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venerdì 10 marzo 2023

IL DITO E LA LUNA

 - LA LOTTA AGLI SCAFISTI -

- di Giuseppe Savagnone* 

  

La colpa è tutta degli scafisti?

Davanti all’incessante acuirsi del fenomeno degli sbarchi, la destra al governo, che aveva aspramente criticato quello precedente per la sua incapacità di fermarli, si sta trovando in un’evidente difficoltà. Sta emergendo con chiarezza che il problema non era l’inettitudine (o addirittura della colpevole complicità) della Lamorgese, come Matteo Salvini aveva continuato a ripetere.

E non dipendeva neppure dalle navi delle ONG – così spesso tirate in ballo come causa fondamentale delle partenze verso l’Italia (ma che in realtà operavano poco più dell’11% dei salvataggi) – , tanto è vero che la crisi più grave verificatasi sul fronte migratorio, quella del naufragio di Cutro, è esplosa proprio dopo che il nuovo “decreto sicurezza” ne aveva in buona parte neutralizzato l’attività.

È in questo contesto che le accuse si sono ormai polarizzate sul ruolo degli scafisti, sui quali sono state scaricate dal ministro Piantedosi e dalla stessa Meloni anche le colpe dell’ultima tragedia che ha così profondamente scosso l’opinione pubblica del nostro paese. Sono questi «trafficanti di carne umana» – si continua a ripetere – , non il governo, ad avere sulla coscienza le settanta vittime annegate nelle acque della Calabria. Sarebbe dunque ora di finirla con «squallide polemiche» (come le ha definite Salvini), per lasciar lavorare in pace il governo che, come dimostra il Consiglio dei ministri svoltosi proprio a Cutro, sta già efficacemente fronteggiando il problema con opportuni inasprimenti delle pene nei confronti degli scafisti.

Una versione tranquillizzante, che probabilmente convincerà buona parte degli italiani, ma che presenta qualche falla su cui è il caso di soffermarci.

Il naufragio di Cutro

La prima falla è relativa alla dinamica dei fatti nel naufragio di Cutro. Quali che siano le colpe degli “scafisti”, esse non spiegano il comportamento dei soccorsi italiani. La maggior parte degli osservatori concordano sul fatto che la vera domanda è perché mai incontro al barcone siano stati inviati due mezzi della Guardia di Finanza, del tutto inadeguati ad affrontare il mare grosso, nella logica di una operazione di difesa delle frontiere, e non delle motovedette della Guardia costiera, giudicate “inaffondabili”, nella prospettiva di una operazione SAR di salvataggio.

La risposta del ministro e di tutto il governo, secondo cui la responsabilità è di Frontex, che non avrebbe segnalato lo stato di pericolo, è chiaramente insostenibile, perché le pessime condizioni del mare – confermate dal fatto che i mezzi della Guardia di Finanza avevano dovuto rientrare in porto – erano evidenti. E allora?

In ogni caso, sostenere che la colpa è degli scafisti, che peraltro hanno rischiato la vita come gli altri in questo naufragio, è solo un modo per cercare di distrarre l’attenzione della gente da quell’interrogativo, finora senza risposta, eludendo il vero problema, che proprio questa ostinata strategia diversiva fa sospettare sia politico.

 Capire meglio chi sono gli “scafisti”

La seconda falla della versione che si limita a criminalizzare gli scafisti è la genericità della categoria “scafisti”. Spesso sono stati individuati come tali coloro che di fatto si trovano al timone delle barche e dei gommoni che portano i migranti sulle nostre coste. La lotta contro questi soggetti è già in corso da diversi anni – dal 2013 ben 2.500 persone sono state arrestate su questa base – , ma con esiti praticamente nulli.

Nella migliore delle ipotesi, infatti, si colpiscono solo dei “pesci piccoli”, semplici esecutori di ordini impartiti dai veri responsabili, che non si avventurano certo per mare guidando personalmente i viaggi che hanno organizzato.

Di più: c’è il grave rischio di punire col carcere persone che sono anche loro delle vittime, costrette dai  “capi” a pilotare il gommone o la barca come condizione per lasciarli partire. Quando addirittura non si tratta di semplici passeggeri che hanno preso in mano la guida del mezzo solo occasionalmente, nel tentativo di non farlo naufragare. E a volte si tratta di ragazzi minorenni, come nel caso di uno di quelli arrestati all’indomani del naufragio di Cutro.

