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mercoledì 30 marzo 2022

RAPPORTO AMNESTY: PIU' CONFLITTI e MENO DIRITTI


Il nuovo rapporto

 di Amnesty

Il Rapporto 2021-2022 di Amnesty International, pubblicato in Italia da Infinito Edizioni, contiene un’introduzione della segretaria generale Agnès Callamard, cinque panoramiche regionali e schede su 154 Stati e territori. Tra i temi principali la pandemia di Covid-19, il razzismo, la lotta alle disuguaglianze e la cura del Creato. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: "La mancata equa distribuzione dei vaccini è un segnale tanto drammatico quanto inequivocabile"

 -         di Andrea De Angelis - Città del Vaticano

 Anche quest’anno, mantenendo una tradizione che va avanti dagli anni Ottanta, Amnesty International Italia pubblica il Rapporto sulla situazione dei diritti umani nel mondo. L’edizione di quest’anno, arricchita da un’introduzione della segretaria generale di Amnesty International Agnès Callamard, contiene cinque panoramiche regionali e schede di approfondimento su 154 Paesi. Oltre al volume, una serie di infografiche presenta le principali tendenze globali. L’edizione 2021-2022 del Rapporto di Amnesty International è a cura di Infinito Edizioni.

Aumentano i conflitti

L'aumento dei conflitti nel mondo è il dato centrale del nuovo rapporto. Nel 2021 la comunità internazionale non è riuscita ad affrontare il moltiplicarsi di gravi conflitti che ha generato ulteriori instabilità e devastazioni di cui milioni di civili nel mondo hanno pagato il prezzo più alto. Di questa tragica "mappa" fanno parte Afghanistan, Myanmar, Yemen, Burkina Faso, Libia, Israele e Territori palestinesi, oltre ovviamente alla Siria. Tra le quattro crisi che maggiormente preoccupano Amnesty International ci sono i due colpi di stato perpetrati in Asia, indietreggiata in materia di diritti umani. In Myanmar quasi duemila manifestanti sono stati uccisi e i conflitti interetnici sono nuovamente esplosi da quando la giunta militare ha ripreso il potere con un golpe, il primo febbraio 2021, macchiandosi di crimini contro l'umanità. In Afghanistan lo scorso agosto i talebani sono tornati al potere e "da allora - sottolinea Amnesty - è caccia all'uomo e soprattutto alla donna, a chi per 20 anni ha lottato in difesa dei diritti, con blogger, giornalisti, attivisti inseriti nella lista nera: un vero ritorno al medioevo".

La situazione in Africa

Spostandosi in Africa, Amnesty ha citato la guerra in Etiopia, nel Tigray, la violenza inaudita dei gruppi armati tigrini sulle donne e ragazze della regione Amhara, con il ricorso allo stupro come arma di guerra e vendetta, oltre all'incursione delle forze armate dell'Eritrea e ai 5 milioni di persone affamate senza che gli aiuti riescano a raggiungerle. Guardando all'anno da poco iniziato, l'attenzione è rivolta al Sahel dove la crisi si sta espandendo anche a livello geografico per la minaccia combinata dei gruppi armati jihadisti, la debolezza o l'assenza di Stato e la presenza di forze straniere, in un contesto di siccità e scarso accesso a cibo e vaccini. Per parte dell'Africa c'e' anche da temere una crisi alimentare di grande entità come conseguenza della guerra tra Russia e Ucraina, i due Paesi 'granai' del continente. In questa prospettiva Amnesty teme misure repressive da parte di alcuni governi, Tunisia in primis, per arginare possibili crisi del pane, oltre ad una diffusa carestia e malnutrizione.

