CHE CI INTERROGA
E CI SALVA
Donatello, Bianchi- di Enzo Bianchi
Vorrei contemplare insieme con voi Gesù crocifisso, secondo
le tre splendide interpretazioni fornite cinque secoli fa da Donatello (…)
Queste opere di eccezionale bellezza, che hanno accompagnato la fede di
innumerevoli cristiani nel corso degli ultimi cinquecento anni, accompagnano
ancora la nostra fede, qui e oggi, perché il Crocifisso resta per il cristiano
il luogo per eccellenza in cui egli può conoscere Dio. La croce è davvero la
cattedra della sapienza di Dio (cf. 1Cor 1,18-25), è il luogo dove Dio è stato
massimamente narrato da suo Figlio Gesù Cristo (cf. Gv 1,18: exeghésato).
Tutte le testimonianze scritte sulla fine della vita terrena
di Gesù sono concordi nel dichiarare che egli è morto in croce. Per le sante
Scritture questa è la morte del maledetto da Dio («Maledetto chi pende dal
legno»: Dt 21,23; Gal 3,13), appeso tra cielo e terra perché rifiutato da Dio e
dagli uomini. Gesù, un galileo che aveva radunato attorno a sé una comunità di
pochi uomini e alcune donne coinvolti nella sua vita itinerante, ritenuto
maestro e profeta da questi discepoli e da un numero più ampio di simpatizzanti,
è stato condannato e messo a morte mediante la crocifissione a Gerusalemme, il
venerdì 7 aprile dell’anno 30. Questa fine fallimentare è subito apparsa uno
scandalo, «lo scandalo della croce» (cf. 1Cor 1,23), un grave ostacolo per la
fede in Gesù, specialmente quando si cominciò a confessarlo Messia di Israele e
Figlio di Dio. Ecco perché, ancora all’inizio del II secolo d.C., il giudeo
rabbi Trifone afferma nel dialogo con il cristiano Giustino: «Noi sappiamo che
il Messia deve soffrire ed essere condotto come pecora (cf. Is 53,7); ma che
egli debba essere crocifisso e morire in un modo così vergognoso e ignominioso,
attraverso la morte maledetta dalla Legge, non possiamo neppure arrivare a
concepirlo» (Giustino, Dialogo con Trifone 90,1).
Eppure per l’autentica fede cristiana è proprio il Crocifisso
colui che ha raccontato Dio; anche sulla croce, anzi soprattutto sulla croce,
Gesù «ha reso testimonianza alla verità» (cf. Gv 18,37), trasformando uno
strumento di esecuzione capitale nel luogo della massima gloria. Ma com’è stato
possibile che un uomo appeso a una croce diventasse colui sul quale i cristiani
tengono fissi lo sguardo come Signore e Salvatore? Per rispondere a questo
interrogativo occorre innanzitutto guardarsi dalla tentazione di leggere Gesù a
partire dalla croce. Al contrario – come vedremo meglio tra breve – bisogna
leggere anche la croce a partire dalla vita di chi vi è salito, l’uomo Gesù:
questa morte è l’atto che ricapitola l’intera sua esistenza spesa nella libertà
e per amore di Dio e degli uomini.
Per contemplare il Crocifisso è necessario meditare sulla
paradossale «parola della croce» (1Cor 1,18), il mistero centrale della nostra
fede. In verità, di fronte alla «parola della croce», debolezza di Dio,
debolezza del cristiano, debolezza della chiesa, ma pienezza della vita perché
«vita in abbondanza» (cf. Gv 10,10), «vita eterna» (cf. Gv 3,15-16.36; 4,14;
ecc.), nessuno di noi è all’altezza di definirsi discepolo di Cristo. Se mai,
potrà fare sue le parole di Ignazio di Antiochia: «Ora comincio a essere
discepolo» (Ai Romani 5,3). D’altra parte, se questa nostra
debolezza è assunta consapevolmente, in essa può manifestarsi «Cristo
crocifisso, … potenza di Dio» (1Cor 1,23-24), secondo la parola rivolta dal
Signore a Paolo: «Ti basta la mia grazia: la mia potenza si manifesta
pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9). E saranno proprio alcune riflessioni
di Paolo nelle sue due lettere alla chiesa di Corinto a costituire la trama
della mia meditazione.
