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giovedì 29 dicembre 2022

PENSIERO CRITICO E DIGITALIZZAZIONE

 

Nel mondo della digitalizzazione è ancora possibile sviluppare il «pensiero critico»?

 Una riflessione rigorosa sulle caratteristiche dei social media in ordine a questa domanda.

 - di Maurizio Radaelli*

La vita di tutti oggi è pervasa dall’uso incondizionato dei social media, anche se talora in modo indiretto e/o inconsapevole. Nati come strumenti di comunicazione per coprire lontananze spaziali e lentezze temporali, sono via via diventati principalmente mezzo di reperimento veloce di informazioni. L’autore ne discute questa caratteristica in relazione alla «formazione del pensiero critico» degli utilizzatori che è indispensabile per ogni forma di dialogo tra uomini in termini di realtà/verità. La riflessione proposta, essenziale e rigorosa, è anche una traccia per un approfondimento personale di un tema fondamentale in una società che appare sempre più «stanca della ragione», un aspetto questo ormai paradossalmente presente anche a scuola. 

La cultura occidentale si è strutturata intorno al tema del pensiero critico, cioè della capacità di «giudicare» la realtà (questo significa il verbo greco κρίνειν – krìnein -, da cui deriva l’aggettivo critico), in quanto elemento decisivo per una «intelligenza della realtà» che non sia illusoria. La disputa fra Socrate e i sofisti verteva proprio su questo: la possibilità di esprimere giudizi che corrispondessero alla realtà, che fossero perciò «veri», e non fossero delle pure «opinioni» soggettive. Passando per il «principio di realtà» di Tommaso d’Aquino (secondo cui conoscere è adaequatio intellectus ad rem e proprio perciò contra factum non valet argumentum) e per il criticismo kantiano, questa centralità, pur con tutte le differenziazioni nei vari sistemi di pensiero, è rimasta tale.

Il problema del pensiero critico oggi

Il pensiero postmoderno, divenuto dominante nella nostra epoca, ha messo invece in discussione questa centralità, in nome di un relativismo individualistico, applicabile a tutti gli ambiti: etico, conoscitivo, sociale, politico. Si tratta del cosiddetto «pensiero debole», che si illude di trarre spunto dal metodo scientifico, mentre ne è invece l’immagine speculare e distorta: il dubbio metodico del metodo scientifico non nega infatti la conoscibilità della realtà/verità, ma anzi la presuppone, nel suo continuo cercare di comprenderla un po’ alla volta, con ipotesi sempre aperte alla verifica ma mai ridotte a pura opinione.

Non a caso l’opinione è divenuta «arbitro ultimo» di ogni discussione: «è la mia opinione» è ora il modo di chiudere ogni possibilità di dialogo.

 Le caratteristiche del pensiero critico

Il pensiero critico è la capacità di pensare «fuori dagli schemi», di giudicare fatti e opinioni in modo libero, senza adeguarsi al pensiero corrente, ed è realmente razionale, cioè non si ferma all’impressione o alla reazione del momento.

Ciò significa non dare per scontato quasi nulla, ma solo ciò che è immediatamente e indiscutibilmente evidente. Pensare in modo critico significa quindi pretendere le «prove» delle opinioni altrui come delle proprie, mettendo costantemente in discussione sé e gli altri.

Ma il pensiero critico non nasce dal nulla. Per poter parlare di pensiero critico occorrono anzitutto informazioni attendibili, adeguate e complete; attendibili, perché non possiamo accontentarci delle opinioni fuori contesto di chi non ha le competenze necessarie; adeguate, perché non ci basta una informazione corretta ma superficiale; complete, perché non possiamo dimenticare che la miglior menzogna è una verità parziale.

Ma non basta; occorrono gli strumenti per capire in modo corretto le informazioni: se acquisto un libro di fisica quantistica, ci trovo tutte le informazioni che mi servono, ma non è detto che io sia in grado di comprenderle fino in fondo; il rischio anzi che ne ricavi un giudizio totalmente errato non è per nulla trascurabile.

