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di MONICA GALFRÉ
Nelle
ultime settimane si è molto discusso delle indicazioni nazionali messe in
cantiere dal ministro dell’Istruzione, soprattutto in merito all’insegnamento
della storia, e non a caso, perché è lì che un paese, rileggendo il passato,
scrive il suo futuro. Se la posta in gioco è alta, non può tuttavia sfuggire la
tossicità di un dibattito che non aiuta a decodificare la realtà della scuola.
Tutti
– fautori e critici delle nuove proposte – paiono convinti che la scuola sia in
grado di invertire il presunto declino delle giovani generazioni o, viceversa,
di condurre alla catastrofe. Un potere che, se mai ha avuto, ora di sicuro non
ha più, a riprova di come i termini ideali del discorso prevalgano su quelli
reali.
Invece
la scuola, prima di tutto, è. Non è la malattia e non è la
medicina. È uno spicchio di mondo, dove le riforme devono anche fare i conti
con coloro per le quali sono pensate, gli studenti, che sono invece confinati
ai margini del dibattito. Riemerge così tutto il verticismo dell’istruzione
italiana, che considera gli studenti sacchi vuoti da riempire.
A
ben vedere le stesse lamentele sull’autorità e sulla severità perdute –
peraltro uguali da sempre – non nascono da un confronto con la realtà, ma
tendono a eluderla, idealizzando un passato che, a conti fatti, solo in pochi
hanno motivo di rimpiangere. Non sarebbe più corretto parlare di cambiamento
invece che di perdita, visto l’incremento della scolarizzazione nel secondo
dopoguerra?
In
realtà la scuola continua a essere un luogo di potere dove, esclusi fatti
isolati, le decisioni degli insegnanti sono ancora insindacabili, dove si
insegna e si seleziona, se pur sulla base di gerarchie ritoccate solo nel
maquillage. Già da tempo, per esempio, è in atto la tendenza a separare il
liceo classico e soprattutto lo scientifico, vera punta di diamante, dai
percorsi considerati meno nobili.
Il
modo di insegnare
L’allarme
risiede però nel modo in cui si insegna, tanto più grave proprio nei licei.
Ostaggio delle sue paure, la scuola ha sottoscritto qui un patto suicida con il
nozionismo, a parole combattuto da tutti e nei fatti da pochi eroi solitari.
Meraviglia che nessuno abbia denunciato come l’insegnamento della storia –
qualsiasi sia il suo asse, identitario o scientifico, progressista o
conservatore – sia ridotto a una pratica svilente di nomi, date e concetti.
Nelle
scuole considerate di serie A la qualità dell’istruzione è difatti misurata a
suon di nozioni. Carichi eccessivi di compiti, verifica ossessiva degli
apprendimenti, monitoraggio del registro elettronico, asettiche griglie di
valutazione, sistemi punitivi e medie matematiche si associano alla richiesta
di performance più che di rielaborazioni critiche. Non è un caso la scomparsa o
quasi del tema, inteso come luogo di appropriazione del sapere.
Ci
si accapiglia sul ritorno del latino, riportando il dibattito indietro di 50
anni, senza accorgersi che la selezione si è spostata sugli insegnamenti
scientifici anche a causa di come si insegnano, privilegiando cioè prontezza e
rapidità di esecuzione che non tutti hanno e devono avere.
La
logica dell’eccellenza rende tutti miopi, quasi che il valore di una scuola si
misurasse su pochi geni e non su una buona preparazione della maggioranza.
Non
so se nessuno si è mai chiesto che ricadute possa avere un rapporto con il
sapere concepito in termini di imposizione e competizione, paura della
punizione e controllo. Di certo c’è che la scuola, erettasi a presidio di
civiltà in un mondo ostile, ha ripiegato su una didattica difensiva. Difensiva
perché educare significa tirare fuori il meglio da ognuno, non reprimere le
differenze in base a modelli prestazionali, spesso senza senso. Difensiva
perché non riconosce chi ha di fronte, che gli appare in crisi perché sfugge
alle categorie del passato.
La
cosa è tanto più incredibile se si pensa cosa ha significato la rivoluzione
digitale in quanto rivoluzione mentale. Non perché abbia reso superflua ogni mediazione,
che anzi è più che mai necessaria, ma perché ha cambiato il modo di ragionare e
lo stesso principio di autorità, ha alterato i concetti di spazio e di tempo,
ha scolorito i confini mentali e fisici.
Se
di declino vogliamo parlare, bisognerebbe stare attenti a non proiettare sulle
giovani paure e delusioni che sono principalmente di chi vede sparire il mondo
in cui si è formato. In ogni caso l’autorità e il prestigio della scuola non si
rianimano con una vuota liturgia, ma con la ricerca di una nuova autenticità,
di cui i giovani hanno bisogno come l’aria.
Umanizzare la scuola
Oggi
occorre più di qualsiasi altra cosa il coraggio di essere laici, cioè di
umanizzare la scuola, che umana non è affatto. In un’età in cui si affacciano i
grandi temi della vita, gli studenti hanno bisogno di leggere se stessi nelle
pagine di quel grande libro di cui la scuola dispone: uno strumento in realtà
potentissimo, dove è riconoscibile il passaggio dell’umanità, nel suo insieme
di conquiste, sconfitte, sogni, gioie, dolori.
Quindi,
prima di tutto, chiediamoci cosa si vuole dalla scuola. Crediamo che debba
inzeppare la testa di dati? O offrire degli strumenti per affrontare in
autonomia le sfide successive?
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