1. «Gesù Cristo, e Cristo crocifisso»
Nella Prima lettera ai Corinti, rivolgendosi a una chiesa che
a pochi anni dalla sua fondazione appare attraversata da contese, ed è tentata
dal culto delle personalità apostoliche (cf. 1Cor 1,12), ma soprattutto di
avere ragioni per gloriarsi davanti a Dio (cf. 1Cor 1,27-29) e di fare della
fede cristiana una religione capace di convincere quanti cercano miracoli, e
un’ideologia per quanti cercano la sapienza, Paolo rinnova l’annuncio del
Vangelo. A Corinto è infatti il cuore stesso del Vangelo a essere compromesso:
la croce di Cristo rischia di essere svuotata (cf. 1Cor 1,17)! Di fronte a tale
depauperamento, l’Apostolo pronuncia parole decisive, frutto di esperienze
patite in prima persona: «Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non
Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1Cor 2,2).
Alla sapienza mondana (sophía toû kósmou: 1Cor 1,20)
insinuatasi nella comunità cristiana, cultura antropocentrica e autosufficiente
(sophía anthrópon: 1Cor 2,5), Paolo oppone «la parola della croce» (1Cor
1,18), non un annuncio fondato su discorsi persuasivi o ragionamenti che hanno
la loro forza nella sublimità della parola e della cultura. Nella chiesa di
Corinto sono già in atto tentativi di trasformare il messaggio del Vangelo in
speculazione culturale: ciò si traduce nel rifiuto del volto di Dio
manifestatosi nel Figlio Gesù Cristo crocifisso, in un’interpretazione della
resurrezione in termini trionfali, nel misconoscimento della debolezza quale cardine
della vita cristiana. In reazione a tutto questo, l’Apostolo, che attraverso la
sua vicenda personale e con la grazia del Signore ha approfondito la scientia
crucis, legge sì la croce come follia perché evento inaudito, fallimento
agli occhi del mondo, ma contemporaneamente la predica come «potenza di Dio e
sapienza di Dio» (1Cor 1,24), cioè pienezza della vita, possibilità di giungere
a quella vita piena che Dio aveva pensato per l’uomo all’atto di crearlo per
mezzo e in vista del Figlio (cf. Col 1,16).
La morte di Cristo non è stata una morte qualsiasi, non è
stata neppure rivestita dalla gloria del martirio, come quella del suo maestro
Giovanni il Battista, ma è stata una morte vergognosa: «mortem autem crucis»
(Fil 2,8). Ebbene, il carattere infamante di tale morte non può essere taciuto
né rimosso: questo evento – personalizzato e quasi ipostatizzato nel termine
«croce» – era e resta scandalo e follia! Non si dimentichi: al tempo di Gesù la
croce era uno strumento di morte terribile, un patibolo turpissimo agli occhi
dei romani, un supplizio che, agli occhi dei giudei, rendeva chi vi era appeso
un maledetto da Dio e dagli uomini. Eppure Gesù ha trasformato la croce in
luogo veramente glorioso, in luogo in cui egli ha amato gli uomini fino
all’estremo, in luogo in cui è morto per noi, per donarci la salvezza (cf. 1Ts
5,9-10)!
Ma è necessario approfondire quest’ultima affermazione,
troppo spesso ripetuta a vuoto, senza cioè comprenderla nel suo reale
significato. Lo faccio prendendo a prestito un’acuta riflessione del teologo
Giuseppe Colombo:
Nell’immaginario «cristiano» la croce sembra prevalere sul
Crocifisso, dando libero sfogo alle tendenze ambigue insite nel subconscio
dell’uomo … Non è la croce a fare grande Gesù Cristo; è Gesù Cristo che
riscatta persino la croce, la quale è propriamente da comprendere, non
retoricamente da esaltare (Sulla evangelizzazione, Milano 1997, p. 64).