Medio Oriente e Bielorussia

In Medio Oriente l'attenzione di Amnesty International è focalizzata sulla drammatica situazione in Egitto, dove sono 60 mila i prigionieri di opinione, oltre alla vicenda giudiziaria di Patrick Zaky. Critiche anche ad Israele, per quella che Amnesty definisce una politica di espansione degli insediamenti illegali. Particolarmente preoccupante la situazione dei diritti umani in Iran, dove la detenzione di cittadini europei viene utilizzata a scopo diplomatico e per trarne altri vantaggi. Iran, Egitto, Arabia Saudita sono inoltre i Paesi che totalizzano il maggior numero di condanne a morte. In Europa centro-orientale, Amnesty International ha deplorato la repressione sempre più dura in atto in Russia ai danni di oppositori, giornalisti e società civile, ridotta al silenzio. In Bielorussia, invece, "più che une repressione di stato, siamo di fronte ad un'impresa criminale" in atto dopo l'elezione contestata di Aleksandr Lukashenko, con più di mille prigionieri di coscienza. La Bielorussia è accusata da Amnesty anche per la vicenda dei migranti bloccati al confine con la Polonia in condizioni disumane e in palese violazione dei diritti umani. "Questa è stata una delle pagine piu' buie della storia recente dei diritti umani sul nostro continente" si legge nel rapporto.

L'America Latina

Il Rapporto 2021/2022 di Amnesty International sottolinea infine come l'America Latina si confermi la regione più pericolosa del mondo, con ben 252 difensori dei diritti umani uccisi, di cui 138 solo in Colombia. Oltre la metà, dunque, del totale. In evidenza anche la situazione del Messico, Paese dove nell'ultimo anno sono stati denunciati oltre mille femminicidi. Sia Cuba che il Nicaragua sono stati poi teatro di ingenti proteste represse con violenza e con decine di arresti arbitrari e condanne ad oppositori.

L'Oms lancia l'allarme sull'equa distribuzione dei vaccini

"Il 2020 è stato l'anno della disperata ricerca di una soluzione alla pandemia, trovata nel 2021 grazie ai vaccini, ma gli Stati ricchi e le grandi aziende farmaceutiche hanno compromesso l'uscita dal tunnel". Lo afferma Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, sottolineando come nei Paesi a basso e medio-basso reddito solo l''8% della popolazione è stata vaccinata.

"Ancora una volta - prosegue - nel rispondere a una crisi sanitaria, i profitti sono venuti prima delle vite umane". Una mancata consapevolezza dell'urgenza di una risposta globale o il prevalere di interessi economici? "C'è la volontà di far prevalere interessi di parte, legati alla nazione, lasciando indietro gli altri. Da questo punto di vista il 2021 è stata un'occasione persa e non usciremo dalla pandemia finché i vaccini non saranno distribuiti in modo equo. L'obiettivo era e rimane questo, ma risulta essere ancora lontano".

Le discriminazioni razziali

Il 21 marzo si è celebrata la Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale. Una ricorrenza che, in tempo di pandemia e con più di una guerra in corso - l'Ucraina, ma si pensi anche a Etiopia, Siria e Yemen - assume un significato particolare. Su questa battaglia di civiltà Amnesty International è stata, anche lo scorso anno, in prima linea. "Il rischio di considerare questo problema di secondo piano è concreto, lo registriamo in numerosi Paesi dove ci sono rifugiati meritevoli di protezione ed altri da allontanare. Proprio la guerra in Ucraina ha dimostrato che un modello di accoglienza diverso è possibile, ma lo scorso anno non lo abbiamo visto all'opera". Inoltre "la pandemia ha reso fragili tutta una serie di diritti, tra questi c'è - sottolinea - anche il superamento della discriminazione, della violenza fisica e verbale, con un uso eccessivo della forza verso determinati gruppi".

Nel segno di una ecologia integrale

Lo scorso autunno la cura del Creato è stata al centro della cronaca internazionale grazie alla Cop26 di Glasgow. Oggi, però, le questioni ambientali sembrano essere finite di nuove lontane dai riflettori. "Questo è il problema dei problemi che resterà - ammonisce Noury - anche quando la pandemia sarà terminata". Nel 2021 sono stati numerosi i drammi legati ai cambiamenti climatici, "esempio - spiega - di come a pagarne il prezzo più alto siano coloro che hanno meno colpe". Il pensiero di Noury va alla siccità che ha interessato un milione e mezzo di persone in Madagascar. "Glasgow è stata l'ennesima occasione persa per fare qualcosa di buono", rimarca.

