lunedì 31 marzo 2025

PARLARE DI DIO

 

COME ?


Cirignano, autore di tanti saggi, in gran parte pubblicati nella collana “Le ragioni dell’Occidente” di Polistampa, densi di riferimenti...


Cirignano, autore di tanti saggi, in gran parte pubblicati nella collana “Le ragioni dell’Occidente” di Polistampa, densi di riferimenti alle radici spirituali del mondo (non solo) europeo e ai fermenti religiosi (non solo cristiani) costitutivi di una identità e di una cultura, accompagna i suoi lettori in un lungo percorso alla ricerca della verità e delle parole per esprimerla. 

Già docente nella Facoltà di teologia dell’Italia Centrale e assistente dell’Associazione italiana maestri cattolici, trasmette lo spirito delle sue ricerche bibliche nello stile che gli dettano la sua esperienza pedagogica, la sua conoscenza del mondo giovanile, la sua passione per la bellezza. Parlare di Dio, come? (Mauro Pagliai Editore) non è un trattato sulle teorie del linguaggio o sul linguaggio teologico: è un interrogarsi, è un conversare in modo affabile e con efficacia su possibili nuove prospettive e nuovi orizzonti.

Strutturato in 20 capitoli, il lavoro di Cirignano si legge con interesse, suscita partecipazione, è fruibile. Ogni capitolo un tema, ogni tema nasce dall’attenzione dello studioso ai problemi e alle inquietudini del nostro tempo. Il capitolo terzo, “Come iniziare?”, è da leggere come premessa metodologica. «Parlando di come iniziare il nostro lavoro, mi piace pensare a come Paolo dà inizio al Nuovo Testamento», “inizio folgorante”, tutto centrato sulla comunità di Tessalonica, su Dio Padre, su Gesù Cristo, sulla Grazia, sullo Spirito, sulla fede, sulla speranza... Cirignano ritiene di doverne seguire l’insegnamento per contribuire «ad ipotizzare un nuovo modo di parlare di Dio» (p.27).

Ogni capitolo riporta in esergo un passo del Vangelo. Ma il capitolo VI, dal titolo “I mezzi di in comunicazione”, sorprende: l’argomento «non consente la consueta scelta di un brano evangelico come introduzione. I moderni mezzi di comunicazione sono, infatti, del tutto estranei a Gesù e al suo tempo»(p. 49). Le difficoltà di cui è irto il cammino da compiere non sono superabili se non riscoprendo l’interiorità ossia l’ essenza e l’autenticità della persona umana.

Il libro è un invito al dialogo e alla lettura del Vangelo. Il magistero educativo di Cirignano è tutto Vangelo. Dio si dice con le parole del Vangelo, che sono semplici e profonde. Cirignano le vive e le spiega. Le spiega soprattutto con Luca, “scrittore di talento”: il Dio in cui credono i fedeli del Vangelo è un Dio che perdona i peccati. La peccatrice che raggiunge il Maestro nella casa del fariseo Simone (77,367,3636-50) offre segni di pentimento. Non una parola, parlano i suoi gesti (p.84).

«Il perdono dei peccati e l’amore si cercano sempre»(p. 85). L’uomo del nostro tempo è alla ricerca di se stesso. Dialogo, testimonianza, tensione verso la verità. Parlare di Dio, come? richiama le pagine straordinarie di Pane al pane e di Non lasciamoci rubare il Vangelo. E quando il dire appassionato di Cirignano si trasforma in versi (apparente poesia, lui dice), il Vangelo ci si rivela in tutto il suo immenso stupore: è crescita, è preghiera, è vita.

Data recensione: 20/12/2024

Testata Giornalistica: L’Avvenire

Autore: Francesco Pistoia



IN CAMMINO VERSO LA PASQUA

 

 SIATE RAGIONEVOLI 

CHIEDETE L'IMPOSSIBILE!



Riflessioni di don Giulio Cirignano*

 -31 marzo 2018

L’invito esteso all’intera comunità associativa e al vasto e variegato mondo dei credenti e dei non credenti, è stato categorico: “Puntate all’impossibile. L’impossibile come anelito, come sogno, come progetto. Utopia amabile e liberante. L’impossibile come la più concreta forma di ragionevolezza”.

La Pasqua, infatti, è di per sé un evento umanamente impossibile. Per Gesù, invece, si tratta di risorgere da morte, entrare in una vita nuova. Gesù non è rinvivito, è risorto. È già ‘ impossibile’ pensare ad un morto che riprende a vivere. Ancora più impossibile è pensare ad un morto che riprende la vita per non morire più.

Il mistero cristiano ha nel Signore risorto il suo punto decisivo. Inimmaginabile. Di portata cosmica: è come l’inizio di una nuova creazione.

I credenti, allora, sono i ‘ figli’ della resurrezione. I figli della vita contro la morte. I discepoli dell’impossibile divenuto realtà.

‘Figli della resurrezione’: trattasi di un ebraismo assai espressivo e adatto: l’ebraico per esprimere l’appartenenza usa la parola ‘ figlio ’.

Celebrare la Pasqua, allora, è credere nell’impossibile e volerlo. È fare spazio a un grande sogno che spesso non abbiamo neppure il coraggio e la forza di coltivare.
Don Giulio Cirignano, nel muovere da questo assunto e confortato da puntuali richiami biblici ed evangelici, indica i contesti dentro i quali coabitare con la dignitosa utopia dell’essere ragionevoli, chiedendo l’impossibile.

 A livello sociale

* L’impossibilità di una convivenza più ricca di umanità. Puntare all’impossibile è già metterla in essere.

* L’impossibilità di un progetto di convivenza veramente segnato dalla giustizia. È ragionevole volere    questa impossibile possibilità.

* L’impossibilità di resistere alla banalità elevata a norma. Alla sciatteria, al qualunquismo, al populismo    facile e aggressivo. Si può resistere.

* L’impossibilità di una politica più libera dagli interessi privati. Occorre cominciare a pensarla e a volerla.   Con iniziative concrete di formazione alla buona politica.

* Celebrare la Pasqua è credere all’impossibilità di una cultura meno arida e insignificante: ciò non può    essere lasciato al caso. Ma frutto di decisione e di responsabilità.
* Siamo   ragionevoli, crediamo   all’impossibile. Crediamoci con tutte le forze. Crediamoci in modo da    rendere onore alla nostra fede pasquale. Altrimenti la Pasqua sarà solo rito, l’emozione spirituale di un    momento, una fugace parentesi, inerte, senza forza creativa.


A livello ecclesiale.

In questo contesto è ancora più entusiasmante. * L’impossibilità di una Chiesa più fraterna: è questo il progetto di Gesù. Più fraterna per la comunione e la  stima reciproca.

* L’impossibilità di una Chiesa meno incartata nella sua autosufficienza, nella continua autocelebrazione.
* L’impossibilità di una Chiesa più evangelica. Perché più povera. Di averi, di potere, di ambizioni.
* L’impossibilità di una Chiesa amica dell’uomo, di tutti gli uomini.

* La comparsa di Papa Francesco: l’impossibile è divenuto realtà.* Quest’anno la Pasqua sarà più dolce: il coraggio del Conclave ci autorizza a credere nell’impossibilità che    si fa ragionevole prospettiva di una Chiesa più fedele al Vangelo e al Concilio. Sì, siamo esortati ad    essere ragionevoli e a credere in un’esperienza ecclesiale con la forza di una nuova convinzione.

 A livello personale

* Siamo ragionevoli nel credere all’impossibilità che si fa possibilità, per grazia, di essere più liberi dai nostri    egoismi. È necessario, però, volerla, desiderarla questa impossibilità.
* Crediamo nell’impossibilità di amare di più e meglio. È la cosa più ragionevole volere amare di più.   Volere un amore più grande: per la nostra pace interiore,per il nostro lavoro, per la nostra famiglia.

* Desideriamo, come nostro futuro, l’impossibilità di volerci persone, se non felici, almeno più serene, più    contente.

* Chiediamo a noi stessi l’impossibile di volgere le spalle a ogni forma di pessimismo e di sfiducia. Siamo   discepoli dell’impossibile anche coltivando la speranza di poter guardare, intorno a noi, con sguardo coraggioso e mite.

* Guardando a Gesù crediamo e scegliamo l’impossibile ragionevolezza di non rimanere prigionieri del    passato e fare del futuro il verbo più congeniale alla nostra dignità.
  Non c’è deviazione che non possa essere corretta. Gesù fu un formidabile amante di futuro in alcuni    incontri: a) “Nessuno ti ha condannato.  Neppure io, vai in pace e smetti di innamorarti della tua    fragilità”, b) “Zaccheo, oggi voglio fermarmi a casa tua “e cambiò tutto; c) “Nicodemo, sappi che si     può nascere di nuovo, dall’alto”; d) “Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro. E Pietro si ricordò . . . e uscito pensò amaramente: ‘ Ricomincio a vivere’ “; e) “Oggi sarai con me in paradiso!”.

 A livello associativo.

* Siamo ragionevoli: crediamo e scegliamo come impossibile, fortunato ideale, quello di entrare a far parte    di questa Chiesa che sembra prepararsi ad una insperata fioritura. Con lucida coscienza di alter natività.

* Crediamo ragionevole l’impossibile comunione di intelligenze e di volontà giovani per una scuola in grado    di liberare dall’ignoranza e generare alla capacità di scelta e partecipazione. Giovani, nuove, fresche: da   andare a cercare e coinvolgere.

* Siamo ragionevoli: chiediamo a noi stessi l’impossibile fedeltà al nostro passato, alla ricca elaborazione    dei nostri oltre sessanta anni di storia. È ragionevole amare preservare quanto si è fatto, come premessa di futuri percorsi.

