martedì 4 marzo 2025

COSA E' LA SCUOLA ?


 Cosa vogliamo dalla scuola, oltre le nostalgie fuori tempo massimo


-         di MONICA GALFRÉ


 Nel dibattito sulle nuove indicazioni nazionali, manca la domanda fondamentale sul ruolo dell’istruzione nella società. E su una modalità di insegnamento improntata sul nozionismo. La logica dell’eccellenza rende tutti miopi, quasi che il valore di una scuola si misurasse su pochi geni e non su una buona preparazione della maggioranza

Nelle ultime settimane si è molto discusso delle indicazioni nazionali messe in cantiere dal ministro dell’Istruzione, soprattutto in merito all’insegnamento della storia, e non a caso, perché è lì che un paese, rileggendo il passato, scrive il suo futuro. Se la posta in gioco è alta, non può tuttavia sfuggire la tossicità di un dibattito che non aiuta a decodificare la realtà della scuola.

Tutti – fautori e critici delle nuove proposte – paiono convinti che la scuola sia in grado di invertire il presunto declino delle giovani generazioni o, viceversa, di condurre alla catastrofe. Un potere che, se mai ha avuto, ora di sicuro non ha più, a riprova di come i termini ideali del discorso prevalgano su quelli reali.

Invece la scuola, prima di tutto, è. Non è la malattia e non è la medicina. È uno spicchio di mondo, dove le riforme devono anche fare i conti con coloro per le quali sono pensate, gli studenti, che sono invece confinati ai margini del dibattito. Riemerge così tutto il verticismo dell’istruzione italiana, che considera gli studenti sacchi vuoti da riempire.

A ben vedere le stesse lamentele sull’autorità e sulla severità perdute – peraltro uguali da sempre – non nascono da un confronto con la realtà, ma tendono a eluderla, idealizzando un passato che, a conti fatti, solo in pochi hanno motivo di rimpiangere. Non sarebbe più corretto parlare di cambiamento invece che di perdita, visto l’incremento della scolarizzazione nel secondo dopoguerra?

In realtà la scuola continua a essere un luogo di potere dove, esclusi fatti isolati, le decisioni degli insegnanti sono ancora insindacabili, dove si insegna e si seleziona, se pur sulla base di gerarchie ritoccate solo nel maquillage. Già da tempo, per esempio, è in atto la tendenza a separare il liceo classico e soprattutto lo scientifico, vera punta di diamante, dai percorsi considerati meno nobili.

Il modo di insegnare

L’allarme risiede però nel modo in cui si insegna, tanto più grave proprio nei licei. Ostaggio delle sue paure, la scuola ha sottoscritto qui un patto suicida con il nozionismo, a parole combattuto da tutti e nei fatti da pochi eroi solitari. Meraviglia che nessuno abbia denunciato come l’insegnamento della storia – qualsiasi sia il suo asse, identitario o scientifico, progressista o conservatore – sia ridotto a una pratica svilente di nomi, date e concetti.

Nelle scuole considerate di serie A la qualità dell’istruzione è difatti misurata a suon di nozioni. Carichi eccessivi di compiti, verifica ossessiva degli apprendimenti, monitoraggio del registro elettronico, asettiche griglie di valutazione, sistemi punitivi e medie matematiche si associano alla richiesta di performance più che di rielaborazioni critiche. Non è un caso la scomparsa o quasi del tema, inteso come luogo di appropriazione del sapere.

Ci si accapiglia sul ritorno del latino, riportando il dibattito indietro di 50 anni, senza accorgersi che la selezione si è spostata sugli insegnamenti scientifici anche a causa di come si insegnano, privilegiando cioè prontezza e rapidità di esecuzione che non tutti hanno e devono avere.

 La logica dell’eccellenza

La logica dell’eccellenza rende tutti miopi, quasi che il valore di una scuola si misurasse su pochi geni e non su una buona preparazione della maggioranza.

Non so se nessuno si è mai chiesto che ricadute possa avere un rapporto con il sapere concepito in termini di imposizione e competizione, paura della punizione e controllo. Di certo c’è che la scuola, erettasi a presidio di civiltà in un mondo ostile, ha ripiegato su una didattica difensiva. Difensiva perché educare significa tirare fuori il meglio da ognuno, non reprimere le differenze in base a modelli prestazionali, spesso senza senso. Difensiva perché non riconosce chi ha di fronte, che gli appare in crisi perché sfugge alle categorie del passato.

La cosa è tanto più incredibile se si pensa cosa ha significato la rivoluzione digitale in quanto rivoluzione mentale. Non perché abbia reso superflua ogni mediazione, che anzi è più che mai necessaria, ma perché ha cambiato il modo di ragionare e lo stesso principio di autorità, ha alterato i concetti di spazio e di tempo, ha scolorito i confini mentali e fisici.

Se di declino vogliamo parlare, bisognerebbe stare attenti a non proiettare sulle giovani paure e delusioni che sono principalmente di chi vede sparire il mondo in cui si è formato. In ogni caso l’autorità e il prestigio della scuola non si rianimano con una vuota liturgia, ma con la ricerca di una nuova autenticità, di cui i giovani hanno bisogno come l’aria.

Umanizzare la scuola

Oggi occorre più di qualsiasi altra cosa il coraggio di essere laici, cioè di umanizzare la scuola, che umana non è affatto. In un’età in cui si affacciano i grandi temi della vita, gli studenti hanno bisogno di leggere se stessi nelle pagine di quel grande libro di cui la scuola dispone: uno strumento in realtà potentissimo, dove è riconoscibile il passaggio dell’umanità, nel suo insieme di conquiste, sconfitte, sogni, gioie, dolori.

Quindi, prima di tutto, chiediamoci cosa si vuole dalla scuola. Crediamo che debba inzeppare la testa di dati? O offrire degli strumenti per affrontare in autonomia le sfide successive?

 Domani

Immagine


 



Nessun commento:

Posta un commento