La voce delle popolazioni

Amnesty International sottolinea come siano aumentate le proteste di massa, nelle piazze così come in rete, delle persone di ogni continente. Manifestazioni importanti si sono registrate in almeno 80 Paesi. "Il cambiamento senza una pressione dal basso non arriverà mai, non possiamo pensare che ci penseranno i governi in modo filantropico o progressista. Il 2021 è stato un anno di grande attivismo, questo ha fatto la differenza - conclude - in diversi casi, penso ad esempio a quanto accaduto ed ancora in corso in Cile. Questo ci dice che senza la partecipazione popolare continueranno le politiche di esclusione e di egoismo".

Vatican News

 RAPPORTO 2020-21



sabato 19 dicembre 2020

SCUOLE CHIUSE. CHI PAGA IL PREZZO?

                                          

  Nessuna strategia
per la scuola

                                                                                              

-         di Giuseppe Savagnone

 

Della situazione dei giovani, nel tempo del coronavirus, si parla poco. Se lo si fa, è per denunziare la loro irresponsabilità nel frequentare la movida e nel creare assembramenti. Ma di quello che stanno vivendo, solo qualche accenno. Forse perché si ha l’oscura percezione che dei loro problemi non è responsabile solo la pandemia, ma anche, e forse soprattutto, il modo in cui noi, gli adulti, la stiamo affrontando.

Emblematica la nostra incapacità di tenere aperte le scuole. Lo si può capire per i primi mesi, quando tutti siamo stati colti di sorpresa. Ma, dopo l’estate, era lecito aspettarsi che si fossero studiate strategie adeguate, approntando non solo e non tanto accorgimenti come i banchi singoli e a rotelle, o le barriere di plexigas – la cui efficacia è comunque circoscritta nell’ambito dell’aula scolastica –, quanto piuttosto un progetto accurato per consentire l’accesso degli studenti ai rispettivi istituti in condizioni di sicurezza.

Avere trascurato questo secondo aspetto del problema ha di fatto vanificato gli sforzi fatti, con tanto sacrificio, dalle scuole per fronteggiare il primo e ha condotto a ripiegare sulla didattica a distanza.

Quello che non è stato fatto

A molti è apparso un esito inevitabile. Ma è veramente così? In realtà, prima di chiudere le scuole, bisognava valutare ogni intervento alternativo possibile. Come il potenziamento dei mezzi di trasporto pubblici – o almeno la distribuzione su di essi del flusso degli studenti –, lo scaglionamento degli orari scolastici, il cambiamento dei protocolli di accoglienza nelle strutture, il controllo del rispetto delle regole fuori dagli edifici scolastici. Per tutto questo non sarebbe stato necessario aspettare i soldi del Recovery Fund: più che grandi risorse economiche, sarebbero stati necessari una certa capacità organizzativa e uno sforzo di coordinamento tra gli enti locali. È ciò che è mancato.

A monte, la svalutazione della scuola

Ma ad impressionare di più è forse il fatto che non ci sia stata una pressione massiccia e decisa da parte dell’opinione pubblica, come c’è stata contro l’ipotesi del ritorno al lockdown. Stiamo scontando, in Italia, la svalutazione a cui da decenni, ormai, è soggetta la scuola e tutto ciò che la riguarda. Ne è un eloquente indizio la scarsa considerazione in cui è tenuta la figura dell’insegnante. I professori, da noi, in verità hanno sempre guadagnato poco, ma in passato erano rispettati come persone di cultura ed educatori. Genitori e alunni guadavano a loro con fiducia e, nell’immaginario collettivo, il loro ruolo era fondamentale.

Oggi sappiamo tutti che non è più così. Non abbiamo avuto bisogno dell’irrompere del coronavirus per constatare che la scuola e quanti si impegnano per farla funzionare, agli occhi della maggior parte delle persone, non valgono più dei loro magri stipendi. Gli episodi di violenza contro docenti e dirigenti scolastici non dimostrano solo una tendenza iperprotettiva dei genitori italiani nei confronti dei loro figli, ma il totale misconoscimento del ruolo educativo dell’istituzione scolastica.

La mancata mobilitazione di tutti

Probabilmente è anche questo che sta dietro la mancata mobilitazione del governo, delle regioni, dei comuni, di tutto il nostro Paese, nei mesi in cui la pandemia ci ha dato tregua, per fronteggiare i prevedibilissimi problemi che si sarebbero posti alla riapertura autunnale delle scuole. Ed è sempre lo stesso misconoscimento a spiegare la mancata reazione per la loro chiusura.