In altre parole, la morte in croce di Gesù non è nient’altro
che l’esito di un’esistenza vissuta nella libertà e per amore degli uomini. Per
non dimenticare questo, basterebbe prestare attenzione a quanto la chiesa,
facendo memoria della vita di Gesù, sente il bisogno di proclamare al cuore
della preghiera eucaristica:
- Egli, nell’ora in
cui andava liberamente alla sua passione, prese il pane…
(Preghiera eucaristica II).
- Per attuare il tuo
disegno di amore, [Padre Santo], si consegnò liberamente alla
morte … Venuta l’ora d’essere glorificato da te, Padre Santo, avendo
amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino
alla fine, e mentre cenava con loro, prese il pane… (Preghiera eucaristica
IV)
Nella libertà e per amore: ecco come la follia della croce è
diventata potenza di Dio e sapienza di Dio!
La potenza di Dio si è rivelata in Gesù crocifisso, uomo e
Figlio di Dio, che è stato fatto peccato per noi (cf. 2Cor 5,21), che si è
mostrato Messia perduto, annoverato tra i peccatori, agnello afono, vittima tra
le vittime della storia. La croce è il patibolo impuro, chi vi sale è un anáthema,
rigettato dalla comunità cui Dio si è legato in alleanza; chi vi muore, muore
fuori dell’accampamento e della porta della città (cf. Eb 13,11-13), nel luogo
sconsacrato in cui Dio è ritenuto assente. Davvero, la croce è
l’anti-sacrificio per eccellenza, secondo le norme cultuali di Israele: è
follia, stoltezza e scandalo! Ma solo chi conosce questa verità e assume fino
in fondo questa follia, vedendo Gesù morire in croce, può confessare con il
centurione: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39; cf. Mt 27,54).
Mi si conceda di riassumere la paradossale potenza della
croce in questo modo: guai a chi deifica Gesù e lo chiama Dio senza conoscere
la vita umanissima di Gesù, senza conoscere come egli è vissuto, facendo della
vita un dono e amando gli altri fino all’estremo; nello stesso tempo, guai a
chi non sa fare del sigillo ignominioso della croce, télos di
questa vita, la cattedra del magistero cristiano! Ma quando della croce si
misura la follia, allora essa appare potenza di Dio, allora è distrutta la
sapienza dei saggi e l’intelligenza degli intellettuali (cf. 1Cor 1,19), allora
si conosce veramente il mistero di Dio e si vede in Gesù «l’immagine del Dio
invisibile» (Col 1,15).
Mistero paradossale: la croce di Cristo è realmente stoltezza
e debolezza di Dio che urta quelli che richiedono manifestazioni di una sua
presunta onnipotenza, o confidano su una raffinata sapienza religiosa. Ma è
precisamente nella croce che Dio mostra la sua sapienza e la sua potenza,
«perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è
debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1Cor 1,25). È proprio nella croce
che egli chiede che sia riconosciuto il suo agire folle di amore per l’umanità!
Sì, è nello svuotamento della sua forma divina (cf. Fil 2,7) e nell’atto del
con-discendere là dove sono gli uomini, che il Figlio di Dio ha svelato la
grammatica della potenza di Dio. Gregorio di Nissa ha potuto scrivere in
proposito:
La croce è teologa per coloro che hanno lo sguardo
penetrante, e proclama con la sua forma l’autentica potenza di colui che appare
su di essa ed è «tutto in tutti» (1Cor 15,28) (Primo discorso sulla
resurrezione di Cristo).
E Lutero fa eco: Non è sufficiente conoscere Dio nella sua
gloria e maestà, ma è anche necessario conoscerlo nell’umiliazione e
nell’infamia della croce … In Cristo, nel Crocifisso, stanno la vera teologia e
la vera conoscenza di Dio (La disputa di Heidelberg, Tesi 20).
Una volta compresa, o almeno intuita, questa indicibile
realtà, spetta al cristiano e alla chiesa nel suo insieme vivere in modo che
questa follia e debolezza di «Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1Cor 2,2) si
riverberi nella vita dei suoi discepoli: qui e qui soltanto sta la verità
della sequela Christi.