Infine occorre, come già detto, essere disposti a mettersi in discussione, a non restare prigionieri del proprio punto di vista e dei propri pregiudizi. Già Platone sosteneva che la «maledizione» dell’essere umano era la sua «condizione prospettica»1, cioè l’essere inevitabilmente legato al proprio punto di vista: non a caso le sue opere hanno quasi sempre forma di dialogo.

 Molte informazioni corrispondono a molta conoscenza?

Quello che abbiamo detto finora valeva 2500 anni fa come oggi. Ciò che è tipico del nostro tempo è invece l’illusione che molte informazioni significhino molta conoscenza, che affastellare dati – magari attendibili, adeguati e completi – significhi di per sé aver ottenuto conoscenze maggiori.

Proviamo a esaminare il problema, partendo da una vignetta tratta dal fumetto Dylan Dog.

 Vai al PDF dell’intero articolo

 

*Maurizio Redaelli (Laureato in filosofia, ha lavorato nel settore della comunicazione come responsabile marketing in aziende di servizi finanziari e come collaboratore di Agenzie pubblicitarie nazionali e internazionali)

Il Sussiidario


 

sabato 8 agosto 2020

TUTTI COLLEGATI, GIOVANI E ANZIANI PIÙ SOLI. ALLARME HIKIKOMORI


Giovani e anziani sono più soli.  Il paradosso del «tutti collegati»
La solitudine come patologia della modernità. 
Per i vecchi si attenuerà con la scomparsa della generazione «adigitale». 
Preoccupa la crescita degli «Hikikomori»
L’isolamento e le restrizioni dei rapporti sociali introdotti per arginare la pandemia da coronavirus hanno incrementato il disagio giovanile e favorito il rifugio nel mondo della realtà virtuale 
L’impegno del Gruppo Abele anche su questo fronte giovanile premiato dall’Accademia dei Lincei con il premio Antonio Feltrinelli 2020

