Quando una cultura invecchia e comincia a perdere i suoi obiettivi, sorge un conflitto tra coloro che vorrebbero eliminarla per stabilire dei nuovi modelli culturali e coloro che vorrebbero invece mantenere il vecchio modello con il minor numero possibile di cambiamenti».
- di Alessandro D’Avenia
Nel
1953 il mondo era appena uscito dalla guerra e diviso in due sfere di influenza
e deterrenza, americana e sovietica, e Philip Dick (per il provocatorio
Carrère, che gli ha dedicato una bellissima biografia, il più grande scrittore
del '900) pubblicava «I difensori», un racconto in cui l'umanità, impegnata in
una guerra tutt'altro che fredda tra Russi e Americani, vive e lavora
sottoterra per alimentare lo scontro affidato ai robot in superficie, dove c'è
solo un ammasso di macerie tossiche sotto un cielo incolore. I
difensori del titolo sono i «Plumbei», robot intelligenti (le nostre
intelligenze artificiali) coperti di piombo anti-radiazioni: combattono e
aggiornano gli umani sullo stato della guerra in cui i Russi stanno prevalendo
grazie alle mine intelligenti (i nostri droni). Un gruppo di tecnici e soldati
americani deve risalire in superficie per risolvere un'anomalia: non è mai
accaduto dall'inizio dello scontro a causa della radioattività sostenibile
dagli umani solo per pochi minuti. Una volta arrivati su, il gruppo ha però una
sorpresa: il mondo là fuori è splendido e nuovo, non c'è la guerra, notizie e
immagini che giungevano sottoterra erano create ad arte dai robot con dei
modellini.
Perché
i difensori hanno agito così? Ci serve saperlo nello scenario odierno.
I
robot rispondono come farebbe un'intelligenza artificiale progettata
esclusivamente per il bene dell'uomo: «Non appena abbandonaste la superficie,
la guerra cessò. Avete ragione, siete stati ingannati. Avete lavorato duro nel
sottosuolo, mandando su cannoni ed armi, e noi li distruggevamo non appena
arrivavano. Ci avete creati per continuare al vostro posto la guerra mentre voi
umani vi rifugiavate nel sottosuolo per sopravvivere.
Ma
prima che noi potessimo continuare la guerra, era necessario analizzarla per
determinare quali ne fossero gli scopi. Scoprimmo che le culture passano
attraverso delle fasi. Quando una cultura invecchia e comincia a perdere i suoi
obiettivi, sorge un conflitto tra coloro che vorrebbero eliminarla per
stabilire dei nuovi modelli culturali e coloro che vorrebbero invece mantenere
il vecchio modello con il minor numero possibile di cambiamenti».
È
ciò che accade anche oggi in Occidente, nello scontro tra globalizzazione e
multipolarismo, tra élite e popolo, tra progressisti e conservatori.
Ma
seguiamo l'analisi antropologica del robot: «Il conflitto interno minaccia di
coinvolgere la società in una guerra contro sé stessa, gruppo contro gruppo. Le
tradizioni vitali possono andare perdute, non solo alterate e riformate, ma
distrutte completamente in questo periodo di caos e di anarchia. È necessario
perciò che l'odio all'interno di una civiltà venga incanalato verso l'esterno,
un gruppo esterno, in maniera che la cultura stessa possa sopravvivere alla sua
crisi. La guerra ne è il logico risultato».
Insomma
per non distruggersi, ricompattarsi e salvare le strutture che l'hanno
costituita come tale (oltre all'economia che ne è conseguenza operativa nella
storia umana sono la combinazione di educazione, religione e forme di
appartenenza a un gruppo), una cultura divisa preferisce cercare un nemico al
di fuori invece di soluzioni nuove alla crisi interna.
Vale
per popoli, città, famiglie, coppie, singoli: per paura e pigrizia non
affrontiamo le ombre ma le proiettiamo fuori, odiando negli altri ciò che non
va in noi, convinti che, distrutto il nemico, risolveremo la crisi che invece
sarà ancora lì, peggiore di prima, dopo che il fumo della battaglia si sarà
diradato.
La
logica di ferro, anzi di piombo, del robot prospetta la soluzione: «La guerra,
per una mente razionale, è assurda. Ma, in termini di bisogni umani, svolge una
funzione d'importanza vitale ed insostituibile. E continuerà a svolgerla finché
l'Uomo non sia cresciuto al punto da eliminare totalmente l'odio dentro di
lui». I robot confidano in un'evoluzione umana lineare: «In questi otto anni
abbiamo osservato importanti mutamenti nella mente degli uomini: la fatica ed
il disinteresse stanno gradatamente prendendo il posto dell'odio e della paura.
Ma l'inganno deve continuare, almeno per un altro po'. Non siete ancora pronti
per la verità».