* Chiediamo l’impossibile intelligenza di quello che la scuola deve e può essere come anello di una     cittadinanza più responsabile.  Ora, in questo momento, lungo la linea interrotta dell’innovazione e del    cambiamento.

* Cosa è possibile ancora chiedere e volere a livello associativo? Senza il continuo richiamo alle ragioni del nostro operare, senza la giocosa e continua riscoperta della nostra     cittadinanza evangelica. L’associazionismo vive una inedita povertà. Ma, forse, è proprio in momenti come questi che    alberga, sottotraccia, la possibilità di una vera, convinta, impossibile alternatività di pensiero e di vita, a    vantaggio della scuola, della Chiesa, della comune convivenza.  Questo è il momento di chiedere l’impossibile e volerlo, buttando sul tappeto energie e reclutandole    dove non le penseremmo mai presenti. Ma esse ci sono e aspettano. 

Allora amici dell’AIMC, facciamo    Pasqua con il Signore risorto, ridoniamo nuove attualità all’impossibile bellezza di vivere con gioia. Di  vivere in sintonia con la gioia del Vangelo.

 ·        Don Giulio Cirignano è professore emerito di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale. 

Dal 1978 al 2011 è stato assistente nazionale dell’Associazione Italiana Maestri Cattolici (AIMC). 

Ha pubblicato Porzione di Chiesa. L’AIMC spazio di logica alternativa (1995), Padre nostro (2000), Attualità della Parola (2006), Circuito virtuoso: sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale (2008), Francesco, bellezza e coraggio (2015), Bellezza del gaudio evangelico al centro della vita cristiana (2017), Parole come carboni ardenti (2018), Cambiamento d’epoca (2018), Non lasciamoci rubare la speranza (2019), Non lasciamoci rubare il Vangelo (2020), Ancora un esodo (2020), Il mirabile messaggio della Lettera agli Ebrei (2021), Pane al pane (2022), Sentinella, quanto resta della notte? (2023), Parlare di Dio, come? (2024). In collaborazione col professor Ferdinando Montuschi ha scritto La personalità di Paolo (1999), Marco. Un Vangelo di paura e di gioia (2000) e Come te stesso: la misura dell’amore (2007).

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sabato 29 marzo 2025

UN PADRE MISERICORDIOSO


UN FIGLIO                  PERDUTO                   e RITROVATO
 Il tema della domenica: Il Vangelo: Lc 15,1-3.11-32
Commento di Massimo Grilli

La parabola comunemente denominata del “figlio prodigo” è un capolavoro, non solo della narrativa lucana, ma della letteratura mondiale. Pochi racconti hanno destato una così grande impressione e hanno conosciuto così tante interpretazioni (dalla storico-critica alla filosofica, dalla psicanalitica alla strutturale…); pochi sono stati così rappresentati nell’arte e celebrati nel pensiero. Gli stessi molteplici titoli dati al racconto – allo scopo di cogliere l’essenza del messaggio (“figlio prodigo”, “padre misericordioso”, “figlio perduto e ritrovato” ecc.) – ne hanno in realtà messo in risalto solo l’uno o l’altro aspetto. Troppo ricca la trama, troppo intensa la commozione, troppo ampia la portata simbolica. Se partiamo poi dalla composizione, non è difficile accorgersi che la prima parte si sofferma sul rapporto tra il padre e il figlio più giovane, mentre la seconda sulla relazione tra il padre e il primogenito. La filigrana sta proprio in questo duplice riferimento, che riguarda due atteggiamenti divergenti e due categorie religiose. La figura straordinaria del padre resta comunque centrale e funge da ponte, unendo le diverse sfaccettature ed esaltando il messaggio.

Il figlio perduto

Il racconto inizia in una casa, come tante, dove un uomo viveva con due figli. Il distacco del più giovane non viene giustificato: litigi? desiderio di indipendenza? stanchezza? La curiosità del lettore non viene soddisfatta, perché non è ciò che conta veramente. Un fatto è certo: l’allontanamento è progressivo e il decadimento del figlio uscito di casa diventa sempre più tragico. Nel contesto dell’alleanza, la rottura delle relazioni umane fondamentali, la separazione dalle proprie radici comporta inevitabilmente la rottura con Dio. E infatti, lontano dal padre, il patrimonio viene presto dilapidato con una vita dissoluta, aggravata da una carestia che sopraggiunge inaspettata. Il giovane diventa custode dei porci – animali impuri per eccellenza -, sommo degrado, tanto che un detto rabbinico afferma: «maledetto l’uomo che alleva porci».

Arrivato al fondo della disperazione, il giovane “rientra in sé”: è l’inizio del capovolgimento. Un altro detto rabbinico afferma che, quando gli uomini sono costretti a mangiare carrube, si convertono. Quasi a dire che, spesso, non ci sono alte motivazioni religiose all’origine di una conversione inaspettata; né apparizioni, né vie di Damasco… Semplicemente il degrado, lo stato di abbandono, e un grande vuoto. La vita dissoluta promette molto, ma non offre nulla.

Il padre misericordioso

A questo punto, la macchina da presa si sposta sul padre, autore di una serie di atti piuttosto paradossali e inverosimili sul piano dell’esperienza quotidiana: vede il figlio da lontano (lo aspettava!), è commosso fino alle viscere, gli corre incontro, gli si getta al collo (impedendogli di umiliarsi), lo bacia, gli dà il vestito della festa, gli mette un anello al dito, i sandali ai piedi, e ordina un banchetto. Leggendo questa lunga serie di atti, il lettore avverte immediatamente una straripante passionalità (chi ha detto che la Bibbia è maestra di moderazione?) che avvolge il peccatore, impedendogli di umiliarsi.

Non si parla di penitenze, digiuni ed elemosine; non si chiede di dimostrare sincerità di intenzioni; non si esigono promesse future… Tutto è gratuità, commozione, tutto è tripudio ed ebbrezza, gioia di ritrovarsi, di abbracciarsi, di fare festa… Certo, bisogna evitare facili demagogie e ingenuità ermeneutiche: è necessario capire la retorica del racconto e l’intenzione dell’autore… Tutto vero. Ma non è forse anche vero che, a volte, le nostre comunità ecclesiali rischiano di invecchiare nei “distinguo” e negli equilibrismi diplomatici, di appassire in vecchie e rinsecchite discussioni che giocano sempre in superficie, invece di cantare la gioia del ritorno e del perdono, della gratuità e della festa? Non è vero che viene sempre più a mancare l’ebbrezza e l’esultanza per un solo peccatore che si pente piuttosto che per i novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione? Chi sa guardare ancora lontano, all’orizzonte… non per scrutare le malefatte dei figli dell’uomo, ma per scoprirne l’incanto? Chi sa ancora aspettare e avere nostalgia, perseverare nell’attesa e rispettare i tempi, senza cedere alla disperazione o all’invadenza? Siamo ancora capaci di gratuità, di estasi, esultanza e abbandono?

L’entrata in scena del figlio maggiore cambia la prospettiva della parabola. Bisogna subito dire che, anche sul lettore più disponibile a comprendere questa paternità inusuale, fa un certo effetto il contrasto tra chi ritorna dai campi, fedele al suo compito quotidiano, e la festa di cui gode il dissoluto che ha sperperato ogni avere. Anche qui, gli elementi narrativi sembrano poco convenienti e poco rispondenti all’esperienza quotidiana. È facile intuire che l’ira del figlio maggiore, tutto sommato, viene giustificata dal lettore. Ma tant’è. Egli rimane fuori e il padre – ancora una volta – deve uscire.

Questo tuo fratello

Nello sfogo, il figlio maggiore enumera anzitutto i suoi meriti: il servizio e la fedeltà. Non sono queste le doti richieste a tutti i figli degli uomini? E, dopo aver enumerato i suoi meriti, mette in risalto i peccati del suo fratello minore e l’ingiustizia del padre: «quando è venuto questo tuo figlio, che ha divorato il tuo patrimonio con le prostitute, gli hai ammazzato il vitello ingrassato!». L’accento è su «questo tuo figlio», espressione che tradisce uno sprezzante distacco, o forse odio. Il padre risponde con «figlio!» e il pronome personale «tu», ripetuto enfaticamente due volte: «figlio tutu sei sempre con me». Invece di un rapporto convenzionale, si intravede un amore personale, intimo, fondato sulla relazione.

A «questo tuo figlio», il padre risponde con «questo tuo fratello»: un invito a porsi a un altro livello. In effetti, il problema è proprio questo. In fondo, alla luce di una logica retributiva, il maggiore non ha torto. Ma proprio qui è il punto: il padre agisce partendo da un’altra logica. Dietro l’atteggiamento del primogenito si intravedono certamente le critiche dei farisei al comportamento di Gesù piuttosto benevolo verso i peccatori, ma anche una certa logica cristiana vigente nella comunità di Luca: un modo di sentire le relazioni, che non teneva conto della gratuità e della benevolenza divina.

Luca ricorda che la giustizia divina e umana, invocata dal figlio maggiore, dice anzitutto relazione, rapporto con “l’altro”, prima che rapporto con un codice di comportamento. La fratellanza produce differenziazione e una comunità di fratelli non nega l’alterità; anzi, la esige. L’altro rimane fratello, in quanto altro da me. Lévinas ha intuito molto bene questa dimensione relazionale che sta alla base del discorso biblico e le conseguenze etiche di una tale impostazione. «A un soggetto rivolto verso se stesso… – dice Lévinas –, a un soggetto che si definisce per la cura di sé e che, nella felicità, attua il suo per sé, noi opponiamo il desiderio dell’Altro… di un Altro che sono gli Altri, che non sono né il mio nemico… né il mio complemento…».

