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venerdì 20 giugno 2025

DIFESA o SUICIDIO ?

 


*L’attacco all’Iran


 difesa o suicidio 


della democrazia?



-di  Giuseppe Savagnone  - 

 Il duplice obiettivo della guerra di Israele

L’attacco di Israele nei confronti dell’Iran è stato considerato da tutti i governi occidentali e dalla grande maggioranza dell’opinione pubblica e della stampa un prezzo necessario per la difesa – non solo dello Stato ebraico, ma delle nostre democrazie – dalla imminente minaccia atomica di un regime autoritario e terrorista.

Da qui reazioni che vanno dai toni più estremi della nostra stampa di destra – «Finalmente! L’Iran delle belve sta per cadere», («Libero»), – a quelli crudamente realistici del cancelliere tedesco Mertz, che ha definito l’operazione militare «il lavoro sporco che Israele fa per tutti noi».

In realtà, fin dall’inizio, all’obiettivo di fermare il programma nucleare dell’Iran Netanyahu ne ha collegato un altro, quello della caduta del governo degli ayatollah e del cambio di regime (regime change), rivolgendo un appello in questo senso al popolo iraniano.

Si spiegano così, oltre il bombardamento dei siti nucleari, la strategia di sistematica decapitazione dei vertici politici e militari di Teheran e le parole minacciose e sprezzanti del ministro della Difesa israeliano Israel Katz nei confronti del presidente iraniano Khamenei: «Avverto il dittatore iraniano: chiunque segua le orme di Saddam Hussein finirà come Saddam Hussein». Un riferimento all’impiccagione del capo dello Stato iracheno, dopo la sua sconfitta nella guerra del Golfo del 2003, che va certo molto al di là dell’obiettivo limitato della pura e semplice neutralizzazione dell’arma atomica, aprendo piuttosto gli scenari di una guerra totale.

Su questa linea, anche il presidente Trump ha rivolto a Teheran la sua richiesta, che non è stata di trattare sul nucleare ma, come ha scritto il capo della Casa Bianca a lettere cubitali sul suo sito, la «Resa incondizionata». E suonano altrettanto violente di quelle di Katz le sue parole riguardo a Khamenei: «Sappiamo esattamente dove si nasconde il cosiddetto “Leader Supremo”» – ha scritto sui social -. «È un bersaglio facile, ma lì è al sicuro. Non lo elimineremo, almeno non per ora. Ma (…) la nostra pazienza sta finendo».

Diversa la posizione dell’Unione Europea che, pur aderendo senza riserve alla guerra di Israele, ha espressamente preso le distanze dal progetto del regime change, sottolineando piuttosto la necessità di una de-escalation che porti di nuovo l’attuale governo iraniano al tavolo dei negoziati con gli USA. «Qualsiasi tentativo di cambiare il regime porterebbe al caos», ha avvertito il presidente francese Macron.

L’Iran agli antipodi delle democrazie occidentali

Non che il regime iraniano sia visto, in Occidente, di buon occhio. Su di esso gravano le fondate accuse di dissidenti interni e osservatori esterni, che da tempo ormai denunziano la sistematica repressione delle libertà civili e politiche, con particolare riferimento alle limitazioni imposte alle donne, sulla base di una applicazione rigida della legge islamica.

Siamo davanti a un fanatismo religioso che mescola senza distinzione le prescrizioni del Corano e le regole della convivenza civile e che sta all’origine stessa dell’assetto attuale dell’Iran, nato da una rivolta, nel 1979, contro il governo laico dello Scià, culminata con l’ascesa al potere dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, di cui l’attuale presidente è il successore.

Siamo lontanissimi dalla distinzione tra Stato e Chiesa a cui, pur senza rispettarla sempre di fatto, si è comunque ispirato, in linea di principio, la civiltà occidentale, alle cui radici spirituali non c’è un fondatore al tempo stesso religioso e politico, guida spirituale e condottiero di eserciti, come Mohamad, ma la figura di quel profeta disarmato che è stato Gesù.

Da qui la difficoltà di reciproca comprensione tra i paesi più fortemente legati alla loro matrice religiosa islamica – in realtà non solo l’Iran, ma anche un fedele alleato dell’Occidente come l’Arabia Saudita – e quelli eredi della tradizione cristiana, peraltro ormai, a sua volta, largamente secolarizzata. Da qui anche la critica a quella che, nella prospettiva occidentale, appare una chiara violazione dei diritti umani.

Si aggiunga a questa divergenza di fondo il fatto che l’Iran è l’ispiratore e il finanziatore di gruppi islamici estremisti come Hezbollah e Hamas e sta dietro atti terroristici contro Israele e contro l’Occidente. A questo titolo rientra nella lista degli “Stati-canaglia” stilato dal governo americano. Quanto basta a spiegare la soddisfazione con cui molti governi hanno accolto l’attacco di Tel Aviv, pur senza aderire, come gli Stati Uniti, all’idea della guerra totale e del regime change.

L’Occidente alle prese con le sue contraddizioni

Eppure, già a questo livello minimale, il conflitto esploso in questi giorni li ha spiazzati e costretti a significative modifiche del loro linguaggio e del loro atteggiamento.