Robot,
creati per proteggere gli uomini, hanno quindi fatto (con un po' di Imagine) la
scelta più logica: interrompere la guerra e preparare la Terra per una umanità
nuova.
Per
tutta risposta gli Americani vogliono approfittare della scoperta per
impadronirsi della Terra prima degli ignari Russi, e così si affrettano a
tornare sottoterra, ma i robot hanno distrutto il tunnel di collegamento. Sono
quindi costretti a rimanere in superficie dove incontrano proprio un gruppo
russo venuto su qualche mese prima. Si preparano allo scontro, ma i robot li
fanno ragionare: i Russi sono disarmati e le armi non servono più, per
sopravvivere devono non solo smettere di combattersi, ma unirsi e aiutarsi, per
procurarsi da vivere: «la necessità di risolvere i problemi quotidiani
dell'esistenza vi insegnerà come tirare avanti nello stesso mondo. Non sarà
facile, ma ce la farete».
Solo
obiettivi di bene comune possono distogliere culture internamente in crisi
dalla soluzione bellica, ma i robot ignorano che l'uomo non smetterà mai di
proiettare le proprie ombre su un nemico esterno, perché Caino è sempre in noi
e cerca sempre un Abele a cui attribuire il proprio male.
Lo
storico Emmanuel Todd in «La sconfitta dell'Occidente», proseguendo il suo
«Breve storia dell'umanità» e svincolandosi dalla lettura, dominante e
riduttiva, della storia in chiave prettamente economica, dimostra che la crisi
riguarda le strutture che hanno unito alcuni popoli in quello che chiamiamo
Occidente. Oggi infatti, esaurito il collante della sofferenza postbellica, la
globalizzazione economica mette in concorrenza le culture che finiscono col
ripiegarsi su se stesse. Emergono così gli egoismi nazionali, incarnati da
oligarchie di potere che generano la loro controparte: i populismi; la
diplomazia è resa inutile dalla logica dei rapporti di forza economici,
militari e tecnologici. L'alternativa è creare l'unità su basi più profonde, di
impegno comune sulle emergenze: povertà, fame, istruzione, sanità,
inquinamento. Come ha detto papa Francesco: «La fame nel mondo finirebbe, se
non si fabbricassero armi per un anno», ma questa scandalosa evidenza è
considerata alla stregua della fantascienza di Dick: fantasie. Infatti dopo le
attuali mosse americane, gli attuali leader dell'UE - invece di riscoprire lo
specifico europeo che non è la potenza militare ma una diplomazia che provi a
ricostruire un'unità culturale dagli Urali all'Atlantico, come auspicavano e
provarono a fare alcuni leader europei alla fine della guerra mondiale e dopo
la caduta del comunismo - hanno proposto il riarmo e l'ombrello nucleare di
marca francese, togliendo i vincoli di bilancio al debito che peserà
ulteriormente sulle future generazioni. Ma all'Europa non basterà un esercito
comune per unirsi, così come non è bastata una moneta comune.
Che
cosa hanno veramente in «comune» un irlandese, un italiano, un francese, un
ungherese, un rumeno... che li spingerebbe a difendere anche con il proprio
corpo l’Europa come gruppo vitale di appartenenza? La mancanza di una risposta
è la nostra crisi interna.
Di
certo, se la NATO finirà, bisognerà rendersi finalmente indipendenti anche sul
piano difensivo, ma questo scenario, per quel che capisco, è tutt'altro che
certo. L'antropologo Jared Diamond ha dimostrato, prima in «Collasso. Come le
società scelgono di morire o vivere» e poi in «Crisi. Come rinascono le
nazioni», che le civiltà, invece di affrontare le crisi interne, che spesso
neanche vedono, prese dalla smania di salvarsi fanno scelte irrazionali con cui
invece si danno il colpo di grazia: «Tutti si trovano ad affrontare crisi e spinte
al cambiamento: dai singoli individui ai gruppi, alle aziende, alle nazioni, al
mondo intero. Per affrontarle positivamente è necessario un processo di
cambiamento selettivo: non essendo possibile né auspicabile che individui e
nazioni cambino completamente, abbandonando ogni aspetto della loro identità
passata, la sfida diventa, tanto per le nazioni quanto per le persone in crisi,
capire quali parti della loro individualità stiano funzionando bene e non
vadano modificate, e quali necessitino di cambiamento. L’obiettivo è
individuare nuove soluzioni in armonia con le capacità e caratteristiche di
ciascuno».
È
l'occasione di una nuova unità, ma non vedo nelle leadership attuali la
capacità di un cambiamento selettivo, ma la coazione a ripetere soluzioni già
bollate dalla storia come fatali, soluzioni che, per essere sostenute,
costringeranno i nostri figli a lavorare sottoterra se non a combattere sul
campo.
Lo
avevano capito i robot del '53. Noi?
Corriere della Sera
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