Le ultime parole del padre al figlio maggiore sono un invito a entrare nella festa della gratuità, ad abbandonare la logica del dovuto, a riconoscerlo come fratello, ad abbandonare lo scanno di giudice e a porsi sul trono della misericordia, a non allontanarsi – disgustato e sprezzante – nel giardino dei “giusti”, ma a farsi prossimo del peccatore e del dissoluto, perché egli rimane comunque un “fratello”. Il finale aperto della parabola è di una forza pragmatica possente; non si dice quale decisione abbia preso il primogenito: sarà entrato nella festa o si sarà allontanato, sprezzante? Tutto è posto in mano al lettore che, forse, è chiamato lui (!) a rispondere.

*Don Massimo Grilli,

Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano

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AUTOCRAZIA o DEMOCRAZIA ?

 


La crisi 

e le sfide di un modello

 

-         



Di MAURO MAGATTI

-          Dopo la caduta di Berlino e la creazione “dell’ordine liberale globale”, il mondo intero sembrò virare verso la democrazia. A trentacinque anni di distanza la situazione è molto cambiata. Al punto che in tanti si chiedono se il tempo della democrazia sia finito.

Secondo l’Economist Intelligence Unit, circa il 45% della popolazione mondiale vive in una democrazia, anche se meno del 10% in una “piena democrazia”. Al contrario, il 40% vive in un regime autoritario e il restante 15% in una situazione ibrida. Anche se, sottolinea il rapporto, la tendenza negli ultimi anni vede un arretramento della democrazia. Ci sono cause esterne e cause interne che spiegano queste difficoltà. Sul fronte interno si può parlare della convergenza di tre fattori.

Disuguaglianze

Il primo riguarda le crescenti disuguaglianze che mettono in discussione la stessa legittimazione delle istituzioni democratiche. Tema attualissimo anche in Italia dove, come ha appena fatto sapere l’Istat, il 30% della popolazione arranca. Mentre la ricchezza continua a concentrarsi nelle mani di pochi.

Il secondo fattore di crisi riguarda la degenerazione della sfera pubblica aggravatasi con l’avvento dei social. Nel mondo digitale la polarizzazione è la regola. Tutti parlano e nessuno ascolta. E, cosa più grave, le democrazie sono ormai da anni preda di una spirale nichilista che le rende incapaci di costruire: difficile credere in qualcosa. E ancora di più, credere insieme.

Un terzo fattore concerne il nodo dell’efficienza delle istituzioni. Il processo decisionale democratico appare farraginoso e in cronica difficoltà.

 E con l’avanzare dell’intelligenza artificiale, i dubbi che i parlamenti siano ancora in grado di decidere si fa velocemente strada. La crisi del modello democratico diventa evidente nel suo vertice mondiale: l’inedita alleanza tra il populista Trump e i grandi magnati della tecnologia suscita diffuse preoccupazioni. Sul piano esterno, le difficoltà si palesano nel rapido cambiamento dei rapporti internazionali. Con l’attacco all’Ucraina, Putin non ha solo riaffermato il ruolo politico della Russia, ma ha creato un contesto in cui le autocrazie sono diventate più sfacciate e aggressive. Come si vede in questi giorni in Turchia con il clamoroso arresto del principale oppositore del regime di Erdogan.

Il consenso che sembrava essersi consolidato intorno alla desiderabilità del modello democratico oggi non c’è più.

Anzi, i regimi autocratici pretendono di avere le risposte alla crisi della democrazia: in tema di sicurezza, uguaglianza, identità, efficienza.

Democrazia e autocrazia

In questa situazione, la rappresentazione di un mondo diviso tra democrazia e autocrazie guadagna terreno. Anche tra le élite del mondo libero. Senza rendersi conto che una tale visione finisce per avvantaggiare i dittatori che si trovano legittimati proprio dalle difficoltà interne delle democrazie. Tutto ciò significa che, negli anni a venire, le democrazie dovranno dimostrare di essere all’altezza del nuovo tempo storico. Nulla può essere dato per scontato. E tutto ciò concretamente richiede un salto di qualità su almeno tre temi cruciali.

In primo luogo, serve capacità di innovazione istituzionale. Mi limito a osservare che una delle istituzioni fondamentali della democrazia, il Parlamento, (cioè, il luogo dove si parla, si discute per arrivare a una deliberazione) va ripensato al tempo dell’intelligenza artificiale. In secondo luogo, serve tornare a investire sulla partecipazione democratica che al tempo del digitale significa intelligenza sociale diffusa. Se le democrazie vogliono scongiurare uno scenario da “fattoria degli animali” alla Orwell, devono investire su educazione, cultura, corresponsabilità. In un quadro di giustizia sociale e solidarietà.

Quali valori?

In terzo luogo, le democrazie sono chiamate a distinguere pluralismo da nichilismo. Non c’è vita democratica in una condizione di distruzione di ogni valore. Di diritti senza doveri. Ma affrontare tale questione sollecita a ripensare il nostro modello di sviluppo. Oltre il mero consumerismo individualista. Economia e politica si tengono: non è possibile riformare la seconda senza ripensare la prima.

Governance internazionale

L’ultimo aspetto riguarda la governance internazionale. La crisi verticale dell’Onu e delle agenzie multilaterali è un problema serissimo, che va affrontato nel quadro della costruzione di un nuovo ordine globale, basato sui principi fondanti dello stato di diritto, del dilago, della cooperazione, della pace. Passata la stagione in cui si è pensato di esportare la democrazia, impegniamoci a essere parte attiva nella costruzione di istituzioni globali compatibili con i principi democratici.

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LA SOCIETA' IMPIGRITA

 

Cattolici, un “lavoro dello spirito” per scuotere la società impigrita


Oltre l’impressione di incertezza e irrilevanza, 

affiora l’occasione di animare relazioni e progetti condivisi 

riorientando la “zona grigia” di una collettività 

che si accontenta del presente

 

-         di GIUSEPPE DE RITA

-          Anche sapendo che non si può più essere presenza maggioritaria, siamo tutti desiderosi, noi cattolici, di uscire dall’attuale sensazione di incertezza ed irrilevanza. Qualcuno coltiva l’illusione di un ritorno al passato, mentre qualcun altro immagina una fuga in avanti fatta di un minoritario ricompattamento dei “pochi ma buoni”. Due tentazioni di per sé comprensibili, ma che, intrecciandosi e rafforzandosi a vicenda, rischiano di far perdere una grande occasione di incisiva presenza del pensiero cattolico, un’opportunità che sarebbe davvero un peccato perdere. P er spiegare tale opportunità occorre fare un passo indietro nel cammino della Chiesa degli ultimi sessanta anni, da quando essa ha voluto essere chiesa di popolo, capace cioè di mobilitare le diverse energie collettive esistenti nel Paese. La scelta cioè di coniugare la realtà di fede, con lo spirito dello sviluppo sociale, cominciando con la Montée Humaine di Padre Lebret a fine anni ‘50; proseguendo con la Populorum Progressio di Paolo VI del ’65; e ancora con la Promozione Umana del Primo Convegno ecclesiale del ’76. Si può dire che, in fondo, la cultura del mondo cattolico ha condiviso, lungo alcuni decenni, la crescita e la voglia di crescere della società, quasi in silenzioso rispecchiamento tra crescita umana e sviluppo del Paese. Se ci pensiamo, Montée Humaine, Populorum Progressio e Promozione Umana esprimono, in lingue diverse, lo stesso concetto e la stessa speranza, e cioè che lo sviluppo della persona, di ciascuna persona e attraverso questo, lo sviluppo dei popo-li, è prezioso agli occhi di Dio, di più: è il progetto stesso di Dio. M a quella combinata tensione a crescere si è nel tempo affievolita e si è dovuto prendere atto che, sia nella realtà ecclesiale che in quella sociale, si è venuta di fatto formando una ambigua “zona grigia”, alimentata dalle propensioni al vivere di presente; tendente all’individualismo, al soggettivismo; una zona grigia segnata dalla tendenza al tralasciare, al disimpegno (non vado a votare e non vado a Messa); una zona grigia che ha causato, una generalizzata, perdita di senso, una forte difficoltà nelle relazioni, una gran fatica a trovare un progetto di vita comune. Il lavoro dello spirito, la politica come professione/vocazione, esaltato da Massimo Cacciari, oggi ci porta a riconoscere che molti dei problemi del nostro Paese, hanno origine proprio in un deficit di vocazione, una carenza di fini. La tanta politica con poca professione/vocazione è anche lo specchio di una società sempre più incapace di guardare oltre. T utto ciò ha conseguenze in tutti gli ambiti, da quello demografico a quello produttivo e addirittura sul piano dei consumi: i continui aggiornamenti tecnici di alcuni prodotti, sono sempre più palesemente in-utili e il bluff della novità è sempre meno accattivante. C’è un deficit di iniziativa privata nel mondo produttivo, anche gli investimenti pubblici faticano ad essere assorbiti dal sistema, perché manca la necessaria “fame di investimento”. Questo pericoloso impigrimento della società, come della vita ecclesiale, impone la ricerca degli strumenti più efficaci, per rilanciare il protagonismo dei vari soggetti sociali. È noto che la storia italiana degli ultimi decenni ha visto un peso enorme dei soggetti intermedi (da quelli materiali a quelli locali, alle stesse istituzioni ecclesiali). C’è in questo campo una naturale ondata di crisi, ma non sta a noi fare una analisi critica, è indubbio che il mondo cattolico può e deve essere in prima fila, come grande corpo intermedio, per lavorare sulla zona grigia, sviluppando quel poco o quel tanto di “lavoro dello spirito”. P erché le due zone grigie, quella civile e quella religiosa, sono pressoché sovrapponibili, sono due facce della stessa medaglia, solo che quella religiosa conserva l’attitudine alla vocazione, possiede ancora un codice dell’anima condiviso e non vuole rinunciare alla trascendenza, non è un caso, infatti che più della metà degli italiani si rivolge a Dio, crede in una vita dopo la morte e in qualche forma di “giudizio finale”. La grande opportunità allora che si apre in questo scenario sta proprio nel fatto che la chiesa in uscita può portare con sé, nella zona grigia, in modo più o meno latente, i suoi attrezzi spirituali, il suo bagaglio di capacità di orientamento, la sua tensione verso un altrove, la sua spinta a dare senso ad una vita, “che non si esaurisce tutta qua”. I l contributo visto come cattolici sarà quello di richiamare gli italiani all’uso di quegli strumenti, riattivare quei semi, anche piccoli, che la “chiesa in uscita” porta con sé e che oggi, magari senza saperlo, getta nella società. Colmando, là dove ci si trova e per quanto possibile, quel deficit di vocazione che oggi affligge la nostra società, facendo leva su quell’attitudine alla trascendenza che noi tutti abbiamo interiorizzato e che fa parte del nostro patrimonio nazionale, almeno ancora per qualche generazione, visto che l'analfabetismo religioso si diffonde fra i giovani e tra uno o due generazioni, l'erosione potrebbe essere irreversibile. Avviare allora un lavoro dello spirito, una ricerca di vocazione a tutti i livelli, contrasterebbe il soggettivismo spento, orienterebbe le comunità sociali, grandi e piccole, verso il recupero di valori civili e sociali, valori magari con risonanze religiose, ma senza richiami ad appartenenze, sarebbe un bel modo per incoraggiare il Paese ad andare oltre. L a prospettiva allora non dev’essere quella di “andare in missione” nella zona grigia, ma di sperare (e qui sta il senso della “Responsabilità della Speranza”) che la zona grigia sia già in missione per conto dello Spirito. Non c’è niente da insegnare, perché la vocazione non si insegna, ha al suo interno la forza propulsiva per realizzarsi; questo non vuol dire che non servano le condizioni necessarie perché la vocazione, prima si manifesti e poi possa realizzarsi. Come cristiani nella società dovremmo sentire questo come nostro compito, che è anche il compito di una politica come professione. Certo, anche dal punto di vista della Chiesa, serve un lavoro di rafforzamento dell’armamentario spirituale e di orientamento, non ovviamente dello spirito, che è sommamente libero e soffia dove vuole, bensì di quali opportunità la società offra al lavoro dello spirito. Un’azione quasi a distanza, come di chi, da una posizione privilegiata, sappia indicare i sentieri su cui può essere vantaggioso muoversi.