Si pensi al principio, solennemente enunciato e ripetuto ad ogni occasione – prima per la guerra in Ucraina, poi per quella di Gaza – , secondo cui “non possibile mettere sullo stesso piano l’aggressore e l’aggredito”. È stato in forza di questo mantra indiscutibile che l’Occidente ha sostenuto compatto (fino all’avvento di Trump) l’impostazione data da Zelenskij alla guerra con la Russia, escludente a priori ogni negoziato fin quando l’aggressore non si fosse ritirato.

Ed è stato ancora più nettamente questo il principio che ha giustificato il pieno appoggio a Israele, per un anno e mezzo, chiudendo gli occhi sui metodi dell’esercito di Tel Aviv, in nome dello slogan “Israele ha il diritto di difendersi” e della giustificazione “Non sono stati loro a cominciare”.

Ogni tentativo, anche da parte di autorevoli personalità, come il segretario generale dell’ONU, Guterres, di far notare che nella complessità del corso degli eventi il confine tra l’aggressore e l’aggredito non è così netto, e che bisogna tenere conto anche del contesto, ha suscitato fino ad ora reazioni indignate da parte di politici e opinionisti infervorati nella difesa “a priori” dell’aggredito.

L’attacco di Israele all’Iran ha costretto, su questo punto, a cambiare precipitosamente linea. In questo caso, è diventato essenziale, per giustificare l’appoggio a questa aggressione, il richiamo al contesto e guardare a ciò che è accaduto prima del 13 giugno e che ne chiarisce il significato. Solo che, se si adotta questo criterio, bisogna retroattivamente dar ragione a Guterres, quando, nel suo discorso all’ONU del 24 ottobre 2023, dopo aver deprecato la ferocia del massacro del 7 ottobre, aveva fatto presente che «gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione».

E avrebbe anche potuto ricordare il dramma della Nakba, l’espulsione di almeno 300.000 palestinesi (secondo la stima moderata dello storico ebreo israeliano Ben Morris) dalle loro terre. Ma già è bastato questo accenno al contesto per far infuriare il rappresentante israeliano e indignare gli opinionisti di tutto l’Occidente («Un’enormità», aveva definito le sue parole il nostro Paolo Mieli). E il 7 ottobre è diventato l’inizio di tutto, mentre il 13 giugno va considerato “nel suo contesto”.
Anche la condanna unanime e indiscussa del terrorismo, come azione violenta contro singoli, anche civili, senza alcuna legittimazione giuridica, entra in crisi.

Nell’attacco all’Iran il Mossad ha ucciso, oltre a capi militari e politici, anche 14 scienziati – fisici e ingegneri – con attentati che li hanno fatti saltare in aria insieme alle loro famiglie. Cosa penseremmo se dei servizi segreti stranieri facesse questo nei confronti degli scienziati – ma anche dei politici e dei capi militari – responsabili solo di lavorare al servizio del nostro paese? Uccidendo anche le loro mogli e i loro figli innocenti? Probabilmente è anche a questo che si riferisce il cancelliere tedesco quando parla di un «lavoro sporco che Israele fa per tutti noi». Ma saremo ancora noi stessi avallando il terrorismo che giustamente condanniamo quando ne sono responsabili gli altri?

Ma c’era davvero la minaccia?

Il fatto è – si è risposto finora – che la minaccia atomica iraniana è un pericolo così grave, per Israele e per tutti, da giustificare anche questi compromessi. Ma esiste davvero questa minaccia? La domanda potrebbe sembrare provocatoria, se non fosse posta, in questi giorni, dal «New York Times» e dalla CNN, che, a proposito della possibile entrata in guerra degli Stati Uniti, hanno evocato lo spettro della guerra del Golfo del 2003, scatenata da George Bush jr sulla base di false prove che l’Iraq disponeva di «armi di distruzione di massa».

Richiamando quella bufala, i giornalisti americani riferiscono che nel mese di marzo la direttrice dell’Intelligence nazionale nominata dallo stesso Trump, Tulsi Gabbard, ha testimoniato davanti al Congresso che, secondo la comunità di intelligence statunitense, l’Iran non sta affatto costruendo un’arma nucleare.

Gabbard ha a questo proposito sottolineato che, secondo le informazioni raccolte dagli 007 americani, «la Guida Suprema Khamenei non ha autorizzato la ripresa di un programma di armi nucleari, sospeso nel 2003».

Da parte sua, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), che aveva pubblicato il 12 giugno un rapporto nel quale dichiarava che l’Iran «ha violato i propri obblighi di fornire all’AIEA una cooperazione completa e tempestiva in merito al materiale nucleare non dichiarato e alle attività in più siti non dichiarati in Iran», ha precisato ora, per bocca del suo direttore Rafael Grossi, che questo non implicava un riferimento alla costruzione di una bomba: «Non avevamo alcuna prova di uno sforzo sistematico (dell’Iran) per arrivare a dotarsi di un’arma nucleare».

