempirà tutti i miei voleri”» (At 13,22). Lo sguardo di Dio vede lontano e scommette a lungo termine su un giovane dalla cui discendenza verrà il Messia per Israele e per tutti i popoli della terra.

Anche Salomone, figlio di Davide, quando diventa re, si sente solo un ragazzo. Interpellato in sogno da Dio, esprime la propria preoccupazione di essere schiacciato da responsabilità troppo pesanti per le sue gracili spalle, ma sa cosa chiedere: un cuore che ascolta.

Nella storia della salvezza, il Signore si fida dei giovani e affida proprio ad alcuni di loro le sorti del suo popolo. È la rivelazione di un Signore che ha fiducia nel futuro e nella vita e non teme le novità che il domani porta con sé: «Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,19).

[1].     Cfr L. Alonso Schökel – M. Zappella, Dizionario di ebraico biblico, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2013, 554. Nella Bibbia c’è incertezza su quando cominci l’età adulta. In alcuni testi il limite della giovinezza è posto a vent’anni (Es 30,14; Nm 1,3.18; 14,29); in altri casi la giovane età può durare fino a venticinque anni (Nm 8,24) o fino a trenta (Nm 4,3.23; 1 Cr 23,3): cfr H. F. Fuhs, «na‘ar», in G. J. Botterweck – H. Ringgren (eds), Grande lessico dell’Antico Testamento, V, Brescia, Paideia, 2005, 926-940.

[2].     Francesco, Discorso nell’Incontro pre-sinodale con i giovani, 19 marzo 2018, in w2.vatican.va

[3].     Qui facciamo una traduzione letterale del testo, diversa da quella della Cei.

[4].     Cfr J.-P. Sonnet, L’ alleanza della lettura. Questioni di poetica narrativa nella Bibbia ebraica, Roma, Gregorian & Biblical Press, 2011, 146.

[5].     Cfr R. Alter, The David Story. A Translation with Commentary of 1 and 2 Samuel, New York, W. W. Norton & Company, 1999, 85.

[6].     Sulle possibili traduzioni della particella le, cfr L. Alonso Schökel – M. Zappella, Dizionario di ebraico biblico, cit., 408-411.

[7].     Cfr R. D. Nelson, I e II Re, Torino, Claudiana, 2010, 40.

[8].     Secondo la mentalità ebraica, gli affetti invece risiedono nelle viscere o nel seno materno: cfr A. Sisti, «Misericordia», in P. Rossano – G. Ravasi – A. Girlanda, Nuovo dizionario di teologia biblica, Cinisello Balsamo (Mi), Paoline, 1988, 978-984.

[9].     La parola ṭôb in ebraico ha il duplice significato di «bello» e «buono». Meir Sternberg dedica interessanti pagine al tema dell’ambivalenza del «bell’aspetto» nei libri di Samuele: cfr M. Sternberg, The Poetics of Biblical Narrative. Ideological Literature and the Drama of Reading, Bloomington, Indiana University Press, 1985, 354-364.

[10].    Nel racconto di Gen 4, Dio «guarda» l’offerta di Abele e non quella di Caino, così come tra Giacobbe e Esaù il Signore sceglie il più piccolo. Successivamente Giuseppe sarà principe tra i suoi fratelli e Gedeone verrà costituito come salvatore su Israele, pur essendo il più piccolo nella casa di suo padre (cfr Gdc 6).

[11].    Cfr M. Gargiulo, Samuele. Introduzione, traduzione e commento, Milano, San Paolo, 2016, 175.

[12].    Con la parola na‘ar si può intendere sia un giovane sia un domestico, un servo, un garzone: cfr L. Alonso Schökel – M. Zappella, Dizionario di ebraico biblico, cit., 554.

[13].    Sono due i racconti che introducono Davide nella storia d’Israele. Probabilmente dietro queste narrazioni ci sono due tradizioni differenti, che sono state conservate nella Bibbia. Entrambi i testi sono importanti per capire la rilevanza del personaggio Davide. Secondo Robert Alter, 1 Sam 16 si concentra sulla chiamata del giovane Davide da parte di Dio, a cui appartiene tutta l’iniziativa, mentre 1 Sam 17 ha una prospettiva orizzontale: il figlio di Iesse interagisce, parla, lotta, e non sembra esserci un’azione diretta del Signore (cfr R. Alter, The David Story…, cit., 110 s).

[14].    Cfr M. Gargiulo, Samuele..., cit., 189.

[15].    Sui nessi tra causalità umana e causalità divina nel racconto biblico, cfr Y. Amit, «The Dual Causality Principle and Its Effects on Biblical Literature», in Vetus Testamentum 37 (1987) 385-400.

[16].    Cfr Gen 28,1-4 e 49,29; 2 Re 20,1.

[17].    Cfr R. Alter, The David Story…, cit., 374.

[18].    Cfr F. Ficco, «“Sii forte e mostrati uomo”. La paternità di Davide in 1 Re 1–2», in Rivista Biblica 57 (2009) 257-272.

[19].    Cfr J. T. Walsh, 1 Kings, Collegeville, The Liturgical Press, 1996, 72.

[20].    Alla preghiera di Salomone nel primo libro dei Re fanno eco le parole del figlio di Davide nel libro della Sapienza: «Per questo pregai e mi fu elargita la prudenza; implorai e venne in me lo spirito della sapienza. La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto; non la paragonai neppure a una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte ad essa l’argento. L’amai più della salute e della bellezza, preferii il suo possesso alla stessa luce, perché non tramonta lo splendore che ne promana» (Sap 7,7-10).

[21].    Nell’ultimo versetto, «un cuore che ascolta» è la traduzione letterale. La versione Cei 2008 traduce, più liberamente: «un cuore docile».

[22].    Cfr M. Cogan, I Kings: A New Translation with Introduction and Commentary, New York, Doubleday, 2001, 186.

[23].    Cfr M. Cogan, I Kings…, cit., 188.

 La Civiltà Cattolica

Immagine