Il prezzo per i più deboli

Ma il prezzo che già oggi i nostri ragazzi stanno pagando, e quello che pagheranno nel prossimo futuro, è altissimo. I più deboli economicamente, socialmente e culturalmente, soprattutto. La scuola ha una funzione decisiva nel garantire pari opportunità di crescita anche a chi si trova, su quei fronti, in condizioni di svantaggio. Essa non può annullare, ovviamente, gli handicap di partenza, ma offre strumenti per neutralizzarne o almeno limitarne gli effetti. Strutture, stimoli intellettuali, occasioni di confronto, sono uguali per tutti: ricchi e poveri; figli di famiglie dove si parla un buon italiano, o addirittura anche altre lingue, e di famiglie dove è di casa il dialetto; giovani già sensibili a tutto ciò che può sollecitare l’intelligenza e la sensibilità, e altri svogliati e poco sensibili alla cultura.

La scuola delle disuguaglianze

La didattica a distanza (DaD) distrugge questo bacino comune. Essa ricaccia gli svantaggiati nei loro ambienti angusti e sovraffollati; evidenzia la modestia delle risorse tecniche disponibili nelle loro famiglie, specialmente là dove a studiare sono più fratelli; li priva del contesto di relazioni che permetteva loro di crescere insieme a compagni e amici socialmente più favoriti. La scuola della dat è una scuola di disuguaglianze sociali.

I costi per il futuro

E non solo perché mette in luce spietatamente quelle già esistenti, ma perché è ovviamente destinata a esasperarle nel prossimo futuro. I ragazzi e le ragazze che fruiscono oggi di condizioni privilegiate stanno riuscendo comunque a seguire i loro docenti e a studiare dignitosamente. Tutti gli altri – e non sono certo pochi – si porteranno dietro un vuoto formativo che niente e nessuno potrà far loro recuperare e che, secondo la logica previsione degli esperti, comporterà un serio svantaggio sia nell’accesso al mercato del lavoro, sia nella loro possibilità di essere valorizzati al suo interno.

A chi serve la scuola?

La scuola della DaD è anche una scuola di disuguaglianze a livello semplicemente umano. Anche a parità di condizioni sociali ed economiche, la sensibilità culturale di un ragazzo è molto diversa da quella di un altro, perché dipende da una serie di fattori – temperamento, rapporto con i genitori, esperienze esistenziali – che spingono uno a leggere molto, ad apprezzare film di qualità, a interessarsi di arte e di politica, mentre un altro è appassionato solo del fantacalcio.

Il compito della scuola, e in particolare dei docenti, è essenziale soprattutto per l’alunno che sbadiglia quando si parla di Platone o di Leopardi e legge soltanto i giornali sportivi. In un certo senso, è per questa categoria di giovani che la scuola esiste. Gli altri probabilmente potrebbero farne a meno, perché troverebbero già in se stessi e nel loro ambiente gli stimoli per maturare. Invece, quelli di cui parliamo, per uscire dal bozzolo devono essere interpellati, sollecitati, perfino perseguitati, dai loro professori, che un giorno ringrazieranno per aver risvegliato le potenzialità che erano in loro. Perché nessuno è predestinato a essere mediocre.

Il ruolo dei docenti…

Ma per questo è indispensabile una relazione umana col docente. Si chiama “rapporto educativo”. In realtà anche prima della DaD non era garantito che questo rapporto ci fosse. Ma se l’insegnante sapeva fare il suo lavoro, crearlo era il suo fondamentale obiettivo. Con la didattica a distanza la relazione umana diventa più che problematica. Perché quando di parla di “umano” non si può prescindere dalla fisicità di persone in carne ed ossa, che è immensamente di più della semplice visibilità virtuale. Senza dire che anche questa a volte viene meno, quando, sullo schermo, invece dei volti degli alunni ci sono solo le icone, vere e proprie maschere dietro cui lo svogliato è libero di dedicarsi a tutt’altro.

