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sabato 21 dicembre 2024

L'INUTILE STRAGE


Verso la fine di una «inutile strage»




-di  Giuseppe Savagnone 


Non sarà la guerra a portare la pace

«L’Ucraina attualmente non ha forze sufficienti per riconquistare il Donbass e la Crimea con mezzi militari. Possiamo contare solo sulla pressione diplomatica della comunità internazionale per costringere Putin a sedersi al tavolo delle trattative». Per la prima volta, il presidente ucraino Zelens’kyj ha riconosciuto che non sarà la vittoria in guerra a portare la pace.

Finora, nei suoi discorsi, il termine “pace” era stato sistematicamente sostituito da quella “vittoria”. La sola pace che egli dichiarava di volere era quella ottenuta sconfiggendo sul campo gli invasori russi.

Una posizione esattamente simmetrica a quella di Putin e non meno lontana da ogni apertura a qualsiasi trattativa. In coerenza con questa impostazione, il tanto atteso piano di pace che Zelens’kyj ha presentato nello scorso ottobre al parlamento di Kiev era intitolato «piano di vittoria».

Anche il “Convegno per la pace in Ucraina”, solennemente convocato in Svizzera il 16 e 17 giugno precedente, era stato fin dall’inizio concepito non come una prova di negoziato per mettere fine alle ostilità – la Russia non era stata neanche invitata – ma come una chiamata a raccolta dei sostenitori di Kiev in questa guerra. 

E in questi più di due anni di guerra la sola ripetuta, assillante richiesta del leader ucraino è stata quella di altre armi, a suo dire decisive per salvare non solo l’Ucraina, ma l’intero Occidente dall’aggressività di Mosca.

Richiamando spesso l’antico detto «si vis pacem para bellum», “se vuoi la pace prepara la guerra”, ma in una nuova e ben diversa versione: «Si vis pacem fac bellum», “se vuoi la pace fai la guerra”.

Una guerra per procura?

E su questa linea si sono accodati a Zelens’kyj, senza riserve, fin dall’inizio, tutti i leader occidentali, incalzati dalla foga oratoria e diplomatica del presidente ucraino, che ossessivamente li accusava di non fare abbastanza per sostenere il suo paese.

Così la NATO ha sempre più assunto il ruolo di protagonista diretto dello contro, tanto da far parlare di una “guerra per procura” combattuta dagli ucraini per conto terzi.

L’iniziale intento di difendere i diritti di un popolo aggredito e oggetto di violenze inaudite, evidenziate dalla terribile strage di Bucha, si è ben presto trasformato in quello di umiliare la Russia per farne – secondo le parole del presidente americano Biden – «un paria», isolandola «dal palcoscenico internazionale».

Da qui, lo stanziamento di cifre enormi per rispondere alle continue richieste di armamenti del leader ucraino. Per la UE, la von der Leyen ha parlato di una spesa di 130 miliardi di euro e, solo dal febbraio 2022 all’ottobre 2023, il Congresso degli Stati Uniti ha destinato 113 miliardi di dollari. Con il conseguente arricchimento di coloro che producono e commerciano armi.

Da qui, una serie impressionane di sanzioni economiche, pagate a caro prezzo soprattutto dall’Europa, il cui effetto inevitabile sarebbe stato – si ripeteva con sicurezza – di mettere in ginocchio in breve tempo l’economia russa.

Da qui, soprattutto, una demonizzazione della Russia che non ha precedenti, neppure in altri episodi di aggressioni unilaterali (niente di simile si era fatto contro gli Stati Uniti, quando nel 2003 avevano attaccato l’Iraq sulla base di prove riconosciute poi false). Il Comitato Olimpico Internazionale, in un comunicato – pur riconoscendo «la sua missione di contribuire alla pace attraverso lo sport e di unire il mondo in una competizione pacifica al di là di ogni disputa politica» –, in conseguenza di questa guerra raccomandò «vivamente» a tutte le federazioni mondiali di «non invitare atleti russi e bielorussi» nelle competizioni sportive internazionali.