Alla base del “traffico di esseri umani” non sono certo queste persone, le uniche che la nostra giustizia riesce a raggiungere, bensì le organizzazioni criminali che operano nelle basi partenza, in Libia o in Turchia. E a questi – spesso fortemente collusi con le autorità locali – la «stretta sugli scafisti» decisa dal governo non fa neppure il solletico.  Saranno altri disgraziati a pagare con pene più dure, come hanno pagato colpe non loro (o comunque solo marginalmente loro) quelli che li hanno preceduti, con lo stesso risultato ottenuto finora.

Gli scafisti ci sono perché ci sono i migranti

Ma è la terza falla del teorema che indica nella “lotta agli scafisti” la soluzione del problema delle migrazioni a risultare la più grave. Basta riflettere un poco per rendersi conto che non sono gli scafisti a creare le migrazioni dei clandestini, ma le migrazioni dei clandestini a creare gli scafisti.

Questi ultimi non fanno altro che approfittare cinicamente della disperazione di uomini e donne che non hanno altro mezzo per fuggire da situazioni drammatiche se non affidarsi a dei delinquenti, che però promettono loro di farli arrivare – sia pure a rischio della vita – in un posto come l’Italia, dove staranno sicuramente meglio che in patria.

Checché ne pensi il ministro Piantedosi, nessun senso di responsabilità personale può dissuadere dalla fuga da paesi come l’Afghanistan o la Siria o la Libia, dove, al di là dell’aspetto strettamente economico, i diritti sono sistematicamente calpestati e non c’è futuro. «Riscattare» questi paesi dall’interno è molto al di là delle possibilità dei loro abitanti.

Ma, in tempi brevi, appare impossibile anche un serio aiuto dall’esterno. Lo slogan, così spesso ripetuto, «aiutiamoli a casa loro», è solo un alibi vuoto di contenuto quando si tratta di regimi politici fanatici o in crisi profonda. Perciò non si può stigmatizzare chi cerca in tutti i modi di andare via per salvare se stesso e dare una speranza ai propri figli.

L’alternativa agli scafisti è quella che i nostri governi stanno perseguendo da anni – già a partire da quello Gentiloni – , facendo degli accordi che blocchino i migranti con la forza prima della loro partenza. È la linea della Meloni, che ha appena rinnovato un accordo del genere col governo libico fornendo cinque motovedette alla sua Guardia costiera a questo scopo.

Il risultato è stata la nascita di centri di detenzione che sono dei veri e propri campi di concentramento e che tutti gli organismi internazionali (ONU, Consiglio d’Europa) denunziano per la loro invivibilità.

A parte il fatto che il sistema non funziona, perché le organizzazioni criminali in realtà hanno sempre continuato a gestire le partenze (sembra con la complicità della stesa Guardia costiera libica), ma davvero sarebbe auspicabile, da parte di chi si appella all’etica per condannare i disumani “viaggi della morte”, neutralizzare gli scafisti costringendo uomini, donne, bambini in queste condizioni altrettanto disumane? 

Ci sarebbe un modo – uno solo –  di eliminare il problema. Basterebbe rendere legale l’arrivo in Italia e in Europa. Perché mai persone, come i poveri naufraghi di Cutro, disposte a pagare 8.000 euro per viaggiare stipate nella stiva di un barcone fatiscente, rischiando la vita, non hanno scelto la via molto più economica, agevole e sicura di un normale viaggio in aereo? Per il semplice motivo che la nostra legislazione impedisce loro di trasferirsi nel nostro paese legalmente.

Da qui la necessità di arrivarci clandestinamente con l’aiuto di organizzazioni criminali. Diventando addirittura, a propria volta, dei criminali, dopo che il governo Berlusconi nel 2009 ha introdotto il reato di ingresso e soggiorno illegale.

Insomma, gli scafisti sono dei mostri, ma a creare questi mostri siamo noi.

Uno scontro tra ricchi e poveri

Il nostro governo continua ad insistere che questa situazione potrà risolversi solo con la collaborazione dell’UE.  Non certo per “bonificare” l’Afghanistan o la Siria o la Libia, aiutando la gente a vivere meglio. Questo supera di gran lunga le possibilità dei governi europei, che non ci provano neppure. La collaborazione internazionale dovrebbe servire, piuttosto, a rafforzare la «difesa delle frontiere» che la destra si propone da sempre. E in questo effettivamente l’Europa, ultimamente, sembra intenzionata a dare una mano all’Italia, anzi a sposarne la linea.