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-          di LAMBERTO MAFFEI*
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La globalizzazione è stata indubbiamente un evento epocale, avvenuto in tempi relativamente rapidi e indotto o certamente facilitato da uno sviluppo altrettanto epocale della tecnologia delle comunicazioni. Essa è stata salutata, almeno all’inizio come un evento favorevole per le popolazioni, mirante a una migliore socialità e collaborazione in quanto ha levato molti limiti agli spostamenti tra Paesi e continenti diversi, promuovendo l’idea che anche gli altri sono buoni e cattivi come noi, con gli stessi pregi e difetti. C ome scrive José Saramago, ci si aspettava che la globalizzazione significasse prima di tutto globalizzazione del pane, la fine della fame nel mondo, ma questo non è avvenuto; ed era possibile, perché è noto che tanto pane è buttato via, o in pance già piene accumula grasso e talvolta patologia come il diabete di secondo tipo. È accaduto invece, come questo giornale continua a documentare, che le disuguaglianze sono aumentate e i ricchi sono diventati ricchissimi e i poveri poverissimi. Mi domando se la globalizzazione abbia significato solo un apparente diverso costume di comportamento, un vestito di un altro colore che copre un corpo con la stessa vecchia anima egoista e con occhi che, per parafrasare ancora Saramago, vedono le disuguaglianze e le ingiustizie, le cui immagini impietosamente si depositano sulla retina, senza però smuovere il cervello della solidarietà.
La rivoluzione digitale ha cambiato il modo di comunicare, la parola ha perso la sua musica, che porta con sé tutti quei messaggi che è difficile dire, ed è diventata messaggio scritto, quindi visivo, su uno smartphone, volutamente e inevitabilmente sintetico e apatico. Ascoltare, che è comprensione del-l’altro, è ormai considerato perdita di tempo in una forma di egoismo individuale e di una fisiologia dell’indifferenza. 
La globalizzazione e la digitalizzazione dell’individuo hanno fatto emergere, a mio avviso, tra gli effetti collaterali, il paradosso della solitudine: negli anziani, rimasti indietro nella cultura digitale sia tecnicamente che nel nuovo linguaggio che l’accompagna impedendo loro di conversare perfino con i figli; e anche nei giovani, i ragazzi Neet (not in education, employment or training), ragazzi o giovani adulti che non studiano, non lavorano, non seguono corsi di formazione e che purtroppo in Italia superano i 2 milioni, e i ragazzi Hikikomori (che vivono fisicamente appartati, autoisolati nella dimensione digitale).
L’effetto di isolamento degli anziani era in gran parte prevedibile, a causa della difficoltà nell’acquisizione delle nuove tecniche; ma, benché terribilmente triste e cinico a dirsi, tale fenomeno è economicamente e anche socialmente trascurabile perché i tecnologi, fautori di queste innovazioni dicono o sperano che esso scomparirà con la generazione vivente 'adigitale'. Il fenomeno degli Hikikomori invece non era affatto prevedibile e va considerato nella sua gravità, nei suoi aspetti sociali, medici e anche politici. Questo fenomeno può essere interpretato non tanto o non solo come una sorta di ribellione giovanile contro la società del consumismo e l’assenza di valori morali e culturali, quanto come una malattia indotta da un cambiamento violento di paradigma culturale, che basato su tradizioni e leggi divenuti memi che passano di generazione in generazione, è stato sconvolto dalla rivoluzione digitale. 
Non è un caso che il fenomeno si sia manifestato prima e più intensamente in Giappone dove le tradizioni sono state e sono guida assai rigida di comportamento e dove l’innovazione tecnologica è stata particolarmente attiva; né è un caso che il fenomeno sia particolarmente presente in famiglie borghesi dove le tradizioni sono più conservate. Il lockdown, il confinamento in casa dovuto al Covid-19, ha certamente aggravato il fenomeno e lo ha reso più evidente alle famiglie costrette anch’esse al confinamento. Nel valutare il fenomeno, bisogna anche considerare che il giovane cerca “fisiologicamente” il nuovo, valori e scopi diversi per vivere e allo stesso tempo è in fuga dai suoi bisogni vegetativi. 
I ragazzi Hikikomori sono giovani, di età compresa tra 11-12 anni e 27-28 anni, che si rinchiudono nella propria stanza, isolandosi dal contatto con altre persone e vivono utilizzando unicamente la connessione telematica, spesso anche con l’inversione degli orari sonno-veglia. Questo comportamento si insinua progressivamente e comporta la rarefazione o più spesso l’abbandono della frequenza scolastica e dei rapporti sociali, fino a un completo isolamento anche rispetto alla famiglia. Il mondo virtuale finisce per sostituire del tutto quello reale. Il fenomeno è iniziato in Giappone dove il numero di questi ragazzi supera già i 2 milioni ed è in espansione. 
In Italia il numero dei ragazzi Hikikomori è intorno ai centomila e in espansione particolarmente nelle regioni del Centro Nord a più alto sviluppo tecnologico. Vi sono osservazioni che suggeriscono che l’isolamento e le restrizioni dei rapporti sociali introdotte per arginare la pandemia da coronavirus abbiano incrementato il disagio giovanile e favorito il rifugio nel mondo della realtà virtuale. Sembra che ci sia una relazione (ancora non statisticamente quantificata) tra Paesi o città ad alto sviluppo tecnologico e numero dei ragazzi Hikikomori, come se lo sviluppo tecnologico agisse da attrattore verso una realtà diversa. In Giappone si è sviluppato, ad aiuto dei genitori, un nuovo tipo di occupazione, quello di studentesse che, dietro pagamento, contattano gli Hikikomori, principalmente maschi, cercando di reintrodurli a maggiore socialità.
In Italia il fenomeno dell’isolamento dei giovani è stato sottovalutato: solo il Gruppo Abele, guidato da don Luigi Ciotti, ha colto con tempestiva sensibilità l’importanza del fenomeno che può minare futuro e salute dei giovani. Nel cuore di Torino è già stato organizzato un “centro diurno” che – con un “laboratorio di espressione corporea” e un “laboratorio sulle tecnologie” – ha il progetto di riportare a una normale vita sociale e occupazionale i soggetti isolatisi, grazie a un intervento personalizzato, non sempre e, comunque non completamente di natura clinica, quanto piuttosto educativo socializzante, con rapporti prevalenti con altri ragazzi. 
Per questo l’Accademia dei Lincei ha assegnato per 2020 al Gruppo Abele il premio Antonio Feltrinelli «per un’impresa eccezionale di alto valore morale e umanitario » . Mi permetto di aggiungere, con un pizzico di orgoglio, che il collega Aldo Montesano e io siamo stati tra i relatori del progetto e l’abbiamo sostenuto con grande convinzione.