Su questa direttiva si sono subito mossi gli organismi internazionali responsabili dei diversi tipi di sport. Il 1° marzo scorso era stata la Federazione internazionale di sci (FIS) a prendere una analoga decisione: «Per garantire la sicurezza e la protezione di tutti gli atleti nelle competizioni FIS, il Consiglio FIS ha deciso all’unanimità, in linea con la raccomandazione del CIO, che con effetto immediato nessun atleta russo o bielorusso potrà partecipare ad alcuna competizione FIS a qualsiasi livello, sino alla fine della stagione 2021-2022».

Il 3 marzo il Cda del Comitato paralimpico internazionale – sempre ribadendo con fermezza l’esigenza «che sport e politica non debbano mescolarsi» – decise che gli atleti di Russia e Bielorussia non avrebbero potuto partecipare alle imminenti Paralimpiadi invernali di Pechino.

In un primo momento si era ipotizzato che lo facessero da “neutrali”, senza essere inquadrati ufficialmente nelle squadre dei loro rispettivi Paesi, ma poi questa misura sembrò troppo blanda e si optò per una esclusione non solo delle squadre, ma dei singoli atleti in base alla loro nazionalità.

Dall’hockey su ghiaccio, al basket, fino alla dama: russi e bielorussi furono messi fuori da tutte le competizioni mondiali ed europee. Nella stessa logica, la Nazionale russa di calcio fu esclusa dai Mondiali e i club russi dai tornei internazionali. 

Perfino gli organizzatori del torneo di tennis di Wimbledon, il più antico del mondo, si ritennero obbligati, «con profondo rammarico», ad escludere dalla successiva edizione – per «limitare l’influenza della Russia» – tennisti famosi come Medvedev, allora numero due del mondo, e Andrej Rublëv, numero otto, che pure si erano pronunziati contro la guerra, ma erano irrimediabilmente russi.

Nei teatri occidentali furono boicottate rappresentazioni teatrali, spettacoli musicali, attori, registi, perché russi.  Niente di paragonabile a ciò che è poi accaduto davanti a quelli che la Corte penale internazionale» ha definito i «crimini di guerra» di Israele, condannando il suo premier Netanyahu come aveva condannato quello russo Putin.

La fine di un’illusione

Non sono un politologo e tanto meno un profeta, ma già allora – nell’aprile dal 2022 – ho pubblicato su «Tuttavia» un chiaroscuro dal titolo: «Non è così che si costruisce la pace». Sforzandomi di spiegare, in diversi chiaroscuri successivi, che demonizzare e isolare il nemico, nella convinzione così di ottenere la pace vincendo la guerra, si è sempre rivelata solo una tragica illusione.

Un’illusione che, nel caso dell’Ucraina, è stata pagata sulla loro pelle dalle centinaia di migliaia di giovani morti o feriti in quasi tre anni di accaniti quanto sterili combattimenti.  Gli sviluppi del conflitto hanno confermato questa facile previsione. L’economia russa non è crollata (mentre sono entrate in crisi quelle di Germania e Francia). Anzi il tentativo di chiuderla in un cordone sanitario ha avuto come effetto quello di rafforzare i legami della Russia con Brasile, India, Cina e Sudafrica (il Brics), a cui si stanno aggiungendo sempre nuovi paesi del Sud del mondo interessati al progetto di sostituire il dollaro come moneta degli scambi internazionali.

Ma è soprattutto sul campo che lo scenario è progressivamente peggiorato. L’esercito russo, dopo una partenza disastrosa, si è riorganizzato e sta facendo inesorabilmente valere la sua superiorità numerica, avanzando nel Donbass.