Chiamati a una scelta

E allora? In base a che cosa tutto questo sta accadendo, con i suoi immensi costi umani, morali, politici, economici? La risposta è semplice: in base alla parola di Netanyahu, il solo rimasto a garantire che l’Iran è sul punto di dotarsi di un’arma nucleare.

Solo che, se si crede a Netanyahu, in questi diciotto mesi l’esercito israeliano ha rigorosamente rispettato i diritti umani dei palestinesi, sia a Gaza che in Cisgiordania, e le denunzie rivolte non solo dalla Corte Penale Internazionale, ma ormai anche da governi che pure sono alleati di Israele, sono il frutto di una indegna “crociata antisemita”.

È difficile, a questo punto, scacciare il sospetto che l’improvviso attacco di Israele all’Iran, più che alla minaccia nucleare, sia stato deciso per stornare l’attenzione internazionale dalle violenze quotidiane sempre più gratuite e inaccettabili contro l’innocente popolazione palestinese, ricompattando in difesa dello Stato ebraico i governi che, come quello inglese, stavano ormai cominciando a varare sanzioni nei confronti dei ministri ultra-ortodossi di Tel Aviv.

Disegno, peraltro, coronato da successo, se è vero che i massacri a Gaza sono sempre più sanguinosi, ma l’opinione pubblica mondiale è polarizzata sulle «belve iraniane».

Quali che siano le colpe del regime di Teheran, in questo momento in gioco sono le nostre democrazie che le hanno sempre giustamente denunziate. Siamo noi, l’opinione pubblica e i governi occidentali, a dover decidere se seguire Israele in questa corsa verso il suicidio della democrazia – sempre più sganciata dai valori di verità e di giustizia che la rendono tale – , oppure avere il coraggio di prenderne le distanze e dire, con forza, il nostro «basta!».

 www.tuttavia.eu

 Foto di Moslem Danesh su Unsplash


 

 

venerdì 31 maggio 2024

ESCALATION !


COME AIUTARE L'UCRAINA 

A DIFENDERSI?

 

-        -  di Giuseppe Savagnone*

 

Truppe europee in Ucraina?

All’inizio di aprile il premier polacco Donald Tusk, in una intervista, aveva ammonito: «Non voglio spaventare nessuno, ma la guerra non è più un concetto del passato» e che, per la prima volta dal 1945, con gli ultimi sviluppi della crisi ucraina, «ogni scenario è possibile». 

Sono trascorse poche settimane da quella dichiarazione, e il corso degli eventi sta confermando, con il succedersi rapidissimo di sviluppi fino a poco tempo fa impensabili, il suo carattere profetico.

È stato l’andamento stesso delle operazioni militari, nettamente sfavorevole agli ucraini, a determinare questi “balzi in avanti”. Per contenere l’avanzata delle truppe di Putin gli occidentali stanno tentando disperatamente di aumentare e accelerare la fornitura di armi a Kiev, ma è forte il dubbio che questo non sia sufficiente, anche tenendo conto della superiorità numerica dell’esercito russo e dell’assottigliarsi delle risorse umane ucraine.

E così il presidente francese Macron, ai primi maggio, in un’intervista a «The Economist», riprendendo una ipotesi già avanzata a febbraio circa l’opportunità di inviare truppe europee sul terreno di guerra, ha dichiarato: «Se i russi sfondassero in prima linea, se ci fosse una richiesta ucraina – cosa che oggi non avviene – dovremmo legittimamente porci la domanda». Anche questa volta, come già alla sua prima uscita, questa apertura a un coinvolgimento diretto degli europei nella guerra in corso è stata accolta da un coro unanime di dissensi. Ma adesso meno convinti e risoluti.

Sono cominciati ad affiorare i primi “distinguo”. Fornire truppe europee a Kiev, si osservava in un articolo di «Foreign Affairs,», non significa necessariamente utilizzarle per combattere al fronte. I soldati inviati dall’Europa potrebbero addestrare le unità dell’esercito ucraino, assisterle nell’uso e nella riparazione delle armi fornite dall’Occidente, curare gli aspetti logistici…

In questa logica, la Francia si prepara già ad inviare degli istruttori militari e, secondo un’accreditata fonte diplomatica, ne darà l’annuncio ufficiale entro «una, massimo due settimane», probabilmente in coincidenza con la partecipazione  – fortemente simbolica –  del presidente ucraino Volodymyr Zelensky alle celebrazioni dello sbarco in Normandia, che si svolgeranno il 6 giugno prossimo. Già forme di addestramento di militari di Kiev si sono svolte in vari Stati occidentali.

Ma ora «gli ucraini vogliono che l’addestramento sia fatto sul loro territorio, risolverebbe molti problemi logistici e per molti alleati questo ha senso». La fonte sottolinea che all’iniziativa si assoceranno «altri paesi». E commenta: «Il tabù è stato infranto».

La caduta del secondo tabù: colpire la Russia

Ma anche un secondo tabù vacilla, anzi sembra sul punto di cadere. Qualche giorno fa il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha esortato gli Stati dell’Alleanza atlantica a riconsiderare i limiti all’invio di alcune armi all’Ucraina.