2. «Sono stato crocifisso con Cristo»
Nella Seconda lettera ai Corinti Paolo si dedica ampiamente a
descrivere la stoltezza della croce e la debolezza, quali si rivelano nella sua
vita e nel suo ministero, con affermazioni che non possono non riguardare la
vita di ogni cristiano. In questo testo l’Apostolo si propone certamente di
difendere il suo ministero di fronte ad avversari provenienti sia dal
giudaismo, sia dall’interno della stessa comunità di Corinto; più di ogni altra
cosa, però, ciò che gli sta a cuore è la salvaguardia dell’integrità del
Vangelo, al cui servizio egli si è totalmente dedicato. Per questo egli afferma
innanzitutto la potenza del proprio ministero apostolico (cf. 2Cor 2,14-4,6),
ma nel contempo ne sottolinea la debolezza (cf. 2Cor 4,7-5,10). In tal modo,
come già a proposito della potente stoltezza della croce, siamo posti di fronte
al carattere di paradosso del ministero apostolico e, più in profondità,
dell’intera vita cristiana.
Dopo aver affermato la centralità normante della Parola di
Dio, del Vangelo e della predicazione su Gesù Cristo, Paolo delinea i criteri
non mondani che ispirano il suo servizio all’interno della chiesa (cf. 2Cor
4,2-6): rifiutare le doppiezze, i raggiri, la falsificazione della verità,
l’operare ipocritamente, l’agire diversamente da come si predica, il piegare ai
propri fini, anche religiosi ed ecclesiali, il Vangelo. L’Apostolo non predica
se stesso, non manipola la Parola di Dio rendendola ideologia umana, non cerca
il successo servendosi del proprio posto nella chiesa, né aspira ad ottenere
facili consensi. Al contrario, il suo ministero è efficacemente sintetizzato in
due compiti ben precisi: predicare Gesù quale Messia e Signore e,
conseguentemente, servire i propri fratelli (cf. Mt 20,25-28 e par.; Gv
13,12-15). A questo ministero solo Dio può rendere idoneo un credente (cf. 2Cor
3,5) perché è il servizio della Nuova Alleanza, servizio condotto nello Spirito
che vivifica (cf. 2Cor 3,6), diakonía ben più gloriosa di
quella svolta da Mosè (cf. 2Cor 3,7-8).
Sì, il ministero è potenza di Dio, potenza che si mostra in
primo luogo nella misericordia usata verso la debolezza di chi è incaricato di
tale servizio. Ma ecco, puntuale, il riverbero della stoltezza della croce:
«Noi abbiamo questo tesoro in vasi di argilla, affinché appaia che questa
straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi» (2Cor 4,7). Il
contrasto tra l’argilla e il tesoro non va inteso nel senso di un’antropologia
dualista, ma serve solo a definire la paradossale grandezza della vita
cristiana. Il tesoro del Vangelo, il tesoro della Nuova Alleanza o, meglio
ancora, il mistero pasquale della morte e resurrezione di Gesù (cf. 2Cor 4,10)
è infatti affidato all’uomo, creatura debole e fragile: nella nostra carne
mortale siamo chiamati a manifestare la vita di Gesù, vita piena e autentica,
vita divina! Paolo sembra testimoniare questa inenarrabile verità quando
confessa: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive
in me … Io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo» (Gal 2,19-20; 6,17).
Ma in vari altri passi il Nuovo Testamento ama evocare il
«Vangelo di Gesù Cristo» (Mc 1,1; cf. Rm 16,25; 2Ts 1,8) il «mistero del regno
di Dio» consegnato da Gesù ai credenti (Mc 4,11), con le espressioni «perla
preziosa» (Mt 13,46), «tesoro nel campo» (Mt 13,44), e si compiace di definire
la fede «molto più preziosa dell’oro» (1Pt 1,7), poiché «in Cristo sono
nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2,3). È questo il
tesoro che il cristiano porta nel suo vaso d’argilla! E il cristiano maturo è
proprio colui che ha la consapevolezza, da un lato, del tesoro affidatogli e,
dall’altro, della propria debolezza (linguaggio paolino); è colui che ha la
consapevolezza di essere straniero e pellegrino sulla terra, ma nel contempo è
abitato dalla speranza della vita eterna (linguaggio petrino: cf. 1Pt 2,11 e
1Pt 3,15).