Le armi sono state date, ma le guerre le fanno gli uomini, e all’esercito ucraino mancano. Non solo a causa delle perdite – inferiori a quelle russe, ma pur sempre enormi -, bensì per la fuga dei suoi soldati dal fronte – si parla di più di 100.000 disertori (alcune fonti addirittura di 170.000) – e per la renitenza alla leva dei più giovani, che si nascondono o si rifugiano all’estero per sfuggire al reclutamento.  Solo in Germania – riporta il quotidiano «Bild,» citando i dati del ministero degli Interni – tra il febbraio 2022 e il febbraio 2023 sarebbero arrivati ben «163.287 ucraini maschi e normodotati». Altri 80mila in Polonia…

Ora l’avvento di Trump, alla presidenza degli Stati Uniti, ha ulteriormente compromesso le già tenui prospettive di resistenza dell’Ucraina. Già prima delle elezioni il nuovo presidente americano ha dichiarato di non voler più sostenere economicamente questa guerra e di non voler più mantenere in piedi la NATO, che ne è stata finora la principale protagonista. 

Zelens’kyj aveva cercato di anticipare i tempi chiedendo l’ingresso immediato dell’Ucraina nell’Alleanza atlantica. Richiesta che è stata respinta, però, facendo notare che esso avrebbe l’effetto di determinare automaticamente l’entrata in guerra di tutti gli altri membri, trasformando il conflitto in atto nella terza guerra mondiale. Un prezzo che il presidente ucraino era evidentemente disposto a pagare, sempre in nome della vittoria finale, ma gli altri Stati no.

E ora i nodi sono al pettine. C’è ancora chi parla senza esitazioni di vittoria, come il premier del Belgio De Croo. Ma altri capi di governo, cominciano a essere meno netti che in passato. È il caso della Meloni – pur strenua sostenitrice dell’Ucraina –, che, al recente summit della NATO, ha detto: «Forse dobbiamo tutti prendere atto delle condizionidella situazione sul terreno, dei dati di realtà», riconoscendo che «gli italiani fanno sempre più fatica a sostenere il nostro sforzo».

In un tweet su X il cancelliere tedesco Scholz ha fatto sapere che, durante una conversazione telefonica con Trump, ha concordato con lui «che è importante intraprendere il percorso verso una pace giusta per l’Ucraina il prima possibile». E anche il neopresidente del Consiglio europeo, Costa, ha sostituito allo slogan dell’immancabile vittoria, l’auspicio che quella che si realizzerà sarà «una pace duratura, non una capitolazione».

Si ricomincia, insomma, a parlare della necessità di una pace che non sia il frutto della vittoria. Si ammette, insomma, che non sono le armi a poterla produrre. Si profila un negoziato che, con ogni probabilità, sancirà le richieste russe che già erano state accolte con gli accordi di Minsk, prima della guerra. Ma questo avviene dopo un numero di morti e di feriti che sembra raggiunga i 500mila.

Non può non sorgere, prepotente, la domanda: «Ne valeva la pena?». Torna alla mente il grido di papa Francesco: «Una guerra sempre, sempre, è la sconfitta dell’umanità. Non esistono le guerre giuste, non esistono!». Qualche giornale ha ricordato anche le parole di papa Benedetto XV, che scongiurava di fermare il primo conflitto mondiale, definendolo una «inutile strage». Una espressione che purtroppo – come diventa sempre più chiaro – esprime perfettamente il nonsenso di questa guerra.

 *Editorialista e scrittore. Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo

www.tuttavia.eu

 Immagine: Autore: rawpixel.com

 

 

venerdì 26 luglio 2024

CIVILTA' e BARBARIE

Le Olimpiadi, Israele,  la Russia: civiltà contro la barbarie?



 - di Giuseppe Savagnone*

Netanyahu negli Stati Uniti

C’è un collegamento, anche se non immediatamente evidente, tra la visita del premier israeliano Benjamin Netanyahue la grandiosa apertura il 26 luglio, a Parigi, delle Olimpiadi 2024.

Per comprenderlo, bisogna fare attenzione al concetto cruciale del discorso rivolto da Netanyahu, il 24 luglio, al Congresso degli Stati Uniti che, a Camere riunite, lo ascoltava, con frequenti applausi e standing ovation: «Quello che sta accadendo», ha detto, riferendosi alla guerra, «non è uno scontro di civiltà, ma tra barbarie e civiltà, tra coloro che glorificano la morte e coloro che glorificano la vita».

