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sabato 3 dicembre 2022

UNA SOCIETA' "SENZA"

 Negli ultimi cinque anni gli alunni sono calati di oltre 400mila unità. 

Dispersione record al 12,7%, mentre chi non studia e non lavora è a quota 23,1%: primato europeo

Un'aula vuota: così sarà la scuola italiana a causa dell'inverno demografico

 Nell’Italia impaurita e malinconica fotografata dal Rapporto del Censis, la scuola è tra le agenzie che più stanno soffrendo soprattutto a causa degli alti tassi di abbandono e dell’inverno demografico che svuota le aule. Soltanto negli ultimi cinque anni, gli alunni sono calati di oltre 400mila unità (403.356 per l’esattezza), passando da 8,6 a 8,2 milioni. Per il momento, la dinamica demografica negativa si riflette soprattutto sulle scuole dell’infanzia (-11,5% di iscritti nel quinquennio) e sulla primaria (-8,3%). Immatricolazioni in calo anche nelle università: nell’anno accademico 2021-2022 si è assistito a una contrazione delle iscrizioni del 2,8% rispetto all’anno precedente. In termini assoluti si tratta di 9.400 studenti in meno circa.

 «Aule desertificate dallo tsunami demografico»

«In base alle previsioni demografiche – si legge nel Rapporto del Censis – si prefigurano aule scolastiche desertificate e un bacino universitario depauperato». Nel medio-lungo termine, le previsioni sono tutt’altro che favorevoli. Già tra una decina d’anni, infatti, la popolazione tra i 3 e i 18 anni scenderà dagli attuali 8,5 milioni a 7,1 milioni e tra vent’anni, nel 2042, potrebbe ridursi a 6,8 milioni, con una perdita secca di 1,7 milioni di individui rispetto ad oggi. Un vero e proprio «tsunami demografico» per i ricercatori sociali del Censis, secondo cui nel 2032 la popolazione tra i 6 e i 13 anni (primaria e secondaria di primo grado), calerà di quasi 900mila persone. Nel decennio successivo, l’inverno demografico aggredirà pesantemente anche la scuola secondaria di secondo grado, con un taglio secco di 726mila ragazzi tra i 14 e i 18 anni al 2042. Ancora più pesante sarà, tra vent’anni, il bilancio demografico per la fascia d’età compresa tra i 19 e i 24 anni: -760mila persone rispetto ad oggi. «A parità di propensione agli studi universitari – avverte il Censis – si conterebbero 390mila iscritti e 78mila immatricolati in meno rispetto ad oggi».

 Valditara: «I plessi non caleranno»

Nonostante il calo delle nascite, il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, rassicura le famiglie: a fronte di un taglio di 700 scuole in quanto “istituti giuridici”, i plessi rimarranno invariati. «Sono 40.466 e rimarranno 40.466 – ha sottolineato Valditara –. Gli studenti continueranno ad andare negli stessi luoghi fisici con gli stessi laboratori, le stesse aule, le stesse strutture».

 La dispersione avanza...

La scuola italiana, però, non è alle prese soltanto con il calo delle iscrizioni provocato dalle nascite sempre più scarse, ma anche con un ancor elevato tasso di dispersione. I giovani 18-24enni usciti precocemente dal sistema di istruzione e formazione, si legge nel Rapporto, sono il 12,7% a livello nazionale e il 16,6% nelle regioni del Sud, contro una media europea di dispersione scolastica che si ferma al 9,7%. E ancora. Mediamente nei Paesi dell’Unione europea la quota di 25-34enni con il diploma è pari all’85,2%, in Italia al 76,8% e scende al 71,2% nel Mezzogiorno. È inferiore alla media europea anche la percentuale di 30-34enni laureati o in possesso di un titolo di studio terziario: il 26,8% in Italia e il 20,7% al Sud, contro una media Ue del 41,6%.

 ... e anche i Neet

«Il nostro Paese – ricorda il Censis – detiene anche il primato europeo per il numero di Neet, i giovani che non studiano e non lavorano: il 23,1% dei 15-29enni a fronte di una media Ue del 13,1%. Ma nelle regioni del Mezzogiorno l’incidenza sale al 32,2%».

Non va meglio nemmeno sul versante dell’integrazione degli alunni di nazionalità non italiana, che nell’anno scolastico 2021-2022 erano 872.360 (+0,8% rispetto all’anno precedente). Secondo un’indagine effettuata su più di 1.400 dirigenti scolastici, nelle scuole a elevata presenza di stranieri (oltre il 15%) solo il 19,5% dei presidi ritiene il livello di integrazione del tutto soddisfacente e solo per il 35,5% negli ultimi tre anni non si è verificata alcuna criticità.