N on si tratta di affrontare un deserto, né tantomeno un territorio ostile, anzi forse c’è in giro meno indifferenza di quel che si immagina; si tratta di tornare ad occuparsi della zona intermedia della società, evitando i margini esterni degli opposti oltranzismi: quello dei saldi “pochi ma buoni”, come quello delle pretese sempre nuove. Tornare a quella che Romano Guardini chiamava “l’officina dell’esistenza”, la nostra zona grigia occupa già la zona intermedia della società e forse è un bene anche per lo zoccolo duro dei praticanti, sempre citando Guardini: «Una vita priva di questa zona intermedia diventa irreale, poiché qui è il luogo dell'attuazione reale». Riprendiamo la sfida dell’attuazione reale, nella linea del Montée, Progressio e Promozione, che scommette sull’uomo reale, nel suo impasto di mediocrità e di vocazione al divino. E a compiere questo lavoro dello spirito, devono sentirsi chiamati principalmente i laici, che sono quelli più impastati alla società. Servono laici, uomini e donne di buona volontà, capaci di riconvertire le esperienze cristiane in esperienze umane e viceversa, di fare un lavoro dello spirito nella società, di aiutare nella ricerca di un fine le tante esperienze civili che, senza vocazione, rischiano di sciupare energie. Occorre, tutti insieme, trovare ambiti e strumenti per fare questo tipo di lavoro, ritrovando anche un linguaggio per parlare al mondo contemporaneo incarnandosi in esso, forse riscoprendo il linguaggio “in parabole”, essere capaci di immaginare e di narrare storie, magari favole, per raccontare le cose di lassù, partendo dalle realtà di quaggiù.

Le opposte tentazioni del ritorno al passato e della chiusura nei “pochi ma buoni” si legittimano a vicenda, lasciando in ombra una grande occasione di presenza incisiva per il pensiero credente. Che non va persa.

 www.avvenire.it

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RISCHIO POVERTA'


Un italiano su quattro rischia la povertà o esclusione sociale

 



-di Giuseppe Savagnone

  

Due rapporti allarmanti

Nello stesso giorno in cui i giornali di destra – «Libero», «La Verità», «Il Tempo» –   hanno consacrato il titolo di prima pagina allo scatto d’ira di Prodi contro la giornalista che l’intervistava, «Avvenire» lo ha dedicato al rapporto Istat, appena pubblicato, in cui si denuncia la progressiva diminuzione delle entrate degli italiani.

«Ancora impoveriti», titolava il giornale cattolico. E, nell’occhiello: «L’Istat segnala come le famiglie abbiano redditi inferiori dell’8,7% rispetto a quello conseguiti nel 2007». Nel sommario sotto il titolo, poi, si leggeva che «un italiano su quattro è a rischio povertà», e che anche tra i lavoratori «il 20% guadagna troppo poco, il 10% è misero».

Forse ci saranno lettori che considerano centrale per il futuro del nostro paese la questione se l’ormai più che ottantenne “padre” della «Margherita e dell’«Ulivo» abbia o no tirato una ciocca di capelli della sua intervistatrice – come evidentemente pensano i direttori dei quotidiani prima citati – , ma, per quanto ci riguarda, a noi sembra che la notizia a cui ha dato risalto «Avvenire» sia ben più significativa e meriti una riflessione.

Il documento in questione è il report dell’Istat su “Condizioni di vita e reddito delle famiglie, anni 2023-2024”, pubblicato mercoledì 26 marzo. Come sintetizza «Il sole 24ore», dal rapporto risulta che «nel 2024 il 23,1% della popolazione è a rischio di povertà o esclusione sociale (nel 2023 era il 22,8%)».

Siamo davanti, dunque, a un fenomeno che coinvolge quasi un quarto degli italiani e che è in continuo peggioramento, soprattutto per gli anziani soli e le famiglie numerose. Ma il problema riguarda tutti. Anche il 10,3% degli occupati, secondo il rapporto, non sono in grado di procurarsi i beni necessari alla vita .

All’origine di questo progressivo immiserimento, c’è una inadeguatezza delle retribuzioni dei lavoratori. A questo è dedicato un altro recente report, il Rapporto mondiale sui salari 2024-2025, pubblicato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) il 24 marzo.

In esso si segnala che in Italia, mentre i salari nominali crescono – nel 2023 si è registrato un aumento del +4,2% – o, quanto meno, si mantengono stabili, il potere d’acquisto dei lavoratori si contrae.

Da questo punto di vista, il nostro paese registra il peggiore risultato rispetto all’intero gruppo del G20: dal 2008 a oggi, i salari reali sono diminuiti dell’8,7%, un dato che pone l’Italia in fondo alla classifica globale. Mentre in Francia c’è stato un aumento di circa il 5 per cento, in Germania di quasi il 15, noi siamo l’unico paese, tra le economie avanzate, a registrare una flessione così marcata.

Alla ricerca delle cause

Secondo molti il problema principale che ha determinato la mancata crescita degli stipendi è che l’economia italiana, in questi ultimi vent’anni, non è sostanzialmente cresciuta, anche per le scelte industriali del paese, orientate più sui settori tradizionali (e che pagano peggio) che su quelli più innovativi e ad alta potenzialità di crescita.

Ma c’è chi sottolinea che – mentre fino all’inizio del 2000 i salari italiani sono cresciuti, eppur debolmente, a un ritmo superiore rispetto alla produttività –  a partire dal 2022 la situazione si è rovesciata: la produttività del lavoro ha ripreso ad aumentare, mentre la crescita retributiva è rimasta pressoché nulla. I lavoratori contribuiscono in misura maggiore alla crescita, senza però riceverne un beneficio proporzionale.

Questo anche perché l’export italiano, per essere competitivo nel mondo ha sempre tenuto bassi i salari, anziché aumentare la produttività, come ad esempio ha sempre fatto la Germania. 

Ma il problema – notano altri – è più generale e ha a che fare con l’indebolimento del ruolo dei sindacati. Gli aumenti salariali, negli altri paesi europei, passano infatti dai rinnovi dei cosiddetti contratti collettivi, negoziati a livello nazionale e rinnovati puntualmente, di solito dopo un triennio, tenendo conto della crescita del costo della vita e delle altre circostanze che possono giustificare nuove e più vantaggiose condizioni per i lavoratori.

In Italia, invece, l’Istat nel 2024 segnalava che il 50% dei lavoratori aveva un contratto scaduto e che dunque il suo stipendio era fermo.  

L’inflazione degli ultimi anni ha ulteriormente aggravato le cose: dal gennaio 2021 al febbraio 2025 i prezzi sono aumentati complessivamente di quasi il 18 per cento, mentre le retribuzioni contrattuali dell’8,2, cioè meno della metà. Gli adeguamenti retributivi attuati in risposta all’aumento dei prezzi si sono rivelati insufficienti a compensare la perdita di potere d’acquisto.