*Presidente emerito Accademia dei Lincei




sabato 6 ottobre 2018

LEGGERE E SCRIVERE IN DIGITALE CAMBIA IL CERVELLO?

 SALVARE IL "PENSIERO LENTO"

I test dimostrano una tendenziale incapacità degli studenti italiani a comprendere il significato di un testo scritto. I media digitali esprimono un’organizzazione sociale basata sull’accelerazione È questa logica che va disinnescata

                                    di  Pier Cesare Rivoltella*

Al tempo dei media digitali si legge di più o si legge di meno? Leggere a schermo modifica il nostro modo di comprendere i significati? E cambia il nostro modo di scrivere? Sono alcune delle domande che genitori e insegnanti si pongono per capire quali siano spazi e tempi corretti da lasciare ai dispositivi a casa, a scuola, nel tempo libero. La ricerca suggerisce che proprio la questione del tempo è determinante. Maryanne Wolf, neuroscienziata che da anni studia il cervello che legge, ha osservato che leggere a schermo finisce per inibire, a lungo andare, la lettura profonda. Si corre via, alla ricerca di alcuni snodi del testo che consentano di coglierne sinteticamente il senso senza prendersi il tempo di pesarne ogni singola parte: il rischio è che si comprometta la capacità di comprendere con esattezza il significato di quel che si sta leggendo. Si legge, ma spesso senza capire cosa: i risultati delle prove Invalsi da qualche anno dimostrano proprio questo, ovvero una tendenziale incapacità degli studenti italiani a comprendere il significato di un testo scritto.
C olpa degli schermi?
Probabilmente no. Ma di certo le condizioni in cui si legge svolgono un ruolo determinante: si legge in mobilità, in metropolitana, nei tempi morti, mentre si svolgono altre attività. I tempi della lettura sono sempre compressi: si riesce a gettare uno sguardo sullo schermo, quasi mai a prendersi il tempo necessario per leggere veramente. E lo schermo digitale è perfettamente complementare rispetto a queste abitudini di consumo: sempre disponibile, consente con un clic di richiamare il testo e di scorrerlo con il movimento di un dito. Qualche anno fa l’economista Daniel Kahneman ha distinto quelli che lui chiama i pensieri veloci dai pensieri lenti. Sono veloci quei pensieri che sorreggono le nostre decisioni in tempo reale: vale per tutte le situazioni in cui siamo abituati a rispondere quasi istintivamente, senza pensarci troppo, perché prendersi il tempo per pensare comporterebbe di rendere vana la decisione. Al contrario i pensieri lenti sorreggono le decisioni ponderate: valutiamo tutti gli elementi, avanziamo delle ipotesi, le vagliamo mentalmente, arriviamo a una decisione valutata con calma, sorretta da argomentazioni.
P ensieri veloci e pensieri lenti dovrebbero appartenere entrambe alla nostra economia cognitiva: i primi servono in alcuni casi, i secondi in altri. Di fatto, però, la velocità a cui siamo progressivamente sempre più condannati, nella vita di tutti i giorni, a casa come nelle organizzazioni, può comportare che tendiamo a ricorrere via via in modo sempre più frequente soprattutto ai pensieri veloci. Lamberto Maffei, a lungo direttore dell’Istituto di Neuroscienza del Cnr, ha osservato che questo potrebbe comportare a lungo delle modificazioni nel nostro modo di elaborare le informazioni, favorendo il lavoro del 'cervello basso' (la via ventrale) a svantaggio di quello del 'cervello alto' (la via dorsale): bravi nel problem solving in tempo reale e a fronteggiare situazioni di emergenza, potremmo perdere progressivamente la capacità di pianificare a lungo termine.
Il vero problema, dunque, non è il digitale, ma la velocità. Occorre trovare il modo di rallentare perché solo rallentando è possibile attivare i nostri pensieri lenti. La lettura, quella profonda, ha bisogno di tempi distesi: il fatto che legga sulla pagina o sul mio Kindle, da questo punto di vista, non comporta differenze.