In una lettera inviata alla fine di gennaio a tutti i capi di Stato e di governo dell’UE, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, è sembrata intenzionata ad imprimere una svolta in questo senso, virando verso la strada dell’intransigenza. La numero uno dell’Esecutivo europeo apre sostanzialmente alla possibilità di utilizzare i fondi del bilancio dell’Unione per costruire barriere e muri anti-migranti. Un cambiamento di rotta, visto che poco più di un anno fa la stessa Bruxelles aveva escluso questa possibilità.

 Già adesso in Ungheria esiste un muro di filo spinato alto quattro metri, voluto da Viktor Orban nel 2015, che si estende per 175 chilometri al confine con la Serbia. L’esempio è stato presto seguito anche da Slovenia, Austria e Macedonia. Successivamente anche la Bulgaria ha predisposto quasi 176 chilometri di recinzione di filo spinato lungo il confine con la Turchia.

La von der Leyen propone anche di potenziare il sostegno a Tunisia, Egitto e Libia, fornendo a questi Stati più motovedette per monitorare le acque territoriali e riportare a terra i profughi intercettati.

L’alternativa alle organizzazioni che controllano i flussi migratori, insomma, sono sul fronte marittimo i campi di concentramento, sulla terraferma i muri.

Il mantra della “stretta sugli scafisti” serve a nascondere questo movimento di chiusura delle società del benessere nei confronti di quelle della miseria e della disperazione. La previsione di Samuel Huntington, nel 1996, secondo cui il futuro sarebbe stato caratterizzato da uno «scontro delle civiltà», che avrebbe coinvolto le grandi identità culturali e religiose (prime fra tutte quella cristiana e quella islamica), si sta rivelando infondata.

Il vero scontro, ormai, è tra i ricchi e i poveri del pianeta. Molti dei migranti respinti alle nostre frontiere sono cristiani come i cattolici del bergamasco che votano Lega. Non è un problema di religione, ma di difesa del proprio sistema di vita, che si crede minacciato da questi “nuovi barbari”.

È in questa prospettiva più ampia che va visto anche il problema degli scafisti. Certo, esecrare il cinismo spietato di questi criminali è più che giusto. Ma puntare l’attenzione esclusivamente su di essi fa tornare alla memoria la storia di quell’uomo che, quando gli si indicò la luna, si limitò a guardare il dito che gliela indicava.

 

* Giuseppe Savagnone, scrittore ed editorialista.

Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo,

 

www.tuttavia.eu

 

giovedì 29 dicembre 2022

SICURI DI ANNEGARE

 Le lacrime di Giorgia

 e il decreto sicurezza 

sulle Ong


 

- di Giuseppe Savagnone *

 

Al di là delle polemiche, cosa dice questo decreto?

Il nuovo “decreto sicurezza” varato in questi giorni dal governo è stato oggetto di vivaci e opposte prese di posizione. «Finalmente è lotta alle Ong», titolava in prima pagina «Il Giornale» del 29 dicembre scorso, riferendo la notizia. «L’umanità annegata», era invece il gioco di parole contenuto nel titolo della «Stampa».

La prima cosa da fare, in questi casi, è capire di che cosa si sta parlando. Siamo davanti a un codice di comportamento a cui le Ong (Organizzazioni non governative), impegnate da anni nei Mediterraneo per soccorrere i migranti a rischio di naufragio, dovranno da ora in poi sottostare.

Le operazioni di soccorso devono essere immediatamente comunicate alle autorità italiane e allo Stato di bandiera, ed effettuate nel rispetto delle indicazioni delle predette autorità. Appena effettuato il soccorso, deve essere richiesta l’assegnazione del porto di sbarco. E quest’ultimo, indicato dalle competenti autorità, deve essere raggiunto senza ritardi. Da quel momento i soccorritori non potranno effettuare altre soste, ad esempio per effettuare un altro soccorso – tranne se espressamente autorizzati – , fino allo sbarco nel porto assegnato.

Una normativa che complica ed ostacola

Si tratta, chiaramente, di una normativa volta a restringere e ostacolare l’attività delle navi che in questi anni hanno pattugliato il Mediterraneo alla ricerca di migranti in difficoltà, spesso raccogliendoli in momenti e circostanze diverse, fino al completo riempimento degli spazi disponibili a bordo. Da ora in poi sarà esercitato su ogni salvataggio un controllo rigoroso, obbligando la nave soccorritrice a recarsi immediatamente nel porto assegnatole dall’autorità italiana.