… e la loro attuale alienazione

Una parola va spesa per dire che anche per gli insegnanti la DaD è alienante. La mancanza del rapporto “vero” pesa sul docente non meno che sugli alunni, tanto più che su di lui pesa una responsabilità professionale che lo carica di tensione. Resta il fatto che i vuoti formativi saranno i ragazzi, e non lui, a portarseli dietro, malgrado la sua buona volontà e la sua serietà nel cercare di ridurre il più possibile i danni.

Riapriranno le scuole?

Riapriranno le scuole dopo le “vacanze” natalizie? Se si continua a non far nulla per risolvere i problemi logistici e organizzativi di cui parlavamo all’inizio, sarà facile dimostrare che è un suicidio, non tanto per quello che può accadere in classe, quanto per i problemi esterni alla scuola (trasporti, etc.). Dipende dalla volontà politica di governo, regioni e comuni farsi carico di creare le condizioni per non cadere di nuovo dal pero quando quei problemi saranno, come è logico, invocati dagli esperti per non riaprire.

Dipende dalla politica, ma anche da noi

Ma dipende anche da noi, dall’opinione pubblica, prendere a cuore la questione, almeno come facciamo per la riapertura dei ristornati e delle stazioni sciistiche. Forse può aiutarci in questa presa di coscienza l’elementare riflessione che il prolungarsi della chiusura delle scuole, oltre a creare sempre più drammatiche disuguaglianze in un Paese che già ne ha troppe, avrà come effetto un sempre maggiore impoverimento per tutti e a tutti i livelli, perché colpisce le nuove generazioni e indebolisce l’apporto che essi saranno in grado di dare nell’economia, nella vita democratica, nella vita culturale. Per non dover scoprire l’importanza della scuola quando avremo davanti gli effetti del suo venir meno, e rimpiangere di non aver compreso prima che essa era la nostra risorsa più grande per il futuro.

 www.tuttavia.eu

 

giovedì 9 aprile 2020

PANDEMIA, FORZA E QUALITA' DELLE RELAZIONI, I RISCHI DI UNA DERIVA SELETTIVA

La pandemia di Covid–19 ci ha mostrato in maniera drammatica l’importanza delle relazioni sociali.


 L’eredità del coronavirus potrebbe essere una cultura tecnocratica e anti solidale in un mondo di fantasmi e cyborg Servirà un altro modello di sviluppo sociale

Contro un sistema che crea disuguaglianze occorre una “conversione” radicale, che è innanzitutto un nuovo apprezzamento spirituale dei legami