L’impatto è stato particolarmente pesante per i redditi più bassi, che destinano una quota maggiore del proprio stipendio ai beni di prima necessità, i cui prezzi hanno subito gli aumenti più consistenti.

L’erosione del potere d’acquisto è diventata così non solo una questione economica, ma anche un tema di giustizia sociale, perché accresce le disuguaglianze, già molto marcate.

L’Italia è, tra i principali stati membri dell’UE, quello che registra il divario più ampio tra ricchi e poveri: l’1% detiene il 13,6% di tutto il reddito nazionale e il 5% delle famiglie possiede quasi la metà – il 48% – della ricchezza.

Le rivendicazioni  entusiastiche del governo

Davanti a questo quadro, aggiornato al biennio 2023-2024, non può non lasciare perplessi la grande soddisfazione con cui Giorgia Meloni e i rappresentanti dei partiti di maggioranza rivendicano i risultati conseguiti, proprio nel campo economico, durante questi tre anni di governo.

Il cavallo di battaglia è l’aumento del numero degli occupati, che è è passato dai 23,519 milioni del luglio 2023 ai 24,222 milioni del gennaio 2025, con un tasso di occupazione del 62,8%. Si tratta del livello più alto dal 2004. È un dato di fatto che nei primi due anni di governo di Giorgia Meloni l’occupazione è cresciuta di 847mila unità (+3,6%).

Naturalmente non sono mancate le obiezioni. Secondo la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein, dietro al record del numero degli occupati si nasconde la crescita dei contratti a tempo determinato. In verità, i numeri smentiscono questa tesi. Secondo l’Istat, sotto il governo Meloni gli occupati dipendenti a tempo indeterminato sono aumentati di quasi 940 mila unità, mentre quelli a termine sono scesi di 266 mila unità.

Il problema è un altro. Le aziende assumono tanto perché pagano poco. La spiegazione più plausibile dell’apparente miracolo italiano del lavoro è verosimilmente legata alla bassa o inesistente crescita dei salari.

Per le imprese il costo del lavoro in termini reali in Italia è diminuito di quasi il 10%. Così, l’aumento del tasso di occupazione, che potrebbe essere visto come un successo, si colloca in un quadro in cui si abbassa la media dei salari e aumenta il numero di occupati con redditi bassi.

Senza dire che la crescita dell’occupazione non riguarda tutte le fasce. Essa è stata spinta soprattutto dall’aumento dei lavoratori maschi, che rappresentano circa l’80% di tutto il rialzo dell’ultimo anno, raggiungendo i 14 milioni, mentre le donne sono stabili intorno ai 10,2 milioni.

Resta inoltre aperta la questione giovanile. Il 93% dei nuovi occupati ha più di 50 anni. Incrementi più modesti ci sono stati nella fascia più giovane della popolazione, e ancora più modesti in quella tra i 35 e i 49 anni.

Per non parlare degli stranieri, schiacciati quasi sempre su basse qualifiche e i cui salari sono quasi del 30% inferiori a quelli dei lavoratori italiani.

Uscire dalla logica della campagna elettorale

Non si possono certo attribuire a questo governo tutte le colpe dell’attuale situazione. Tuttavia, è evidente che la sua politica non solo non l’ha cambiata, ma neppure si è mossa nella direzione di farlo.

La demonizzazione delle tasse, che sono il principale meccanismo di redistribuzione della ricchezza; l’indebolimento del pubblico e il favore scoperto nei confronti del privato – specialmente nell’ambito della sanità – , con la conseguente penalizzazione di chi non è in grado di fruire dei servizi a pagamento; lo sforzo constante di ridurre quanto più possibile l’influenza dei sindacati, rendendo così possibile il mancato rinnovo dei contratti di lavoro; la palese ostilità nei confronti degli stranieri, di cui vengono ostacolati in tutti i modi l’integrazione  e l’inserimento nel mercato del lavoro, delineano un progetto di società in cui i poveri sono destinati a diventare sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi.

I due rapporti – dell’Istat e dell’ILO – da cui siamo partiti non sono che lo specchio di questa tendenza. I proclami di «missione compiuta», volti a puntare i riflettori sui parziali successi, non possono nascondere la realtà di una nave “Italia” che sta affondando. Anche se si cerca in tutti i modi – e purtroppo con successo – di distrarre l’opinione pubblica su problemi del tutto marginali (come la lite di Prodi con la giornalista), contando sul fatto che ad annegare sono comunque i passeggeri invisibili della terza classe, nella stiva.

 

www.tuttavia.eu


 

L'ARTE DEL MANIPOLARE

 


Piattaforma X e non solo: come si manipola l’elettore, la distorsione algoritmica della realtà

 

-         di Salvatore Parlagreco

-          

L’affermazione “You are media now”, pubblicata da Elon Musk sul suo profilo personale su X (ex Twitter), racchiude in modo sintetico ma emblematico la trasformazione in atto nel panorama dell’informazione digitale. Questo cambiamento solleva interrogativi centrali sulla disintermediazione del sapere, sul ruolo dei social media nella costruzione del discorso pubblico e, soprattutto, sulla concentrazione del potere informativo nelle mani di attori privati.

L’acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk nel 2022, e la successiva ristrutturazione della piattaforma in X, non rappresentano solo un’operazione industriale o una scommessa sul futuro dei social network. Piuttosto, costituiscono un caso di studio sulla privatizzazione degli spazi di informazione e sulla capacità dei grandi player tecnologici di intervenire direttamente nel tessuto socio-politico. Il controllo esercitato da Musk sull’algoritmo di visibilità, sulle politiche di moderazione e sulla direzione editoriale de facto di X va osservato non in chiave morale, ma sistemica.

Secondo McChesney (2013), uno dei nodi centrali dell’informazione digitale è la commistione tra logiche di mercato e funzione democratica dei media. Quando la distribuzione dell’informazione avviene su piattaforme guidate da interessi economici e personali, il rischio di una “distorsione algoritmica della realtà” – come la definisce Eli Pariser nel concetto di filter bubble – si fa concreto. La trasparenza dei criteri di selezione e amplificazione dei contenuti diventa così elemento essenziale per la salute del discorso pubblico.

Non è nuova, del resto, la tendenza di Musk a intervenire direttamente nel dibattito politico. In Germania, a fine 2023, la piattaforma X ha ospitato contenuti controversi sulla gestione migratoria, amplificati da profili vicini all’estrema destra, con la tacita benevolenza dell’algoritmo. In Italia, Musk ha commentato – con tono critico – decisioni della magistratura, insinuando una indebita rappresentanza della volontà popolare, mancando il requisito della elezione. La sua esposizione non si limita al commento: la piattaforma stessa è il vettore del messaggio. È qui che la distinzione tra medium e messaggio, già teorizzata da McLuhan, si dissolve.

L’idea che ciascun utente sia “media” è una forma di empowerment apparente. In realtà, la capacità di raggiungere un pubblico vasto dipende dalla conformità del contenuto alle logiche

 in Articoli

Immagine: Pifferaio magico

 

 

 


TEOLOGIA DELLA PROSPERITA'

 


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«Teologia della prosperità»:

 questo è il nome più conosciuto e

 descrittivo di una corrente

 teologica neo-pentecostale

 evangelica. 

Il nucleo di questa «teologia» è la convinzione che Dio vuole che 

i suoi fedeli abbiano una vita prospera, e cioè che siano ricchi 

dal punto di vista economico, sani da quello fisico 

e individualmente felici. 

Questo tipo di cristianesimo 

colloca il benessere del credente al centro della preghiera, 

e fa del suo Creatore 

colui che realizza i suoi pensieri e i suoi desideri.


- di Antonio Spadaro*

Il rischio di questa forma di antropocentrismo religioso, che mette al centro l’uomo e il suo benessere, è quello di trasformare Dio in un potere al nostro servizio, la Chiesa in un supermercato della fede, e la religione in un fenomeno utilitaristico ed eminentemente sensazionalistico e pragmatico.

Questa immagine di prosperità e benessere, come vedremo più avanti, fa riferimento al cosiddetto American dream, al «sogno americano». Non si identifica con esso, ma con una sua interpretazione riduttiva. In sé questo «sogno» è la visione di una terra e di una società intese come un luogo di opportunità aperte. Storicamente, attraverso diversi secoli, è stata la motivazione che ha spinto molti migranti economici a lasciare la propria terra e a raggiungere gli Stati Uniti per rivendicare un posto in cui il loro lavoro avrebbe prodotto risultati irraggiungibili nel loro «vecchio mondo».

La «teologia della prosperità» prende spunto da questa visione, ma la traduce meccanicamente in termini religiosi, come se l’opulenza e il benessere fossero il vero segno della predilezione divina da «conquistare» magicamente con la fede. Questa «teologia» è stata diffusa – grazie anche a gigantesche campagne mediatiche – in tutto il mondo per decenni da movimenti e ministri evangelici, specialmente neo-carismatici.

Scopo della nostra riflessione è quello di illustrare e valutare questo fenomeno, che intende essere anche un tentativo di giustificazione teologica del neoliberismo economico. Alla fine verificheremo come papa Francesco sia intervenuto più volte per indicare i pericoli di questa teologia che, come è stato detto, «oscura il Vangelo di Cristo»[1].