È giunto il tempo per i Paesi membri della NATO di considerare se debbano revocare alcune delle restrizioni all’uso delle armi che hanno donato all’Ucraina», detto Stoltenberg in un’intervista a «The Economist». «Negare all’Ucraina la possibilità di usare queste armi contro obiettivi militari legittimi nel territorio russo rende loro difficile difendersi».

Sottolineando che questa eventuale decisione spetta comunque ai singoli membri della NATO. Infatti, alcuni di essi, tra cui l’Italia, sono stati fino a questo momento riluttanti nel fornire a Kiev armi più potenti e a più lunga gittata, che trasformerebbero la difesa dell’Ucraina in un attacco alla Russia.

Anche questa dichiarazione in un primo momento è stata accolta con forti riserve, anzi in qualche caso con irritazione. Da molti è stato fatto notare che il segretario generale della NATO, per la natura del suo incarico, dovrebbe astenersi da suggerimenti e valutazioni personali circa le decisioni che dovrebbero assumere i governi e i parlamenti legittimi degli stati membri.

Qualcuno, come il vicepremier italiano Salvini, ne ha chiesto addirittura le dimissioni. E l’altro vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani si pronunziato con chiarezza in senso contrario: «Siamo parte integrante della NATO, ma ogni decisione deve essere presa in maniera collegiale. Lavoriamo per la pace. Non manderemo un militare italiano e gli strumenti militari mandati dall’Italia vengono usati all’interno dell’Ucraina».

Non è mancato qualche riferimento alla tendenza di Stoltenberg alle gaffe, come quando ha ammesso che la NATO addestra e arma gli ucraini per combattere i russi fin dal 2014 o quando ha affermato che l’Alleanza Atlantica aveva respinto nel dicembre 2021 la proposta russa per evitare la guerra in Ucraina, proponendo un trattato di sicurezza che stabilisse la neutralità di Kiev e lo stop all’ampliamento a est della NATO.

Verità scomode, per chi sostiene, come lo stesso Stoltenberg, che la guerra non ha alternative e su cui l’interessato avrebbe certamente fatto meglio a stare zitto. Questa sarebbe, dunque, solo l’ultima di una serie.

Via via, però, le parole del segretario generale della NATO, invece di essere liquidate come un’uscita fuori luogo, hanno ricevuto sempre maggiore attenzione. Il presidente Macron, in una conferenza stampa congiunta con il cancelliere tedesco Olaf Scholz, si è espresso a favore di questa linea e anche le parole del cancelliere tedesco Olaf Scholz sono state giudicate come un’apertura.

Fermo restando che obiettivi degli attacchi sarebbero soltanto strutture militari, «dovrebbe essere possibile colpire questi luoghi in modo circoscritto. E non credo che questo porti una escalation», ha detto il presidente francese, assicurando che «non si colpiranno altri luoghi, né obiettivi civili». 

In realtà già il Regno Unito ha permesso all’Ucraina di utilizzare i missili a lungo raggio Storm Shadow, che le fornisce, per colpire la Russia sul suo territorio. E il  vice ministro della Difesa polacco ha dichiarato che «non ci sono restrizioni sulle armi polacche fornite all’Ucraina».

Secondo il «Washington Post» anche il presidente americano Joe Biden starebbe prendendo in considerazione l’idea di revocare i limiti all’uso delle armi a corto raggio statunitensi.

«La nostra politica non cambia: non vogliamo attacchi all’interno del territorio russo da parte dell’Ucraina», aveva detto pochi giorni fa il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale americana, John Kirby. Ora invece alla Casa Bianca si sta valutando la possibilità di una svolta.

Da parte sua, il presidente russo Vladimir Putin ha minacciato l’Europa di «gravi conseguenze» se i paesi della NATO permetteranno all’Ucraina di utilizzare gli armamenti occidentali contro obiettivi in territorio russo.

Così come l’invio di truppe occidentali sul terreno in Ucraina porterebbe a un’ulteriore escalation e a «un altro passo verso un grave conflitto in Europa e a un conflitto globale». Tali truppe, infatti, ha aggiunto il premier russo, «si troverebbero nella zona di tiro delle nostre forze armate. Vogliono fare così? Possono andare e auguriamo loro buona fortuna».

La conferenza di pace di Lucerna

Il paradosso, in questa escalation, è che essa si svolge all’insegna della ricerca della pace. Putin dice di volerla, mentre però le sue truppe avanzano ogni giorno. Da parte loro, anche i governi aderenti alla Nato ritengono di stare operando per arrivare a una soluzione pacifica, ricordando il classico detto «si vis pacem, para bellum», “se vuoi la pace, preparati alla guerra”. 

Proprio Stoltenberg, in una conferenza stampa a Sofia, ha puntualizzato che gli unici obiettivi dell’Alleanza Atlantica «sono sostenere l’Ucraina e prevenire l’escalation del conflitto».