Riguardo a questo punto, bisogna anche notare che, negli ultimi tempi, è diventata frequente l’indicazione alle navi delle Ong di porti di sbarco diversi da quelli usuali e più vicini, in Sicilia e in Calabria. È successo alla «Rise Above 2», a cui è stato assegnato il porto di Gioia Tauro, e alla «Sea-Eye », mandata a Livorno. Secondo il Viminale, allo scopo di alleggerire quelle regioni, per i critici, allo scopo di allontanare le navi dall’area di ricerca e soccorso per limitare i salvataggi.

Al comandante della nave che non rispetti le prescrizioni del decreto sono applicate sanzioni amministrative da 10mila a 50mila euro. In solido ne rispondono anche l’armatore e il proprietario della nave. Alla multa si aggiunge il fermo per due mesi dell’imbarcazione. La confisca del mezzo scatta invece in caso di “recidiva”. Sanzioni severe, ma solo di ordine economico-amministrativo e non penale, come al tempo di Salvini.

Il significato del testo secondo i suoi fautori

Questo dice il testo del decreto. Ma quale ne è il significato? Per i suoi fautori, si tratta un provvedimento necessario per regolamentare un flusso indiscriminato di clandestini che incombe sui nostri confini nazionali e minaccia la sicurezza del nostro paese. Di questo flusso le navi delle Ong sarebbero in buona parte responsabili, con un comportamento ambiguo che le spinge a girovagare per le acque del Mediterraneo andando, come ha scritto un giornale di destra, «a pesca» di migranti e rendendo così più facile il compito degli scafisti, che sanno di poter contare su questo sostegno esterno per svolgere il loro traffico criminale di esseri umani.

Secondo questa lettura, gli appelli umanitari a favore delle Ong che si appellano alla necessità di salvare delle vite in pericolo, nascondono, consapevolmente o no, il fatto che, al contrario, le vite dei migranti sono messe in pericolo proprio da questo sistema perverso di oggettiva (e forse in taluni casi volontaria) complicità tra scafisti e soccorritori. Senza l’“appuntamento”, più o meno concordato, con le navi di questi ultimi, verrebbe meno il fenomeno dei viaggi della disperazione e ci sarebbero molti meno morti.

Il vero aiuto alle popolazioni svantaggiate, come anche papa Francesco ha recentemente ricordato, non è comunque in queste misure di emergenza, ma in un aiuto internazionale che le aiuti a risolvere il problema della povertà “a casa loro”, senza doverne fuggire.

In ogni caso, l’Italia non si può permettere di ospitare un numero potenzialmente illimitato di migranti che vengono ad appesantire la nostra economia e a togliere posti di lavoro agli italiani, oltre che a minacciare la nostra identità nazionale sul piano culturale e religioso. Dev’essere l’Europa che si fa carico del problema dei flussi migratori e, finché non lo fa, l’Italia deve provvedere a difendersi.

Ma il problema erano le Ong?

Queste argomentazioni non vanno misconosciute e respinte a priori – come spesso si fa da parte dei difensori della linea “umanitaria”, che per questo a volte appaiono, una parte consistente dell’opinione pubblica, prigionieri di una facile retorica “buonista” – , ma devono essere vagliate seriamente, riconoscendone sia l’anima di verità, sia i limiti.

Perché è verissimo che il problema dei flussi migratori è molto grave e non può essere risolto con l’accoglienza indiscriminata. Meno vero, anzi falso, è che le Ong ne siano all’origine e che per fronteggiarlo sia stato necessario prendere provvedimenti nei loro confronti.

Intanto perché le loro navi nel 2022 hanno soccorso appena l’11,2% delle poco più di centomila persone approdate sulle coste italiane. Gli altri o arrivano con i propri mezzi, i famosi “barconi”, oppure sono soccorsi da altre navi, con la Guardia costiera e la Marina militare in prima fila. Il «Giornale», commentando il decreto sicurezza, parlava di «decreto anti-sbarchi». Sarebbe stato più onesto spiegare ai lettori che la misura del governo riguarda poco più del 10% di questo fenomeno e perciò non solo non è risolutiva, ma risulta ben poco rilevante per i fini che vengono ufficialmente indicati.