La diffusione nel mondo

Il «vangelo della prosperità» (prosperity gospel) è andato diffondendosi non soltanto negli Stati Uniti, dove è nato, ma anche in Africa, specialmente in Nigeria, Kenya, Uganda e Sudafrica. A Kampala c’è un grande stadio coperto che è il Miracle Center Cathedral, la cui costruzione è costata sette milioni di dollari. È l’opera del pastore Robert Kayanja, che ha sviluppato anche un vasto movimento molto presente nei media.

Ma anche in Asia il «vangelo della prosperità» ha avuto un notevole impatto, soprattutto in India e in Corea del Sud. In quest’ultimo Paese, negli anni Ottanta, c’è stato un forte movimento autocto­no legato a questa corrente teologica, promosso dal pastore Paul Yonggi Cho. Egli ha predicato una «teologia della quarta dimensione», secondo la quale i credenti, mediante lo sviluppo di visioni e sogni, sarebbero potuti giungere a controllare la realtà, ottenendo qualsiasi genere di prosperità immanente[2].

Si osserva anche un radicamento nella Repubblica Popolare Cinese, grazie alle «Chiese di Wenzhou». Wenzhou è un grande porto orientale nella provincia dello Zhejiang, nella cui zona grandi croci rosse sono comparse in sempre più numerosi edifici. Di solito esse indicano la presenza di una «Chiesa di Wenzhou», una comunità originata da vari imprenditori locali, legata al movimento della «teo­logia della prosperità»[3].

In America Latina, è stato a partire dal 1980 che la diffusione e la propagazione di questa teologia si è verificata in maniera esponenziale, sebbene se ne trovino radici tra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso. Questo fenomeno religioso si traduce, dal punto di vista mediatico, nell’uso della televisione da parte di figure molto carismatiche di alcuni pastori, detentori di un messaggio semplice e diretto, montato attorno a uno show di musica e testimonianze e a una lettura fondamentalista e pragmatica della Bibbia.

Se consideriamo l’America Centrale, Guatemala e Costa Rica probabilmente sono diventati i due bastioni principali di questa corrente religiosa. In Guatemala è stata determinante la presenza del leader carismatico Carlos Enrique Luna Arango, detto «Cash Luna». Il Costa Rica è la sede del canale televisivo satellitare evangelico TBN-Enlace.

In Sudamerica, la diffusione più significativa si è avuta in Colombia, in Cile e in Argentina, ma indubbiamente merita una considerazione speciale il Brasile, perché possiede una dinamica propria e un movimento pentecostale autoctono come la «Chiesa universale del Regno di Dio». Questo gruppo, denominato anche «Smetti di soffrire», ha ramificazioni in tutta l’America Latina, ma ha conservato un linguaggio intermedio tra lo spagnolo e il portoghese, che determina un tipo di comunicazione peculiare e accuratamente studiato. Basta analizzare l’annuncio della «Chiesa universale» brasiliana per ritrovare un forte messaggio di prosperità e benessere, collegato alla frequentazione personale dei suoi templi al fine di ricevere molteplici benefici.

Questo «vangelo» è propagandato da una presenza massiccia nei grandi mezzi di comunicazione, ed è sostenuto dalla sua forte incidenza sulla vita politica.

Le origini del movimento e il «sogno americano»

Se cerchiamo le origini di queste correnti teologiche, le troviamo negli Stati Uniti, dove la maggioranza dei ricercatori della fenomenologia religiosa americana le fanno risalire al pastore newyorchese Esek William Kenyon (1867-1948). Egli sosteneva che attraverso il potere della fede si possono modificare le concrete realtà materiali. Ma la diretta conclusione di questa convinzione è che la fede può condurre alla ricchezza, alla salute e al benessere, mentre la mancanza di fede porta alla povertà, alla malattia e all’infelicità.

Le origini della «teologia della prosperità» sono in realtà complesse, ma qui proponiamo le radici più significative, rinviando a volumi e saggi specialistici per approfondimenti. La teologa Kate Ward, ad esempio, ha scritto sull’influenza di Adam Smith, specialmente della sua «teoria dei sentimenti morali»[4]. La Ward, in questo senso, mostra come la compassione, per Smith, non riguarda i poveri, ma l’ammirazione di coloro che hanno avuto una storia di successo.

Queste dottrine si sono correlate e nutrite in misura consistente anche del positive thinking, il «pensiero positivo», espressione dell’ Ame­rican way of life («modo americano di vivere»). Esse si collegano in questo senso alla «posizione eccezionale» che Alexis de Tocqueville nel suo celebre La democrazia in America (1831) attribuiva agli americani, a tal punto che si possa «ritenere che nessun popolo democratico verrà mai a trovarsi in una posizione simile» alla loro. Tocqueville arriva ad affermare che tale way of life plasma anche la religione degli americani.

A volte sono le stesse autorità americane a certificare questo legame[5]. Nel suo recente discorso sullo stato dell’Unione, del 30 gennaio 2018, il presidente Donald Trump, per descrivere l’identità del Paese, ha affermato: «Insieme, stiamo riscoprendo il “modo americano di vivere”». E ha proseguito: «In America, sappiamo che la fede e la famiglia, non il governo e la burocrazia, sono il centro della vita americana. Il motto è: “Confidiamo in Dio” (In God we trust). E celebriamo le nostre convinzioni, la nostra polizia, i nostri militari e veterani come eroi che meritano il nostro sostegno totale e costante». Nel giro di alcune frasi appaiono dunque Dio, l’esercito e il sogno americano[6].

Le «mega-chiese» del «vangelo diverso»

Un impulso fondamentale a queste idee di «prosperità evangelica» è stato dato dal Movimento «Word of Faith», che ha avuto come mentore principale il pastore, autoproclamatosi «profeta», Kenneth Hagin (1917-2003). Una delle caratteristiche di Hagin erano visioni ricorrenti, che lo portavano a dare una singolare interpretazione di alcuni testi molto conosciuti della Bibbia. È il caso, ad esempio, di Mc 11,23-24: «In verità vi dico: chi dicesse a questo monte: Lèvati e gèttati nel mare, senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quanto dice avverrà, ciò gli avverrà. Per questo vi dico: Tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà». Questi due versetti sono per Hagin pilastri portanti della «teologia della prosperità».

Egli afferma che, per tradursi in opere, la fede miracolosa deve essere senza incertezze, specialmente nelle cose impossibili: deve dichiarare specificatamente il miracolo e credere che lo si otterrà nella maniera immaginata. Hagin ha pure enfatizzato un altro aspetto: il fatto che il miracolo desiderato deve essere considerato come già concesso. Cioè, si deve spostare la sua realizzazione dal futuro al passato.

Sia Kenyon sia Hagin hanno compreso che la comunicazione di massa era uno strumento fondamentale per la rapida diffusione dei loro insegnamenti. Il primo se n’è servito con il suo show personale Kenyon’s Church of the Air, e il secondo con il programma Faith Seminar of the Air.

Ci sono alcuni predicatori che si possono citare come continuatori delle teologie di Kenyon e Hagin e della loro strategia di comunicazione. Il primo è Kenneth Copeland – che dallo stesso Hagin fu «unto» come suo successore – con il suo programma televisivo Believer’s Voice of Victory, che ha diffuso in gran parte del mondo quelle dottrine. Allo stesso modo, Norman Vincent Peale (1889-1993), pastore della Marble Collegiate Church di New York, ha raggiunto la popolarità con i suoi libri dai titoli eloquenti nel loro significato: Il potere del pensiero positivoCambia i tuoi pensieri e tutto cambieràGuida per una vita in positivo. Peale è stato un predicatore di successo, riuscendo a mescolare marketing e predicazione.

Negli Stati Uniti milioni di persone frequentano assiduamente «mega-chiese» che diffondono queste teologie della prosperità. I predicatori, profeti e apostoli arruolati in questo ramo estremo del neo-pentecostalismo, hanno occupato spazi sempre più importanti nei mass-media, pubblicando un’enorme quantità di libri rapidamente divenuti best-sellers e pronunciando conferenze che molto spesso vengono diffuse a milioni di persone con tutti i mezzi disponibili di internet e delle reti sociali.

Nomi come Oral Roberts, Pat Robertson, Benny Hinn, Robert Tilton, Joel Osteen, Joyce Meyer e altri hanno accresciuto la propria popolarità e ricchezza a forza di approfondire, enfatizzare ed estremizzare questo vangelo. La sola Joyce Meyer afferma che il suo programma televisivo «Come godersi la vita di ogni giorno» raggiunge due terzi del mondo attraverso la radio e la televisione ed è stato tradotto in 38 lingue[7].

Quello che risulta assolutamente chiaro è che il potere economico, mediatico e politico di questi gruppi – che abbiamo definito genericamente «evangelici del sogno americano» – li rende molto più visibili del resto delle Chiese evangeliche, anche di quelle della linea pentecostale classica. Inoltre, la loro crescita è esponenziale e direttamente proporzionale ai benefìci economici, fisici e spirituali che promettono ai loro seguaci: tutte benedizioni molto distanti dagli insegnamenti di una vita di conversione propria dei movimenti evangelici tradizionali.

Sebbene siano sorti e poi abbiano attraversato diverse denominazioni, questi movimenti hanno ricevuto non poche critiche anche dai gruppi di quelle Chiese carismatiche che hanno mantenuto la loro religiosità evangelica basata sui miracoli, sulle profezie e sui segni. Molti settori evangelici sia tradizionali (battisti, metodisti, presbiteriani…) sia più recenti hanno criticato duramente tali movimenti, al punto da chiamare quello che essi proclamano «un vangelo diverso» (a different gospel)[8].