Sembrerebbe una conferma di questa volontà il fatto che la Svizzera, su richiesta di Zelensky, abbia indetto una grande conferenza di pace sull’Ucraina, che si terrà a Lucerna dal 15 al 16 giugno, invitando più di 160 delegazioni di tutto il mondo. Saranno presenti anche i capi del Consiglio d’Europa, del Consiglio europeo e della Commissione europea.

Ciò potrebbe apparire rassicurante e aprire davvero prospettive sul futuro, se non fosse per il particolare che l’invito non è stato esteso alla Russia. Che non a caso – e forse almeno su questo punto con qualche ragione – ha commentato: «Negoziati di pace senza di noi non hanno senso». ciò che il Leader ucraino si aspetta da questo incontro è l’assenso di principio di un certo numero di paesi al suo piano di pace, in vista di una seconda conferenza alla quale “ammettere” Mosca. «Ai leader mondiali dico: se desiderate la pace venite in Svizzera», ha detto Zelensky. .

In questa logica il premier ucraino ha nuovamente respinto, pochi giorni fa, l’idea di invitare la Russia al vertice di Lucerna, perché «bloccherebbe ogni tentativo di pace”» dal momento che Mosca «non ha interesse alla pace».

Che dire di questo quadro? Putin è un dittatore senza scrupoli, pericolosamente chiuso in un suo autoreferenziale progetto di ricostituzione dell’impero russo, per riportarlo ai confini dell’ex Unione Sovietica.

Non sono perciò infondati i timori di chi prevede – come i paesi baltici, particolarmente allarmati e pronti a questa eventualità – che un suo successo in Ucraina possa aprire le porte a ulteriori aggressioni e respinge ogni forma di negoziato, rievocando la Conferenza di Monaco del 1938, in cui la cedevolezza dei governi democratici nei confronti delle pretese di Hitler creò le premesse la seconda guerra mondiale.

Tutto ciò evidenzia sicuramente la necessità di tenere gli occhi bene aperti, e di seguire una linea di fermezza nei confronti dell’aggressore russo. Non può non allarmare, però, la tendenza dei paesi della NATO – fin dall’inizio ipnotizzati da Zelensky e dal suo entusiasmo guerriero – a concepire la pace unicamente come il risultato della sconfitta, diplomatica, economica e militare, della Russia. Questo ha sicuramente contribuito, simmetricamente all’aggressività di Putin, a rendere impossibile ogni forma di dialogo. Significativa l’impostazione – voluto dal premier ucraino e accettata dall’Occidente – della prossima conferenza di pace di Lucerna. Non è così che si costruisce la pace.

In questo modo la guerra diventa l’unica soluzione. Così, il motto «si vis pacem, para bellum», tante volte citato dai paesi della NATO, si sta trasformando rapidamente in uno molto diverso: «si vis pace, fac bellum», “se vuoi la pace, fai la guerra”. E l’escalation in atto ci avverte che la prospettiva di un conflitto mondiale, catastrofico per tutti, vincitori e vinti, si sta avvicinando ogni giorno  di più a velocità vertiginosa.

 

*Scrittore ed editorialista – Pastorale della Cultura Arcidiocesi di Palermo

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domenica 25 febbraio 2024

UCRAINA DUE ANNI DOPO


UNA GUERRA SENZA FINE


Il 24 febbraio 2022, il presidente russo Putin ordinava − non provocato − l’aggressione militare dell’Ucraina, invadendo con il suo esercito il territorio di un paese sovrano. Due anni dopo, Severino Dianich riflette su questa tragica guerra ancora aperta nel cuore dell’Europa.

- di Severino Dianich

 L’8 marzo del 2022, tredici giorni dopo che la Russia aveva invaso l’Ucraina, dopo averne già occupata la Crimea, un cittadino qualsiasi, non un esperto di strategie militari, non uno storico delle relazioni Russia-Ucraina, non un competente in geopolitica, ma un semplice osservatore dei fatti accaduti negli ultimi otto decenni, che ama conservarne la memoria e rifletterci, postava in rete una sua considerazione (Il Sismografo 8 marzo 2022).

 Il diritto di difendersi

«Chi potrebbe negare – scriveva – a un popolo aggredito il diritto di difendersi anche con le armi? Eppure, non posso evitare di domandarmi: quando? sempre? a quali costi? con quali previsioni?». Diceva, quindi, di essere andato a leggersi il Catechismo della Chiesa cattolica e di aver rilevato che, per la dottrina cattolica, neppure la guerra di difesa poteva essere ritenuta giusta a qualsiasi condizione. Fra queste, se ne poneva una che, a dire il vero, è nient’altro che puro buon senso, cioè «che ci siano fondate condizioni di successo» (n. 2309).

«L’Ucraina aggredita ha davvero davanti a sé “fondate condizioni di successo”?… Al di là delle propagandistiche proclamazioni della propria futura vittoria da ambedue le parti, è ben difficile pensare che l’esercito ucraino possa prevalere sull’enorme potenza militare della Russia. Stati Uniti e Comunità Europea stanno fornendo di armi l’Ucraina, contribuendo a prolungare il conflitto e aumentare il numero dei morti, da ambedue le parti, ma con non pochi dubbi sull’esito della guerra».