E soprattutto, se è vero che non sono le migrazioni la soluzione ai problemi dell’Africa, è tuttavia chiarissimo che attualmente il progetto di “aiutarli a casa loro” è reso impraticabile dalla difficoltà di trovare nei governi locali – si pensi a quello libico! – degli interlocutori credibili e dalla scarsa volontà dei governi europei (a cominciare dal nostro) di investire le proprie risorse per favorire il decollo di quelle economie. Perciò, allo stato attuale delle cose, continueranno in ogni caso ad esserci migliaia di persone che fuggono dai loro territori resi invivibili dalle guerre, dalla desertificazione o anche semplicemente da una povertà endemica.

La domanda, allora, non è se questa è una situazione accettabile, ma come noi dobbiamo fronteggiarla. Lasciando annegare i migranti – o rendendo comunque più difficile il loro salvataggio da parte di chi, come le navi delle Ong, cerca di evitare che muoiano?

Davanti a questo interrogativo tutti gli argomenti a favore del decreto sicurezza diventano relativi. Certo che bisogna accordarsi con gli altri paesi europei, ma, finché il nostro governo – come del resto quelli precedenti – non riesce a coinvolgerli, la soluzione è di sperare che la minore efficienza dei soccorsi, causando un numero sempre maggiore di tragedie di cui sono vittime degli innocenti, scoraggi dal partire?

È la scelta adottata dal nostro governo. Ma essa, oltre ad essere cinica, finora non ha funzionato. Pur di sfuggire alle persecuzioni, alla miseria, ai lager libici, le persone si sono imbarcate egualmente su mezzi di fortuna, affrontando il pericolo. La “stretta sulle Ong” di cui hanno parlato i giornali è in realtà solo una stretta sulle possibilità di sopravvivenza dei migranti.

Certo, nel decreto non c’è un divieto assoluto alle navi delle Ong di svolgere la loro missione. Ma, ha osservato «Avvenire», in esso «il governo comunica una visione dei salvataggi in mare come un’attività dannosa, da circoscrivere, scrutare, penalizzare». Come se si trattasse di un traffico di rifiuti altamente inquinanti.

Non era un’esigenza economica, ma ideologica

Perché il governo Meloni ha fatto questo? Perché ha dovuto tener conto delle esigenze della nostra economia, soprattutto in questo tempo di crisi?

I dati lo smentiscono. A livello internazionale, il rapporto Ocse 2021 ha già evidenziato che «i migranti contribuiscono in tasse più di quanto ricevono in prestazioni assistenziali, salute e istruzione». Ma anche guardando al nostro paese, i numeri dicono che, sommando il gettito fiscale e i contributi previdenziali e sociali, i contribuenti stranieri in questi anni hanno assicurato entrate per le casse dello Stato di diversi miliardi di euro. Che sono serviti per pagare le nostre pensioni, in un momento in cui la gravissima crisi demografica che attraversiamo rende impossibile contare sui contributi versati dai soli lavoratori italiani per mantenere i loro genitori.

 Quanto all’argomento della invasività sul piano culturale e religioso, bisognerebbe onestamente chiedersi se la profonda crisi che il nostro paese e l’Europa intera attraversano sotto questo profilo sia veramente effetto dell’accoglienza degli stranieri, o non costituisca invece un fenomeno autonomo, causato da ben altre ragioni.

 Alla fine, purtroppo, il solo significato del “decreto sicurezza” è quello di una bandiera identitaria, finalizzata a esprimere la visione di un fronte politico, la destra, che finora ha potuto fare ben poco, da quando è al governo, per creare discontinuità con il passato che aveva sempre criticato (si ricordino i violentissimi attacchi di Salvini al ministro Lamorgese e la richiesta della leader di Fratelli d’Italia di un “blocco navale”), e che vuole dimostrare la coerenza di una posizione ideologica. Il guaio è che questa ideologia, a quanto pare condivisa da molti italiani (tra cui molti buoni cattolici), parla di discriminazione e di indifferenza per la vita di tanti esseri umani troppo poveri per meritare rispetto.

Pochi giorni fa Giorgia Meloni si è visibilmente commossa parlando delle vittime delle persecuzioni razziali durante la cerimonia per la festa ebraica Hannukkah al museo ebraico. Il suo intervento è iniziato asciugandosi le lacrime: «Noi femmine ogni tanto facciamo questa cosa un po’ così… Di essere troppo sensibili… Noi mamme in particolare…». Calorosi applausi di simpatia. Chi sa, però, se, nell’approvare il decreto sicurezza, la Meloni ha pensato a tutte le mamme che annegheranno, insieme ai loro bambini, per la sua tenace volontà di dimostrare di “essere Giorgia”.

 * Pastorale della Cultura – Diocesi Palermo

www.tuttavia.eu