Civiltà (Israele) contro barbarie (Hamas). Dei palestinesi nessuna menzione. È del resto lo schema a cui si sono attenuti i governi e gli opinionisti occidentali, a cominciare da quelli italiani, anche se con un crescente imbarazzo.

Appena qualche giorno fa la premer Meloni, pur ribadendo «la forte preoccupazione per la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza», «ha ribadito la vicinanza del Governo italiano ad Israele e la ferma condanna del terrorismo di Hamas».

Nessuna condanna, invece, anzi neppure una generica menzione, delle violenze dell’esercito israeliano nei confronti della popolazione di Gaza. Nel suo discorso al Congresso americano del resto il premier israeliano le aveva già ha liquidate come semplici invenzioni.

Peccato che invece tutte le fonti internazionali indipendenti confermino la diretta responsabilità di Israele nel determinare la crisi umanitaria, impedendo l’accesso di generi alimentari, acqua e medicine, così come quelle sulla strage di civili – 40.000 su due milioni e mezzo di abitanti (in Ucraina, dopo più di due anni, sono 10.000 su 40 milioni!), in maggioranza donne e bambini, senza contare i feriti e i mutilati -, causata dai bombardamenti indiscriminati di case, scuole, ospedali, moschee, da parte dell’aviazione di Tel Aviv, giorno e notte. Strage largamente prevedibile e inevitabile, perché queste bombe sono stante lanciate su un’area popolata da due milioni e mezzo di persone e grande poco più della metà della città di Madrid.

Vi ha fatto cenno la vicepresidente e candidata democratica alla presidenza Kamala Harris che, nell’incontro personale con il premier israeliano il giorno dopo, ribadendo l’impegno «incrollabile» degli Stati Uniti nei confronti di Israele e della sua sicurezza, ha sottolineato che Israele ha «il diritto di difendersi, ma come si difende è importante», facendo presente che «quanto accaduto a Gaza negli ultimi nove mesi è devastante» e concludendo: «Non possiamo girarci di fronte a queste tragedie. Non possiamo permetterci di diventare insensibili alla sofferenza. Io non starò in silenzio».

La reazione di Tel Aviv è stata espressa da un funzionario israeliano, citato dai media, secondo cui «le dichiarazioni della vice presidente Kamala Harris sulla “grave crisi umanitaria” a Gaza e la necessità di “porre fine alla guerra” danneggiano le trattative per il rilascio degli ostaggi e sono “da respingere entrambe”».

«Il danno ai civili palestinesi è davvero il problema in questo momento?» ha osservato il funzionario di Tel Aviv. Poi, sempre citato dai media, ha aggiunto: «Cosa dovrebbe pensare Hamas quando sente questo?».

Sulla stessa linea il commento del ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich, esponente dell’estrema destra, su X: «Kamala Harris ha rivelato al mondo intero quello che ho detto per settimane, cosa c’è veramente dietro l’accordo, arrendersi a Sinwar, porre fine alla guerra in un modo che permetterebbe ad Hamas di riabilitarsi e abbandonare la maggior parte degli ostaggi prigionieri. Non cadete in questa trappola».

«Non ci sarà nessuna tregua, signora candidata», ha scritto, sempre su X, il ministro israeliano Itamar Ben-Gvir, anche lui di estrema destra, rispondendo alle parole della vicepresidente americana.

Le prese di posizione di due tribunali internazionali

La tesi del governo israeliano, però, non è condivisa non solo dal suo maggiore alleato, gli Stati Uniti, ma anche dai due massimi organismi giuridizionali a livello mondiale. Già il 26 gennaio scorso la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) aveva riconosciuto l’esistenza di un reale e imminente rischio di genocidio nei confronti dei palestinesi, attirandosi l’accusa del ministro Ben-Gvir di essere un «tribunale antisemita».