 Sarà ancora lunga

Ora, a due anni dall’inizio della guerra, si comincia a temere che l’incompetente cittadino qualsiasi possa aver avuto ragione sulla politica dei governanti e l’arte degli strateghi di tutti e due i fronti, convinti (o forse solo impegnati a convincere) che avrebbero vinto la loro guerra in un tempo ragionevolmente breve.

 Si vadano a risentire le loro dichiarazioni rese ai media e i discorsi pubblici di quei primi mesi. Mi si risvegliano brutti ricordi di quando il Duce ci faceva cantare «Vincere, vincere, vincere, e vinceremo in cielo, in terra, in mare!», mentre l’Italia stava andando allo sfacelo.

 Ci si continua a dire, senza pudore, perché abbiamo ad armarci di una fiducia incrollabile di una vittoria, sempre più lontana, che la guerra sarà ancora lunga. Quanto? Un anno? Due anni? Tre anni? E quanti ragazzi ucraini dovranno ancora lasciare il lavoro, gli studi, la fidanzata, la famiglia per andare al fronte, abbandonando tutti gli altri loro sogni, pronti ad immolarsi per la patria?

 Domandare dei ragazzi russi non si può, perché significa essere pro-Putin. Per ora, la conclamata controffensiva ucraina è fallita. La guerra si svolge in una logorante e drammatica alternativa: ora ha la meglio una parte ora l’altra.

 A tempi lunghi, sta accadendo quello che, osservando come stanno andando tutte le guerre di questi ultimi decenni, era facile prevedere: una guerra di stallo di cui non si vede la fine. Quel che bisogna indovinare, ma che viene accuratamente nascosto da ambedue le parti, è proprio il dato che dovrebbe essere decisivo, sia per chi decide il da fare, sia per l’opinione pubblica che vorrebbe potersi fare un giudizio corretto, è il prezzo che si sta pagando, il numero dei morti.

 Vatican News, in un lungo, ben articolato e documentato articolo sulla situazione di Guglielmo Gallone, dà come seriamente credibile un totale di soldati, fra ucraini e russi, morti o feriti di circa 500.000 morti. Già che si dica «circa» e non si abbia il numero esatto delle vittime, come se uno più uno meno non cambiasse nulla, è di una vergognosa immoralità. Le vittime militari russe sarebbero quasi 300.000 (120.000 morti e 170.000 feriti), mentre quelle ucraine si aggirano intorno ai 70.000 morti e ai 120.000 feriti.

 Il martirio di un popolo

Quel che impressiona maggiormente, però, è la sproporzione fra il bacino di risorse umane utilizzabile dalle due parti, cioè il numero delle vittime da sacrificare sull’altare della patria di cui i due governi possono disporre nel continuare la guerra: Kiev conta circa 500.000 soldati, tra truppe in servizio attivo, di riserva e paramilitari, Mosca ne vanta 1.330.000.

 Che l’Ucraina possa continuare a oltranza la sua guerra di difesa, per più che legittima essa sia, di fronte all’esecrabile invasione della Russia, sembra impossibile.

 Così l’affollarsi delle domande conduce inesorabilmente al loro annodarsi intorno alla questione fondamentale, che sorge là dove nella guerra si giocano i valori fondamentali della coscienza dell’uomo: ha un senso plausibile condurre un popolo a immolarsi per la pura proclamazione dei valori della libertà e della democrazia?

 Il cristianesimo conosce ed esalta il martirio: dare la vita per l’adorazione di Dio. Vera e propria immolazione, pura dossologia, priva di effetti concreti a salvaguardia della fede. Ma davanti a Dio, il creatore e il custode supremo della dignità dell’uomo. Il martirio, inoltre, è una scelta della persona che si compie nel profondo della propria coscienza. È un’esperienza della persona, non dei popoli.

 Il martirio per la Patria è stato costruito sulla sacralizzazione della nazione e dei suoi valori e solo nell’esasperazione di questi valori provocata dai nazionalismi esasperati che abbiamo ben conosciuto si sono consacrati altari alla Patria sui quali si sono condotte all’immolazione fosse di martiri.

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sabato 11 novembre 2023

LOGICHE SPIETATE

 


I problemi creati 

dalla durezza

 di Israele


-         di Giuseppe Savagnone*

 

A distanza di poco più di un mese dall’inizio della crisi palestinese, emergono alcuni nodi inquietanti, destinati probabilmente a pesare nel futuro, anche quando lo scontro sul campo sarà finito.

 Il primo di questi nodi nasce dalle modalità della reazione dello Stato ebraico che, da vittima di un’atroce violenza – e perciò oggetto di solidarietà incondizionata (agli occhi, almeno, del mondo occidentale) – , lo hanno progressivamente fatto apparire, a gran parte dell’opinione pubblica dello stesso Occidente, un perfetto corrispettivo, opposto e simmetrico, dei suoi aggressori. Significativo, a questo proposito, il titolo di prima pagina di un quotidiano italiano: «Scatta l’antiterrorismo. Somiglia molto al terrorismo».