Il benessere economico e la salute

I pilastri del «vangelo della prosperità», come già abbiamo anticipato, sono sostanzialmente due: il benessere economico e la salute. Questa accentuazione è frutto di un’esegesi letteralista di alcuni testi biblici che sono utilizzati all’interno di un’ermeneutica riduzionista. Lo Spirito Santo viene limitato a un potere posto al servizio del benessere individuale. Gesù Cristo ha abbandonato il suo ruolo di Signore per trasformarsi in un debitore di ciascuna delle sue parole. Il Padre è ridotto «a una specie di fattorino cosmico (cosmic bellhop) che si occupa dei bisogni e dei desideri delle sue creature»[9].

Nei predicatori di questo vangelo la «parola di fede» da loro pronunciata viene trasposta nel luogo che tradizionalmente occupava la Bibbia nel movimento evangelico come norma di fede e di condotta, fino a elevarla alla potenza e all’effetto della parola apostolica dell’«unto». Il parlare a nome di Dio in modo diretto, concreto e specifico dà alla «parola positiva» un senso creativo ritenuto capace di far sì che le cose succederanno, se coloro che assistono non le ostacoleranno con la loro mancanza di fede.

Al tempo stesso, essi insegnano che, trattandosi di una «confessione di fede», i seguaci sono responsabili, con le loro parole, di ciò che avviene loro, si tratti della benedizione o della maledizione economica, fisica, generazionale o spirituale. Un ritornello che molti di questi pastori ripetono è: «C’è un miracolo nella tua bocca» (There is a miracle in your mouth). Il processo miracoloso è il seguente: visualizzare dettagliatamente ciò che si vuole, dichiararlo espressamente con la bocca, reclamarlo con fede e autorità da Dio e considerarlo già ricevuto. Infine, il «reclamare» le promesse di Dio estratte dai testi biblici o dalla parola profetica del pastore colloca il credente in una posizione dominante rispetto a un Dio prigioniero della sua stessa parola, così come essa è stata percepita e creduta dal fedele.

Il tema della salute occupa a sua volta un ruolo preponderante nella «teologia della prosperità». In queste dottrine, è la propria mente che deve concentrarsi sulle supposte leggi bibliche, che poi producono la potenza desiderata attraverso la lingua. Si presuppone, per esempio, che un malato, senza ricorrere al medico, possa guarire col solo concentrarsi e pronunciare al tempo presente o passato frasi bibliche o preghiere ispirate alla Scrittura. Una delle frasi usate in maniera strumentale è: «Per le piaghe di Cristo già sono sanato». Sarebbero queste parole, a loro giudizio, a causare immediatamente lo «sblocco» della benedizione divina, che in quello stesso momento opererà la guarigione.

Ovviamente, eventi luttuosi o disastri, anche naturali, o tragedie, come quelle dei migranti o altre simili, non forniscono narrative vincenti funzionali a mantenere i fedeli legati al pensiero del «vangelo della prosperità». Questo è il motivo per cui in questi casi si nota una totale mancanza di empatia e di solidarietà da parte degli aderenti. Non c’è compassione per le persone che non sono prospere, perché chiaramente esse non hanno seguìto le «regole», e quindi vivono nel fallimento e non sono amate, dunque, da Dio.

Un Dio di «patti» e di «semi»

Una delle caratteristiche di questi movimenti è l’enfasi posta sul «patto» sottoscritto da Dio con il suo popolo, i suoi testamenti della Bibbia. E principalmente si è trattato di patti con i suoi patriarchi. Sicché il testo del patto con Abramo ha un posto centrale, nel senso della prosperità assicurata. La logica di questo concetto del «Dio dei patti» è che, siccome i cristiani sono figli spirituali di Abramo, sono anche eredi dei diritti materiali, delle benedizioni finanziarie e delle occupazioni territoriali terrene. Più che di un patto biblico, sembra che si tratti di un «contratto».

Kenneth Copeland ha scritto, nel suo libro Le leggi della prosperità, che, poiché il patto di Dio è stato stabilito e la prosperità è tra i lasciti di tale patto, il credente deve prendere coscienza del fatto che la prosperità adesso gli appartiene di diritto[10].

In queste teologie, l’appartenenza filiale dei cristiani in quanto figli di Dio viene reinterpretata come quella dei «figli del Re»: figliolanza che dà diritti e privilegi monarchici soprattutto materiali a coloro che la riconoscono e la proclamano. Harold Hill, nel suo libro Come essere un vincitore, ha scritto: «I figli del Re hanno diritto a ricevere un trattamento speciale, perché godono di una relazione speciale viva, di prima mano, con il loro Padre celeste, che ha fatto tutte le cose e continua a esserne Signore»[11].

In questa teologia un altro concetto centrale, e intimamente correlato con il precedente, è il principio di «semina» o di «seme». Il testo classico di riferimento è Gal 6,7: «Non fatevi illusioni; Dio non lascia ingannare. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato». Ma anche Mc 10,29-30: «Gesù [a Pietro] rispose: “In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà”».

La prosperità materiale, fisica e spirituale trova uno dei suoi testi preferiti nel v. 2 della Terza lettera di Giovanni: «Carissimo, mi auguro che in tutto tu stia bene e sia in buona salute, come sta bene la tua anima»[12]. Nell’Antico Testamento, il testo di riferimento è Dt 28,1-14.

I brani vengono interpretati in maniera del tutto funzionalistica. Ad esempio, nel libro La volontà di Dio è la prosperità, la predicatrice Gloria Copeland ha scritto, riferendosi a donazioni per ministeri come il suo: «Tu dai un dollaro per amore del vangelo, e già te ne toccano 100; tu dai 10 dollari, e in cambio ne riceverai 1.000 in regalo; tu dai 1.000 dollari, e in cambio ne ricevi 100.000. Se doni un aereo, riceverai cento volte il valore di quell’aereo. Regala un’automobile, e otterrai tante di quelle automobili da non averne più bisogno per tutta la vita. In breve, Marco 10,30 è un buon affare!»[13].

In definitiva, il principio spirituale della semina e del raccolto, alla luce di un’interpretazione evangelica completamente estrapolata dal suo contesto, è che dare è anzitutto un fatto economicistico, che si misura in termini di ritorno dell’investimento. Si dimentica, dunque, quello che si legge subito dopo Gal 6,7, cioè: «Chi semina nella sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna» (v. 8).

Il pragmatismo e la superbia del successo

Il «vangelo» descritto viene facilmente assimilato nelle società attuali, in cui la legittimità del soprannaturale richiede una qualche verifica sperimentale. Il pragmatismo del successo richiede proposte semplici di fede. L’urgenza di una vita prospera e senza sofferenze si adegua a una religiosità a misura del cliente, e il kairos del Dio della storia si adegua al kronos frenetico della vita attuale. In definitiva, qui si parla di un dio concepito a immagine e somiglianza delle persone e delle loro realtà, e non secondo il modello biblico. In alcune società in cui la meritocrazia è stata fatta coincidere con il livello socio-economico senza che si tenga conto delle enormi differenze di opportunità, questo «vangelo», che mette l’accento sulla fede come «merito» per ascendere nella scala sociale, risulta ingiusto e radicalmente anti-evangelico.

In generale, il fatto che vi siano ricchezza o benefìci materiali ricade ancora una volta sull’esclusiva responsabilità del credente, e di conseguenza vi ricade anche la sua povertà o carenza di beni. La vittoria materiale colloca il credente in una posizione di superbia a causa della potenza della sua «fede». Al contrario, la povertà lo carica di una colpa doppiamente insopportabile: da una parte, egli considera che la sua fede non riesce a muovere le mani provvidenti di Dio; e, dall’altra, che la sua situazione miserabile è un’imposizione divina, una punizione inesorabile accettata con sottomissione.

Una teologia del «sogno americano»?

Questa teologia è chiaramente funzionale ai concetti filosofico-politico-economici di un modello di taglio neoliberista. Una delle conclusioni di alcuni esponenti di questa teologia è di natura geopolitica ed economica, legata al Paese di origine della «teologia della prosperità». Essa conduce alla conclusione che gli Stati Uniti sono cresciuti sotto la benedizione del Dio provvidente del movimento evangelico. Invece, gli abitanti del territorio che va dal Rio Grande verso Sud sono sprofondati nella povertà proprio perché la Chiesa cattolica ha una visione differente, opposta, «esaltando» la povertà. È pure possibile verificare il legame tra queste posizioni e le tentazioni integraliste e fondamentaliste dalle connotazioni politiche[14].

In verità, uno dei gravi problemi che porta con sé la «teologia della prosperità» è il suo effetto perverso sulla gente povera. Infatti, essa non solo esaspera l’individualismo e abbatte il senso di solidarietà, ma spinge le persone ad avere un atteggiamento miracolistico, per cui solamente la fede può procurare la prosperità, e non l’impegno sociale e politico. Quindi il rischio è che i poveri che restano affascinati da questo pseudo vangelo rimangano imbrigliati in un vuoto politico-sociale che consente con facilità ad altre forze di plasmare il loro mondo, rendendoli innocui e senza difese. Il «vangelo della prosperità» non è mai fattore di reale cambiamento, che invece è fondamentale nella visione che è propria della dottrina sociale della Chiesa.

Se Max Weber parlava della relazione tra protestantesimo e capitalismo nel contesto dell’austerità evangelica, i teologi della prosperità propagandano l’idea della ricchezza in relazione proporzionale alla fede personale. Priva di senso sociale e inquadrata in un’esperienza di beneficio individuale, questa concezione dà, consciamente o inconsciamente, una rilettura estremista delle teologie calviniste della predestinazione. In qualche modo, la soteriologia si àncora al temporale e al terreno e si svuota della tradizionale visione escatologica. Perciò, anche in ambito protestante, i molti che si attengono alla teologia tradizionale vedono con sfiducia, e più ancora con forti critiche, l’avanzare di queste teologie, alle quali non pochi associano la new age ed espressioni del misticismo magico.