di PIERPAOLO DONATI

Senza relazioni, il virus non esiste. Il che significa che le relazioni contano, e contano più del denaro. Il Covid–19 ci ha costretti, dunque, a misurare le relazioni. La relazione non è soltanto un veicolo, un canale dentro cui passa qualcosa e che dunque “porta” il virus, così come le tubazioni portano l’acqua. In un certo senso, possiamo dire che “il virus è nella relazione”, è la stessa relazione, quando la relazione non è compresa nella sua portata. Ma nello stesso tempo, la relazione “è il suo rimedio”, se siamo capaci di capirlo.
P rendere o meno il virus dipende dalle qualità e proprietà della relazione sociale, nella sfera pubblica come nella famiglia. Dobbiamo misurare la distanza e la forza della relazione, le sue qualità e le sue proprietà causali. Saper prender le distanze giuste tra Sé e l’Altro, coinvolgerci e distaccarci, diventa fondamentale perché la distanza cambia la forza di ciò che è trasmesso, così come determina la sua bontà, neutralità o dannosità. Ma come si fa a vivere senza relazioni per non prendere il virus? Delle relazioni abbiamo assoluto bisogno, ma dobbiamo saper distinguere fra relazioni buone e non buone. D unque, la pandemia ci ha mostrato che le relazioni sono la stoffa del sociale, nel lavoro, nella vita associativa, in famiglia, in ospedale, nella comunità ecclesiale, in tutte le attività con altri. Le relazioni decidono della qualità della nostra vita, e del nostro destino. Lo fanno nel bene e nel male. Mica poco! Infatti, da un lato le relazioni sociali fra amici, colleghi, familiari, parenti, sono state il veicolo del virus e hanno prodotto una catastrofe mondiale. Dall’altro, per combattere il virus, si è dovuto ricorrere alle buone relazioni in famiglia. La soluzione additata è stata quella di isolare le persone in famiglia, rivitalizzando le relazioni di compagnia fra genitori e figli, e magari connettendosi a distanza con i nonni su internet.
Il messaggio è stato: se non fate attenzione alle relazioni, dentro e fuori della famiglia, rischiate di ammalarvi. I nonni sono stati isolati. Nello stesso tempo, l’isolamento richiesto alle singole persone e alle famiglie ha costretto le famiglie a una vita in comune mai sperimentata in precedenza, e così ha messo sotto stress le loro relazioni interpersonali. Lo stress (tensioni, disagio, ansia) ha avuto e avrà anche in seguito effetti selettivi: alcune famiglie si sentiranno più unite, altre e- sploderanno in vari modi. Questo è un tema di future ricerche.
Q ualcuno osserverà che c’è stata una grandecondivisione di informazioni, messaggi, conversazioni su internet. Ma è tutto da dimostrare che queste connessioni abbiano rafforzato la cultura delle relazioni. Sono certamente state un ulteriore passo nella alfabetizzazione delle persone e delle famiglie al mondo digitale, che nella nostra realtà era molto indietro rispetto agli altri Paesi europei. In poche settimane, smart working, didattica a distanza, servizi su internet, e così via, hanno addestrato le famiglie italiane al mondo del digitale come nessun altro avrebbe potuto fare in molti anni. Ma qualcuno potrebbe argomentare
che si tratta di un ulteriore passo verso la sorveglianza e la colonizzazione della popolazione. E allora ritorna il tema di quali relazioni sociali abbiamo bisogno per non farci colonizzare dalla grande Matrice Digitale che sta governando il mondo.
Durante la pandemia, tutti hanno dovuto aggiornarsi nell’uso delle tecnologie, soprattutto le Ict, le app, le piattaforme, e capire qualcosa di più di come funzionano gli algoritmi e le intelligenze artificiali. La pandemia è stata una spinta incredibile a entrare nella infosfera.
La tecnologia cambierà radicalmente le nostre relazioni. Ne può venire molto di buono, ma anche molto di male se le tecnologie saranno usate senza una cultura adeguata delle relazioni. Bisognerà capire come dare più potere e capacità alle persone affinché non diventino ancora di più i terminali di un sistema tecnocratico che tutti sorveglia e tutti condiziona verso scopi non detti, o comunque non decisi dalle persone e dalle famiglie. Su questo terreno, i due modelli leader nel mondo, il regime autoritario della Cina e la democrazia americana che poggia sul mercato, non promettono nulla di buono. L’Italia sarà stretta fra questi colossi che utilizzeranno le tecnologie digitali per condizionare con strumenti penetranti la vita della gente. Il coronavirus ha dato una grande mano in questa direzione. O ccorre potenziare la nostra cultura delle relazioni. Le relazioni sono ambivalenti ed enigmatiche perché possono generare il bene o il male, e dunque ri- chiedono un’osservazione competente, capace di vederle (sono una realtà diversa dai nostri sentimenti o idee) e gestirle. Di norma noi non vediamo, né tantomeno gestiamo le relazioni, le quali, invece, – sotto la forma delle connessioni virtuali sui media – vedono e gestiscono noi come persone. Le relazioni non sono comunque mai ciò che desideriamo che siano, non sono proiezioni dei nostri interessi. Incidono sulle nostre vite senza che ne siamo consapevoli.
Quando la pandemia sarà finita, il posto di questo virus sarà preso da altri agenti patogeni, quelli di una cultura darwiniana che usa consumi e tecnologie per selezionare la popolazione e creare un mondo di fantasmi e di cyborg. È qui la sfida per avviare un altro modello di sviluppo sociale, in cui la cultura delle relazioni dovrebbe essere oggetto di una cura speciale. Per evitare il rischio di una evoluzione darwiniana che privilegia il più forte e crea disuguaglianze, serve una “conversione” radicale, che è innanzitutto un nuovo apprezzamento spirituale delle relazioni umane (in latino cum–vertere significa fare sì che una cosa divenga altra da quella che è, trasmutare, trasformare).

*Sociologo, membro dell’Accademia Pontificia di Scienze Sociali