 La stessa cieca spietatezza. Lo stesso assoluto disprezzo per i civili e per le leggi internazionali che li proteggono. Con il blocco delle forniture vitali di acqua elettricità e medicine a due milioni e mezzo di persone, la perentoria ingiunzione a quasi metà di esse (più di un milione!) di sgombrare entro 24 ore le loro case, le terre, i luoghi di lavoro, e di trasferirsi “altrove”, i micidiali bombardamenti indiscriminati che hanno distrutto abitazioni civili, ospedali, scuole, chiese, e ucciso diecimila civili, di cui quasi la metà donne e bambini.

 Più che di una operazione volta a prevenire, in una logica difensiva, altri attacchi, quella israeliana ha dato così l’impressione di essere una vendetta. E non nella forma dell ’“occhio per occhio, dente per dente”, ma in quella, più arcaica, della vendetta senza misura di cui parla la Bibbia, mettendo in bocca a Lamech, discendente di Caino (non a caso!), una dichiarazione che è al tempo stesso un programma: «Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette» (Genesi, 4, 23-24).

La legge del taglione

 La legge del taglione, pur nella sua brutalità, si affermerà più tardi nelle antiche legislazioni proprio per limitare questa smisuratezza incontrollabile, consentendo all’offeso di replicare solo nei limiti del danno ricevuto.

 La risposta di Israele, più che questa logica, ricorda quella di Lamech. Tanto più sproporzionata, se si pensa che, secondo lo stesso governo israeliano, il responsabile da punire è Hamas e non la popolazione palestinese, la quale ne sarebbe solo ostaggio.

 Da parte loro, i governi occidentali, primo fra tutti quello degli Stati Uniti, hanno rifiutato di parlare di “vendetta” e all’inizio hanno cercato di giustificare questa reazione appellandosi al “diritto d’Israele di difendersi”. In questa logica, hanno mostrato grande tolleranza per i “danni collaterali” che questo diritto poteva comportare, limitandosi a generiche raccomandazioni al rispetto dei diritti umani e delle leggi internazionali di guerra, anche se era evidente che entrambi venivano ampiamente violati dalla reazione israeliana.

 Quando però è stato sempre più chiaro che il governo di Netaniahu non intendeva neppure minimamente attenuare la sua azione devastatrice, il segretario generale dell’ONU, Guterres, è intervenuto ufficialmente per ricordare la necessità del rispetto del diritto internazionale e chiedere un “cessate il fuoco” che risparmiasse la vita dei civili.

 La reazione dello Stato ebraico è stata durissima e si è tradotta addirittura in un rifiuto di concedere il visto d’ingresso ai rappresentanti delle Nazioni Unite.

 A questo punto anche il presidente Biden – sollecitato probabilmente anche dal vasto movimento di protesta che si è sviluppato in tutto il mondo occidentale, e anche negli Stati Uniti, in difesa del popolo palestinese – ha ritenuto di dover intervenire più decisamente, pressando il governo israeliano perché fossero concesse almeno delle “pause umanitarie”.

 Ricevendo un secco rifiuto dal premier Netaniahu, che solo dopo infinite umilianti insistenze sia del presidente americano sia del suo inviato Blinken ha fatto qualche concessione, ma comunque in misura minima rispetto alla richiesta. Un clamoroso “sgarbo” di Israele al suo più fido e importante alleato, che non sarà presto dimenticato.

 È evidente che tutto ciò sta sparigliando le carte. Gli Stati Uniti si stanno trovando in grande difficoltà, stretti fra la presa di distanze del mondo islamico – anche di quello moderato e perfino di un paese aderente alla NATO, come la Turchia – che rimprovera loro la copertura politica, economica e militare da sempre data ad Israele e fortemente confermata anche in questa circostanza, e l’inedita, ostinata chiusura del governo israeliano.

 L’America in questa circostanza sta vedendo compromessa la sua immagine di potenza egemone e la sua linea politica appare debole e incerta. Anche perché il presidente Biden si trova davanti alla poco rosea situazione di dover scegliere, a un anno dalle elezioni, tra le lobbies ebraiche, il cui appoggio dipende dall’appoggio ad Israele, e il suo elettorato, soprattutto giovanile, che lo contesta per questo appoggio.

 Ed anche Israele viene a trovarsi sempre più isolato, non soltanto, come in passato, rispetto al Sud del mondo e all’Islam, bensì anche, in una certa misura, di fronte agli Stati occidentali suoi tradizionali sostenitori, che continuano a ripetere di considerarlo la vittima di un’aggressione e un avamposto avanzato della democrazia, ma non possono evitare, di riconoscere, con crescente imbarazzo, che la continuazione del massacro sistematico di civili a cui stiamo assistendo non può più essere accettato.

 La riapertura della questione dell’intera Palestina

Ma a dividere Israele dal suo più tradizionale e fedele alleato americano non è solo la durezza spietata della reazione militare. La crisi in atto ha riproposto anche la questione, che era stata rimossa da tempo, della sistemazione politica definitiva dell’intera regione. E qui è impossibile ignorare la risoluzione dell’ONU del 1947, in cui si prevedeva la creazione di uno Stato ebraico – che è nato – e di uno palestinese, che invece non ha mai visto la luce.