Occorre peraltro comprendere bene il significato di questa
debolezza. Certo, se l’uomo è anche solo minimamente attento alla trama della
propria quotidianità, l’esperienza è impietosa nel mostrargli la propria natura
debole e fragile, la costante tentazione di cadere nella schiavitù del peccato,
cioè di quanto si oppone alla vita piena e alla comunione fraterna. È ciò che
viene espresso lapidariamente da Paolo: «Non compio il bene che voglio, ma il
male che non voglio» (Rm 7,19). Si faccia però attenzione a non intendere
questa debolezza quale sinonimo di bassa qualità umana, sovente mascherata
sotto le spoglie della virtù religiosa. Dietrich Bonhoeffer mette in guardia da
tutto ciò:
Le persone religiose parlano di Dio quando la conoscenza
umana … è arrivata alla fine o quando le forze umane vengono a mancare – e in
effetti quello che chiamano in campo è sempre il deus ex machina,
come soluzione fittizia a problemi insolubili, oppure come forza davanti al
fallimento umano; sempre dunque sfruttando la debolezza umana o di fronte ai
limiti umani … Io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle
debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma
nella vita e nel bene dell’uomo … Gesù non ha mai messo in questione la salute,
la forza, la felicità di un uomo in quanto tali, né li ha considerati dei
frutti bacati: perché altrimenti avrebbe risanato i malati, ridato forza ai
deboli? Gesù rivendica per sé e per il regno di Dio la vita umana tutta intera
e in tutte le sue manifestazioni (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa,
Cinisello Balsamo 1988, pp. 350-351.417).
In altri termini, il cristiano è chiamato a vivere una vita
piena, una vita bella, buona e beata come quella di Gesù Cristo, e a fare
questo senza confidare in se stesso con folle e arrogante autosufficienza –
salvo poi ritornare a Dio nel momento dell’angoscia e del bisogno! –, ma solo
nella grazia e nell’amore sempre preveniente di Dio. Si tratta in definitiva di
fare obbedienza a una precisa parola di Gesù: «Se qualcuno vuole venire dietro
a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23;
cf. Mt 16,24; Mc 8,34). Non occorre cercare, invano, di scegliere una «croce»
per sé: è la vita stessa a fornire, volta per volta, quella peculiare a
ciascuno di noi. Sono i limiti insiti nella propria storia familiare, nel
proprio corpo, nella propria psiche, sono le contraddizioni immancabili nei
rapporti umani, fino all’estenuante e decisiva lotta che ci attende: fare
dell’enigma della morte un mistero che, illuminato dal Crocifisso, riveli il
senso del senso, la chiamata dell’uomo alla resurrezione e alla vita eterna.
Noi e il Crocifisso
Verranno sicuramente giorni in cui sentiremo come una
contraddizione questa debolezza, e potremo anche chiedere a Dio di togliercela,
ma egli risponderà anche a noi, come a Paolo: «Ti basta la mia grazia: la mia
potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9). Ecco, la
debolezza scelta da Dio per rivelare e attuare la salvezza (cf. 1Cor 1,27) è lo
strumento privilegiato da Dio stesso per manifestare la sua azione nel
cristiano. Essa va colta dal credente alla luce del dono preveniente («Se tu
conoscessi il dono di Dio…»: Gv 4,10) e nella consapevolezza del tesoro che in
essa è racchiuso. Solo così può essere letta e accolta come debolezza «beata»,
«gradita», come afferma con audacia Bernardo di Clairvaux:
O beata debolezza (optanda infirmitas), colmata dalla
potenza di Cristo … L’ignominia della croce è gradita a chi non è ingrato verso
il Crocifisso (Discorsi sul Cantico dei cantici 25,7.8). Sì, la
croce è scandalo e follia, ma al cristiano è chiesto solo di non contraddirla,
bensì di accettare che, attraverso di essa, la potenza di Dio, la potenza del
Crocifisso risorto operi nella sua vita!