E lo scorso 20 maggio Karim Khan, il procuratore capo della Corte Penale Internazionale (ICC) – il principale tribunale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità (da non confondere con la Corte Internazionale di Giustizia, che è un organismo dell’ONU e si occupa di dirimere le controversie tra gli Stati membri)  – , ha chiesto alla Corte di emettere un mandato di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, per il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, oltre che per il leader di Hamas nella Striscia di Gaza, Sinwar, per il capo politico di Hamas, Haniyeh, e per il capo delle brigate al Qassam, l’ala armata di Hamas nella Striscia Deif.

Le accuse contro Netanyahu e Gallant includono «l’aver provocato lo sterminio, l’aver usato la fame come metodo di guerra, compreso il rifiuto delle forniture di aiuti umanitari e l’aver deliberatamente preso di mira i civili durante un conflitto»

Ora un collegio di giudici dell’ICC dovrà decidere se approvare la sua richiesta o meno. Ma è significativo che la Gran Bretagna abbia comunicato in questi giorni di voler ritirare le obiezioni che aveva presentato alla Corte contro la richiesta dei mandati di arresto nei confronti dei due esponenti del governo israeliano.

A completare questo quadro è la notizia che il 19 luglio la Corte Internazionale di Giustizia, chiudendo un procedimento che non diretto rapporto con la guerra di Gaza né con Hamas – perché riguarda la Cisgiordania, il cui governo dipende dall’autorità Nazionale Palestinese (in conflitto con Hamas) – ha deliberato che le colonie israeliane nei Territori palestinesi e l’utilizzo delle risorse naturali che Israele fa in quelle zone vìolano il diritto internazionale.

Secondo i 15 giudici della Corte, «il trasferimento di coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme da parte di Israele, e il mantenimento della loro presenza da parte di Israele, sono contrari all’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra», che insieme alle altre tre convenzioni forma la base del diritto internazionale umanitario.

La risposta di Netanyahu è stata molto significativa, perché non ha negato i fatti, ma ne ha dato una lettura che li giustifica: «Il popolo ebraico non è occupante nella propria terra, né nella nostra capitale eterna Gerusalemme, né nella terra dei nostri antenati in Giudea e Samaria». Ha poi aggiunto che «nessuna falsa decisione all’Aia distorcerà questa verità storica, così come non può essere contestata la legalità dell’insediamento israeliano in tutti i territori della nostra patria». Insomma, la Palestina è nostra.

In coerenza, del resto,  con la risoluzione approvata dalla Knesset  – il parlamento israeliano –  contro la nascita di uno Stato palestinese autonomo e dunque in aperta opposizione alla soluzione dei due Stati caldeggiata dagli Stati Uniti e dai paesi europei.

Insomma, siamo davanti a un progetto, consapevolmente e deliberatamente perseguito, ora espressamente dichiarato, che prevede l’integrale occupazione della Palestina da parte di Israele, con  la cacciata o la sottomissione dei suoi precedenti abitanti palestinesi.

Una sistematica “pulizia etnica” iniziata, secondo le incontestabili ricerche dello storico (ebreo israeliano!) Pappè, già alle origini dello Stato ebraico, prima sotto la guida di Ben Gurion come capo dell’Haganà, poi dai suoi successori, fino ad oggi.

Le Olimpiadi vetrina di civiltà

«La civiltà contro la barbarie», ha spiegato Netanyahu. E queste Olimpiadi, malgrado le riserve degli stessi governi occidentali, rispecchiano questo schema. Alla grande manifestazione sportiva  sono state ammessi solo  gli atleti delle nazioni “civili”, tra cui quelli israeliani. Sono stati lasciati fuori solo i “barbari.” E non solo, come è ovvio, Hamas. Nel traboccante calderone mediatico di  notizie sulle Olimpiadi non ha quasi trovato posto la decisione del CIO (Comitato Olimpico Internazionale) che ha  escluso dalla partecipazione  la Russia.

Una scelta tutt’altro che irrilevante, dal punto di vista sportivo, se è vero che un noto giornale del settore la commentava così: «Una cosa è certa: Parigi vedrà un’Olimpiade mutilata e il medagliere finale sarà viziato dall’assenza di centinaia di atleti della Russia, una potenza sportiva di primissimo piano, che svetta da sempre insieme a Usa e Cina. Sarà una ferita profonda» («Gazzetta dello Sport» del 20 marzo 2024).