 Il problema è che in realtà né israeliani né palestinesi hanno mai accettato questa prospettiva. Entrambi vogliono tutto il territorio per sé. Con la differenza che Israele ha avuto la forza militare per avvicinarsi sempre di più a questo obiettivo, mentre l’esplicito rifiuto dei palestinesi di accettare di formare un loro Stato sui territori assegnati dall’ONU ha prodotto come solo risultato la loro progressiva espulsione anche da gran parte di questi, ormai occupati dagli israeliani.

 Una espulsione che si è venuta attuando sia attraverso le campagne militari, sia con il moltiplicarsi di nuovi insediamenti israeliani sulle terre della Cisgiordania che avrebbero dovuto essere in prospettiva parte del nuovo Stato palestinese. Proprio alla vigilia del 7 ottobre ne era stato varato un altro, suscitando questa volta anche le resistenze (peraltro inascoltate) degli Stati Uniti.

 Per non parlare dello status di Gerusalemme, che l’ONU prevedeva fosse – come luogo santo di tutte e tre le grandi religioni abramitiche – una città internazionale, e che invece Israele, nel 1980, forte dei suoi successi militari, ha proclamato unilateralmente sua capitale, con una decisione che l’ONU ha dichiarato illegittima, e che ha avuto il riconoscimento di pochi governi, tra cui però gli Stati Uniti, che hanno trasferito là la loro ambasciata,

 A guerra finita, riuscirà mai Washington, finora così cedevole nei confronti del governo israeliano, a convincerlo a rinunziare a una parte del suo territorio attuale, per consentire la formazione di uno Stato palestinese?

 E quale sarà, eventualmente, ci riuscisse, la reazione dei ben settecentomila coloni israeliani che in questi anni, col beneplacito del governo (e dell’Occidente) si sono stanziati illegalmente su quel territorio, sottraendolo ai loro legittimi abitanti?

 E che ne sarà di Gerusalemme, che da più di quarant’anni Israele considera sua capitale, ma dove anche i palestinesi abitano, e a cui l’Islam attribuisce altrettanto valore religioso degli ebrei e dei cristiani?

 Il futuro di Gaza

Un terzo nodo – collegato al secondo e anch’esso relativo al rapporto fra Israele e Stati Uniti – è costituito dalla questione del futuro della Striscia di Gaza.

 Biden ha chiesto ad Abu Mazen, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania, di assumerne, a guerra finita, il governo, come parte del costituendo Stato palestinese. Netaniahu, da parte sua, sfidando apertamente Biden, ha replicato che gli israeliani non intendono lasciare più alcuna autonomia a Gaza e, anche senza occuparla direttamente, la terranno comunque sotto il loro controllo.

 Sta di fatto che, se riuscirà davvero a distruggere Hamas, sarà l’esercito israeliano a trovarsi sul territorio e a poterne disporre.

 Per di più, la proposta americana non tiene conto del fatto che oggi il (troppo) moderato e corrotto Abu Mazen è del tutto squalificato agli occhi dei palestinesi (anche di quelli che continua a governare in Cisgiordania), i quali vedono in Hamas l’unica alternativa all’emarginazione e alla sottomissione a cui li aveva ridotti Israele col sostegno degli Stati Uniti.

 E sicuramente lo sarebbe ancora di più se il presidente dell’Autorità palestinese entrasse a Gaza dopo essere stato complice della liquidazione di Hamas da parte degli israeliani e col sostegno degli americani.

 Un documento ufficioso e non confermato del governo israeliano ipotizza che gli abitanti attuali di Gaza si trasferiscano in Egitto, nel Sinai. E questo spigherebbe anche le recenti prove di espulsione da una parte della Striscia e le azioni volte a rendere loro impossibile la vita, costringendoli già adesso, in qualche modo, ad emigrare.

 Ma, a parte l’ovvia resistenza del governo del Cairo, che non intende addossarsi due milioni e mezzo di profughi, potrebbe la comunità internazionale accettare una soluzione che, pur non essendo un genocidio, sarebbe comunque un chiaro esempio di pulizia etnia?

 Nemmeno le acrobazie fate in queste settimane da governi e organi di stampa occidentali per minimizzare la gravità delle violenze verso il popolo palestinese – accusando chi le denunzia di dimenticare la strage del 7 ottobre, se non addirittura di essere antisemita – probabilmente sarebbero sufficienti a giustificare il silenzio in una ipotesi del genere.

 Resta comunque la difficoltà di trovare altre strade. Il compito non si può ancora una volta eludere. L’Occidente non può continuare a chiudere gli occhi, ora che sta raccogliendo gli amarissimi frutti di questo comportamento nei decenni passati. Anche se c’è il rischio che, passata l’attualità giornalistica, l’attenzione di governi e opinione pubblica torni a distrarsi, come è sempre avvenuto in passato, in attesa che un’altra crisi faccia altre migliaia di vittime innocenti e scuota di nuovo, per qualche settimana, la nostra indifferenza.

 www.tuttavia.eu

 *Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura della Diocesi di Palermo