Conclusione
Proprio la croce, il simbolo più terribile e umiliante
conosciuto all’interno della società romana, accogliendo su di sé Gesù Cristo è
divenuto il punto culminante della storia di salvezza di Dio con l’umanità,
l’evento in cui avviene la rivelazione definitiva del volto di Dio: davvero la
croce è teologa! La croce è il segno della responsabilità illimitata di Dio nei
confronti dell’umanità peccatrice. Nel Figlio Gesù Cristo, giusto e innocente,
è Dio stesso che sulla croce assume le conseguenze dei peccati commessi
dall’umanità e si sottomette alla pena riservata ai peccatori. Questa gratuità
fino all’estremo, questa «follia» (1Cor 1,18.23.25) che si può spiegare solo
con un eccesso d’amore diventa allora ciò che fa intravedere nella croce il
senso radicale dell’esistenza umana del credente come esistenza responsabile.
Il Crocifisso ci rimanda all’amore per l’altro fino al dono
della vita: la croce è il compimento dell’amore di Cristo per i suoi discepoli
e per l’umanità tutta (cf. Gv 13,1); la croce è il compimento dell’obbedienza
del Figlio al Padre (cf. Mc 14,35-36); la croce è il compimento della libertà
di Cristo che depone da se stesso la propria vita (cf. Gv 10,17-18). Sì, la
croce è compimento più che fine: è il compimento di un’esistenza vissuta
nell’amore, nell’obbedienza e nella libertà, di una vita di fede come vita
responsabile, di fronte a Dio e di fronte agli uomini.
Ebbene, sulla croce Gesù è stato l’uomo che si è caricato
delle sofferenze dei fratelli, l’uomo che non si è difeso rispondendo con
violenza alla violenza che gli veniva inflitta, ma ha speso la vita per gli
altri, offrendo se stesso «fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8).
in questa morte che agli occhi del mondo è una sconfitta
consiste la vittoria dell’amore di Gesù, il Servo del Signore crocifisso,
«vincitore perché vittima» (Agostino, Confessioni 10,43).
Ci poniamo davanti una rappresentazione della Tua passione
affinché i nostri occhi di carne abbiano qualcosa a cui aderire. Essi però non
adorano una immagine perché l’immagine rinvia alla realtà della Tua passione.
Quando infatti guardiamo più attentamente l’immagine della Tua passione, nel
silenzio ci sembra di udire la Tua voce che dice: Ecco come vi ho amati, vi ho
amati fino alla fine.
(Meditativae orationes 10,7)
I Crocifissi di Donatello narrano certamente un Cristo
sofferente, con il capo reclinato in un dolore umanissimo… La bocca però è
aperta ed emette lo Spirito. “Tutto è compiuto!” sono le ultime parole del
Crocifisso nel vangelo secondo Giovanni. E l’evangelista prosegue: “Chinato il
capo, effuse lo Spirito”. Marco, Matteo e Luca dicono “chinato il capo, morì,
spirò”; Giovanni invece precisa “consegnò, effuse lo Spirito”. Quello Spirito
che lo abitava, lo Spirito santo, che aveva presieduto al suo concepimento nel
seno della Vergine Maria, che era disceso su di lui al momento del Battesimo…
Gesù con la sua morte lo effonde su tutto l’universo, su tutta la terra. La
Pentecoste per Giovanni è sotto la Croce!
Stare sotto la croce di Donatello è ricordare che sotto la
Croce c’eravamo anche noi e che lo Spirito che Gesù ha emesso dalla sua bocca è
lo Spirito santo che perdona i peccati di tutti gli uomini (“ipse remissio
omnium peccatorum“, recita un testo liturgico). Quello stesso Spirito nella
cui potenza Dio ha risuscitato Gesù, ravviva tutta la Chiesa e tutta l’umanità.
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