La ragione dell’esclusione è la stessa che, dopo il 24 febbraio 2022, ha visto la stessa misura applicata a tutti gli atleti russi – in una prima fase perfino a quelli che chiedevano di gareggiare a titolo personale – da tutte le manifestazioni sportive internazionali. La si può trovare chiaramente espressa nelle parole con cui il presidente degli Stati Uniti esprimeva l’intenzione di dimostrare «quanto la guerra di Putin abbia fatto della Russia un paria (…). Noi continueremo a lavorare con le nazioni per far rispondere la Russia delle atrocità commesse, e (…) isolare la Russia dal palcoscenico internazionale».

Si può discutere se lo sport debba essere il campo in cui esercitare queste pressioni politiche. Ma se, alla fine, si decide di escludere chi viola le leggi internazionali, come mai Israele è stato ammesso, in presenza di pronunzie ufficiali che denunziano le gravissime illegalità e disumanità di cui è responsabile e – forse ancora di più – di fronte alla sua dichiarata intenzione di perseverare in esse, infischiandosene dei giudizi di organismi e tribunali internazionali?

L’abusata formula secondo cui non si possono mettere sullo stesso piano aggressore e aggredito – a ogni pie’ sospinto ripetuta dal governo di Tel Aviv e purtroppo anche da molti responsabili delle comunità ebraiche in tutto il mondo – assolutizza il problema dell’inizio di una guerra, nascondendo quello del modo di combatterla, anch’esso soggetto alle leggi internazionali e su cui si appuntano il sospetto di genocidio e l’accusa di crimini di guerra nei confronti dello Stato ebraico

Di più: alla luce dell’ultima sentenza della Corte Internazionale di Giustizia (CIG), nella guerra in Medio Oriente il vero aggressore, all’inizio di tutto, è stato Israele, procedendo all’invasione illegale dei territori palestinesi. L’evento del 7 ottobre, che resta atroce e assolutamente ingiustificato, non può essere assunto come il principio di tutto (lo già aveva detto, all’indomani della tragedia, il segretario generale dell’ONU, Guterres, pur deprecando la strage compiuta da Hamas), ma si inserisce in una storia – documentata accuratamente da Pappè –  in cui gli aggrediti sono stati i palestinesi.

«La civiltà contro la barbarie», ha proclamato Netanyahu al Congresso americano. Le Olimpiadi traducono fedelmente questa formula, legittimando la collocazione di Israele nel primo polo. E tutti – almeno i governi e la stampa – faranno finta di nulla. Ma non si potrà cancellare la domanda: è davvero questa la civiltà?

 www.tuttavia.eu

 *Scrittore ed Editorialista. Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo

 

venerdì 21 giugno 2024

RUSSIA E SUD GLOBALE

 

Dietro la Russia, la sorda protesta del sud globale



-        di Giuseppe Savagnone*

Il mondo si divide

Non sono stati molti gli osservatori che hanno dato il giusto rilevo a quanto è accaduto al “Convegno per la pace in Ucraina” del 16 e 17 giugno scorso.

 Tutti, naturalmente, hanno evidenziato che, a fronte degli 80 paesi e delle 4 organizzazioni internazionali che hanno sottoscritto i 10 punti della proposta di pace   del presidente ucraino Zelensky, ce ne sono stati 12 che non hanno voluto farlo: l’India, il Brasile (presente come osservatore), il Messico, la Colombia, il Sudafrica, l’Indonesia, la Thailandia, la Libia, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, l’Armenia, il Vaticano (anch’esso presente come osservatore).

 Senza contare i 68 Stati che hanno declinato l’invito a partecipare – in tutto il governo svizzero ne aveva invitati 160 – , esprimendo già con questo rifiuto il loro dissenso. E tra questi c’è la Cina, il cui ruolo in una eventuale trattativa di pace è fondamentale.