«La salvezza non è una teologia della prosperità»

Sin dall’inizio del suo pontificato Francesco ha avuto presente il «vangelo diverso» della «teologia della prosperità» e, criticandolo, ha applicato la classica dottrina sociale della Chiesa. Più volte lo ha richiamato per porne in evidenza i pericoli. La prima volta è avvenuto in Brasile, il 28 luglio 2013. Rivolgendosi ai vescovi del Consiglio Episcopale Latinoamericano, aveva puntato il dito contro il «funzionalismo» ecclesiale», che realizza «una sorta di “teologia della prosperità” nell’aspetto organizzativo della pastorale». Essa finisce per entusiasmarsi per l’efficacia, il successo, il risultato constatabile e le statistiche favorevoli. La Chiesa così tende ad assumere «modalità imprenditoriali» che sono aberranti e allontanano dal mistero della fede.

Parlando di nuovo a vescovi, questa volta della Corea, nell’agosto 2014, Francesco ha citato Paolo (1 Cor 11,17) e Giacomo (2,1-7), che rimproverano le Chiese che vivono in modo tale che i poveri non si sentano a casa loro. «Questa è una tentazione della prosperità», ha commentato. E ha proseguito: «State attenti, perché la vostra è una Chiesa in prosperità, è una grande Chiesa missionaria, è una grande Chiesa. Il diavolo non semini questa zizzania, questa tentazione di togliere i poveri dalla struttura profetica stessa della Chiesa, e vi faccia diventare una Chiesa benestante per i benestanti, una Chiesa del benessere […], non dico fino ad arrivare alla “teologia della prosperità”, no, ma nella mediocrità».

I riferimenti alla «teologia della prosperità» sono riconoscibili anche nelle omelie di Francesco a Santa Marta. Il 5 febbraio 2015, il Pontefice ha detto con chiarezza che «la salvezza non è una teologia della prosperità», ma «è un dono, lo stesso dono che Gesù aveva ricevuto per darlo». E il potere del Vangelo è quello di «cacciare gli spiriti impuri per liberare, per guarire». Gesù infatti «non dà il potere di manovrare o di fare grandi imprese». Francesco lo ha ripetuto, sempre a Santa Marta, il 19 maggio 2016. Alcuni, ha detto, credono «in quella che è chiamata la “teologia della prosperità”, cioè Dio ti fa vedere che tu sei giusto se ti dà tante ricchezze». Ma «è uno sbaglio». Perciò anche il salmista dice: «Alle ricchezze non attaccare il cuore». Per farsi meglio comprendere, il Papa ha richiamato l’episodio evangelico del «giovane ricco che Gesù amò, perché era giusto»: lui «era buono, ma attaccato alle ricchezze, e queste ricchezze alla fine per lui sono diventate catene che gli hanno tolto la libertà di seguire Gesù».

La visione della fede proposta dalla «teologia della prosperità» è in chiara contraddizione con la concezione di un’umanità segnata dal peccato e con l’aspettativa di una salvezza escatologica, legata a Gesù Cristo come salvatore e non al successo delle proprie opere. Essa incarna dunque una forma peculiare di pelagianesimo dalla quale Francesco ha messo spesso in guardia. Egli ha scritto, infatti, nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate, che ci sono cristiani impegnati nel seguire la strada «della giustificazione mediante le proprie forze, quella dell’adorazione della volontà umana e della propria capacità, che si traduce in un autocompiacimento egocentrico ed elitario privo del vero amore». Essa si manifesta in molti atteggiamenti apparentemente diversi tra loro e, tra questi, «l’attrazione per le dinamiche di auto-aiuto e di realizzazione autoreferenziale» (n. 57).

La «teologia della prosperità» esprime anche l’altra grande eresia del nostro tempo, cioè lo «gnosticismo»: infatti, afferma che con i poteri della mente è possibile plasmare la realtà. Ciò è particolarmente evidente nel lavoro e nella grande influenza di Mary Baker Eddy (1821-1910) nella Chiesa e nel movimento della Christian Science, ad esempio. Come scrive Francesco in Gaudete et exsultate, lo gnosticismo per sua propria natura vuole addomesticare il mistero di Dio e della sua grazia. Esso «usa la religione a proprio vantaggio, al servizio delle proprie elucubrazioni psicologiche e mentali». Invece, «Dio ci supera infinitamente, è sempre una sorpresa e non siamo noi a determinare in quale circostanza storica trovarlo, dal momento che non dipendono da noi il tempo e il luogo e la modalità dell’incontro». Una fede usata per manipolare mentalmente, psichicamente la realtà «pretende di dominare la trascendenza di Dio» (n. 41).

Il «vangelo della prosperità» è molto lontano dall’invito di san Paolo che leggiamo nel brano di 2 Cor 8,9-15: «Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (v. 9). Ed è pure molto lontano dalla profezia positiva e luminosa dell’ American dream che è stata di ispirazione per molti. La «teologia della prosperità» è lontana dunque dal «sogno missionario» dei pionieri americani, e ancor più dal messaggio di predicatori come Martin Luther King e dal contenuto sociale, inclusivo e rivoluzionario del suo memorabile discorso «Io ho un sogno».

*Antonio Spadaro  Sottosegretario del Dicastero Vaticano per la Cultura e l’Educazione. Scrittore emerito de La Civiltà Cattolica.

[1].      Cfr D. W. Jones – R. Woodbridge, Health, Wealth & Happiness: Has the Prosperity Gospel Overshadowed the Gospel of Christ?, Grand Rapids (MI), Kregel, 2010.

[2].      Cho è stato condannato per appropriazione indebita di circa 15 milioni di euro dalle casse della Chiesa, usati per cercare di recuperare le perdite in Borsa della sua famiglia.

[3].      Cfr K. Attanasi – A. Yong, Constructing China’s Jerusalem: Christians, Po­wer, and Place in Contemporary Wenzhou, Stanford, Stanford University Press, 2011. Cfr anche T. Meynard – M. Chambon, «Vie per l’aggiornamento della Chiesa cattolica cinese», in Civ. Catt. 2018 I 271-280; P. Wu, «Reasons Why Prosperity Theology Floods in China», in http://chinachristiandaily.com/news/category/2016-11-03/reasons-why-prosperity-theology-floods-in-china_3103

[4].      K. Ward, «“Mere Poverty Excites Little Compassion”: Adam Smith, Moral Judgment and the Poor», in The Heythrop Journal, marzo 2015, in https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1111/heyj.12260 Cfr Id., «Porters to Heaven Wealth, the Poor, and Moral Agency in Augustine», in Journal of Religious Ethics, aprile 2014, in https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/jore.12054 Qui la Ward afferma anche che le radici di ciò che oggi chiamiamo «vangelo della prosperità» sono antiche e che esso era già noto ai tempi di Agostino, il quale si opponeva a tale visione.

[5].      Cfr «Why Evangelicals love Donald Trump. The secret lies in the prosperity Gospel», in The Economist, 18 maggio 2017; «Experts Discuss Role of “Prosperity Gospel” in Trump’s Success», in The Harvard Crimson, 24 ottobre 2017; P. Feuerherd, «Does the “Prosperity Gospel” Explain Trump?», in Jstor Daily, 1° maggio 2017.

[6].      Nel febbraio 2018, nell’abituale National Prayer Breakfast, Trump, associando il suo Paese ai sogni americani di libertà, eroismo e coraggio, ha definito gli Stati Uniti a light unto all nations («una luce per tutte le nazioni»). «Finché apriremo gli occhi sulla grazia di Dio – e apriremo i nostri cuori all’amore di Dio –, allora l’America sarà per sempre la terra degli uomini liberi, la casa dei coraggiosi e una luce per tutte le nazioni». Questa citazione è ripresa da una profezia biblica sul ruolo restauratore e messianico di Israele, il popolo eletto e la nazione grande e prospera che era stata sognata dai patriarchi: «Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (Is 49,6).

[7].      Ricordiamo pure che la cerimonia d’inaugurazione del mandato presidenziale di Donald Trump includeva preghiere di predicatori del «vangelo della prosperità» quali Paula White, uno dei suoi consiglieri spirituali. Nell’ottobre 2015 la White ha organizzato, nella Trump Tower, un incontro di telepredicatori legati alla «teologia della prosperità», che hanno pregato per l’attuale Presidente, imponendo le mani su di lui. Il video si trova in https://www.youtube.com/watch?v=EQ18exdhR6I

[8].      Cfr D. R. McConnell, A Different Gospel: Biblical and Historical Insights Into the Word of Faith Movement, Peabody (MA), Hendrickson, 1988.

[9].      J. Goff, «The Faith that Claims», in Christianity Today, n. 34, febbraio 1990, 21.

[10].    Cfr K. Copeland, The Laws of Prosperity, Tulsa (OK), Harrison House, 1974.

[11].    H. Hill, How to be a Winner, Alachua (FL), Bridge Logos, 1976.

[12].    Cfr R. Tilton, God’s Miracle Plan for Man, Tulsa (OK), Robert Tilton Ministries, 1987.

[13].    G. Copeland, God’s Will is Prosperity, Tulsa (OK), Harrison House, 1978.

[14].    Cfr A. Spadaro – M. Figueroa, «Fondamentalismo evangelicale e integralismo cattolico. Un sorprendente ecumenismo», in Civ. Catt. 2017 III 105-113.

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LA CIVILTA’ CATTOLICA