Q uanto alla scrittura, in maniera totalmente controintuitiva, i dati dicono che si scrive decisamente di più oggi che rispetto a qualche decennio fa. Ma certo questo dato quantitativo va interpretato: non si scrivono più saggi, o più romanzi; spesso la scrittura è funzionale alla comunicazione privata e professionale; si scrivono mail, si posta sui social. Anche in questo caso, come in quello della lettura, il tempo è un fattore determinante. La scrittura si accorcia, si fa sintetica. Gli schermi digitali sono a questo riguardo un fattore codeterminante: proprio perché si dispone di poco tempo, il formato dello Short Message risulta assolutamente funzionale, ma a lungo andare quel formato finisce per modificare la nostra attitudine alla scrittura e così finiamo per essere sintetici sempre, anche quando non servirebbe o forse sarebbe meglio non esserlo.
ndrea Lunsford, professoressa di inglese all’Università di Stanford, ha concepito una ricerca longitudinale (lo Stanford Study of Writing) che studia A come si modifichino le pratiche di scrittura degli studenti in un arco di cinque anni. E il dato è che negli ultimi anni è progressivamente cresciuta la capacità dei partecipanti di scrivere testi sintetici, perfettamente centrati sul loro obiettivo, capaci di raggiungere il destinatario in maniera efficace. Ma si può dire che sia andata modificandosi anche la pratica della scrittura.
Quando non esistevano i computer, al tempo della scrittura manuale, l’organizzazione del testo si svolgeva sostanzialmente a priori. Questo significa che avevo bisogno di pensare bene cosa volessi scrivere prima di trasferirlo su carta: certo, le correzioni erano possibili, ma non oltre un certo limite, quello imposto dallo spazio stesso della pagina. Potremmo dire che quel tipo di scrittura assecondava, anzi richiedeva, il pensiero lento. La scrittura digitale, invece, procede in modo diverso. Butto giù una prima idea, quattro o cinque righe; la espando; taglio la prima parte e la sposto in fondo al testo; aggiungo dei titoletti; lavoro sulle conclusioni prima ancora di aver scritto il resto del testo. Scrivo per accumulazione, in tempi successivi, anche per pochi minuti alla volta.
L’organizzazione del testo è assolutamente a posteriori: non mi serve avere ben chiaro in testa quel che voglio dire insieme alla sua articolazione; intervengo dopo, sullo schermo. Si tratta di una scrittura che è perfettamente coerente con il pensiero veloce. E se mi abituo a scrivere a schermo, a lungo andare divento incapace di farlo con carta e penna. Non è un problema di manualità: sugli schermi digitali si può scrivere manualmente con delle penne che riproducono perfettamente il carattere dinamico della scrittura su carta. Il problema è cognitivo, di organizzazione mentale.
I n alcuni contesti si discute anche se sia utile o meno proibire agli studenti di seguire le lezioni universitarie in aula con l’ausilio del computer: alcune ricerche hanno dimostrato che il computer da un lato può favorire la distrazione, dall’altro che prendere appunti alla tastiera, annotando parola per parola, può dare risultati diversi nell’apprendimento.
Arriviamo così al cuore del problema. I media digitali sono espressione (e supporto) di un’organizzazione sociale basata sulla velocità, anzi, sull’accelerazione. Da questo punto di vista essi non rappresentano il vero problema: è la logica dell’accelerazione che occorre disinnescare. E tuttavia, come il caso della scrittura digitale dimostra, a lungo andare leggere e scrivere digitale finisce per comportare delle modificazioni nel nostro modo di costruire e decostruire i significati.
Chiudere i media digitali fuori dalle classi, come la Francia di Macron ha fatto, credo non serva.
Occorre piuttosto chiedersi come sia possibile, all’epoca dei pensieri veloci, continuare a coltivare anche l’attitudine al pensiero lento. Il nuovo non comporta il sacrificio del vecchio: la sfida è farli coesistere. La Wolf dice che è come insegnare due lingue straniere a un bambino piccolo: educare il cervello bilingue è la sfida di oggi e di domani.
*Professore di Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento Università Cattolica di Milano.

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