 Manca la «coesione sociale»

Questi fenomeni sono strettamente legati alla scarsa «coesione sociale» osservata nei territori. Quella italiana è una società «senza», come l’hanno ribattezzata i ricercatori del Censis. In questo caso, una società senza coesione sociale con una scuola e un’università senza studenti. Al fondamento di questo andamento negativo c’è la «mappa delle nuove fragilità sociali» che, al primo posto, vedono le famiglie che vivono in condizione di povertà assoluta: sono più di 1,9 milioni (il 7,5% del totale), cioè 5,6 milioni di persone (il 9,4% della popolazione: 1 milione di persone in più rispetto al 2019). Di queste, il 44,1% risiede nel Mezzogiorno. Si tratta, spiega il Censis, di individui impossibilitati ad acquistare un paniere di bene e servizi giudicati essenziali per uno standard di vita accettabile. Tra questi rientra, senz’altro, anche garantire un percorso scolastico lineare ai figli.

www.avvenire.it



mercoledì 15 luglio 2020

RIMBOCCARSI LE MANICHE PER RIALZARE LA TESTA


L'attuale situazione sociale 
richiede

 scelte coraggiose e responsabili


di GIAN CARLO BLANGIARDO*

Ancora una volta si deve ammettere che le prime anticipazioni sul bilancio demografico del 2019, pur disegnando uno scenario che vedeva un ulteriore nuovo record al ribasso sul fronte della natalità, avevano peccato di ottimismo. Si pensava di poter chiudere il conto del 2019 con 435mila nati, ed invece, alla fine, ci siamo fermati poco oltre 420 mila. E stiamo ancora parlando di dati che si riferiscono a 'prima' della comparsa del Covid- 19, da cui dobbiamo aspettarci effetti verosimilmente al ribasso sulle scelte riproduttive di una popolazione destinata a vivere una stagione densa di paure e incertezze su diversi fronti.
Pochi giorni fa, in occasione della presentazione del Rapporto Annuale 2020 dell’Istat, avevamo sottolineato lo stridente contrasto tra il dato di fecondità del nostro tempo, circa 1,3 figli per donna, e il persistente desiderio di maternità/paternità che permea la popolazione italiana. I due figli mediamente desiderati dalle coppie si scontrano con quanto esse poi riescono concretamente a realizzare. Siamo in presenza di progetti incompleti che i dati statistici impietosamente sottolineano, rimandando alla ennesima consueta diagnosi sulle cause che stanno alla base di quei comportamenti destinati spesso a trasformare in rinuncia definitiva, ciò che inizialmente era solo un rinvio del progetto. Una scelta attendista dettata dalle numerose difficoltà che le famiglie vivono sul piano delle risorse, economiche e di tempo, nonché dell’organizzazione della vita – lavorativa, familiare e sociale – degli individui che ne fanno parte.
Se il tempo delle diagnosi è finito, la terapia fatica comunque ad avviarsi. Un Paese non può continuare a credere di avere un futuro se conta – come ci dicono i dati di oggi – su un flusso di tre morti ogni due nati.
La parola d’ordine dell’Italia post- Covid è 'rialziamo la testa', ma avremo, con questi numeri del bilancio demografico, la vitalità per farlo? 
Sono 42 anni che non riusciamo a raggiungere un livello di fecondità capace di garantire il semplice ricambio generazionale e anche l’illusione del contributo migratorio si è via via spenta con la progressiva contrazione del numero di nati stranieri – ancora il 3,8% in meno – a fronte di una popolazione più numerosa (+0,9%). Per altro, i dati del 2019 ci consegnano uno stato di crisi demografica che facilmente nel prossimo bilancio del corrente anno si manifesterà con ulteriori elementi di aggravio. Nel 2019 il saldo naturale, nati meno morti, è stato negativo per 214 mila unità – altro record nella storia del Paese – ma come sarà quello del 2020? Non soltanto per il noto aumento dei decessi, ma anche sul fronte dell’ulteriore prevedibile minor numero di nascite. Visto che paura e incertezza, uniti a disagio economico e occupazionale, possono diventare determinanti nell’accentuare gli ostacoli tradizionali alla fecondità, come il costo dei figli, le difficoltà di conciliazione tra vita e lavoro, la mancanza di supporti alla cura. Per 'rialzare la testa' occorre dunque anche 'rimboccarsi le maniche', a tutti i livelli, dimostrando impegno, coraggio e senso di responsabilità.
 Negli scorsi mesi abbiamo dimostrato di saper sacrificare gli interessi economici alla difesa della salute e della vita, ed è stato un segnale importante per riconoscerci in una scala di valori. E c’è da credere che se la pandemia ci ha dato l’occasione per condividere le priorità, i dati di questo bilancio del 2019 – anche nella prospettiva del 2020 – ce ne consegnano una, quella demografica, da cui non dobbiamo, né possiamo più, prescindere.

*Presidente Istat