 E in tutte le cronache e i commenti è stato riconosciuto che non si è trattato di una fronda marginale. Alcuni degli Stati che non hanno firmato sono dei giganti, già anche semplicemente sotto il profilo demografico. Basti pensare che essi, insieme, contano qualcosa come 2 miliardi e 25 milioni di abitanti. Se a questi si aggiunge la Cina, che non ha mandato nessun rappresentante, si arriva a 3 miliardi e 66 milioni di persone, quasi la metà della popolazione mondiale.

 Ma si è sottolineato che comunque hanno sottoscritto il documento, fra gli altri, gli Stati Uniti, tutti i membri dell’UE, il Consiglio d’Europa, la Commissione europea, il Parlamento europeo, il Regno Unito, il Canada, la Turchia, l’Argentina, Israele, il Giappone, la Corea del sud. Insomma, i paesi che contano, quelli del G7, più qualche altro che si allinea alle loro posizioni.

 Ciò che spesso non è stato messo in luce è la portata epocale di quanto sta accadendo, e di cui la vicenda della guerra in Ucraina è solo una manifestazione, la divisione del pianeta in due aree, che non corrispondono al facile schema secondo cui i paesi democratici – che poi sarebbero quelli del G7, nella loro maggioranza membri della NATO – lotterebbero in difesa della libertà contro quelli totalitari.

 Perché alcuni degli Stati che prendono le distanze dalla linea degli Stati Uniti e dei loro alleati nei confronti della Russia sono anch’essi democratici, come l’India e il Brasile. Altri, invece, a cominciare dalla Russia, non lo sono affatto. Che cosa dunque li accomuna?

 La contrapposizione tra Nord e Sud

Il fatto è che tutti questi paesi oggi si riconoscono parte del cosiddetto “Sud globale”, un’espressione oggi sempre più usata per designare tutte quelle nazioni che sono state in qualche modo vittime di colonialismo o di sfruttamento e che stanno sperimentando processi di sviluppo ancora incompiuti (ancora in un recente passato si parlava di “paesi in via di sviluppo”).

 Proprio la guerra in Ucraina ha evidenziato e potenziato questa contrapposizione, emersa già nell’aprile del 2022, quando, all’indomani dell’invasione russa, l’Assemblea generale dell’ONU ha sospeso la Russia dal Consiglio dei diritti umani.

 Biden aveva espresso, in questa occasione, tutta la sua soddisfazione per una decisione che a suo avviso dimostrava «quanto la guerra di Putin abbia fatto della Russia un paria (…). Noi continueremo a lavorare con le nazioni per far rispondere la Russia delle atrocità commesse, e per alzare la pressione sull’economia russa, e isolare la Russia dal palcoscenico internazionale».

Il presidente americano, però, non aveva fatto sufficiente attenzione al fatto che la decisione – pur essendo presa a larga maggioranza – non era stata unanime. 93 paesi si erano pronunciati a favore, mentre 24 si erano opposti e 58 si erano astenuti.

 Tra i contrari, molti storici alleati di Mosca, come Cina, Cuba, Bielorussia, Siria e Vietnam e altri che lo sono diventati di recente grazie agli aiuti militari ricevuti dal Cremlino, come Mali, Gabon, Zimbabwe.

 C’erano poi gli astenuti, tra cui figuravano più o meno gli stessi che ora non hanno ritenuto di firmare il documento di Zelensky: l’India, il Brasile, il Messico, il Sudafrica, l’Indonesia, la Thailandia, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti.

 Particolarmente significativa era stata la presa di posizione della Cina, in cui si esplicitava, piuttosto che un pieno accordo con la Russia sul merito della sua politica, un dissenso nei confronti dello stile enfatizzato dal presidente americano, basato sull’esclusione: «Il dialogo e il negoziato sono l’unica via per uscire dalla crisi in Ucraina», aveva detto l’ambasciatore cinese all’ONU, Zhang Jun, dopo il voto. «Questa risoluzione», aveva aggiunto, «aggrava le divisioni tra gli Stati membri, aggiunge benzina al fuoco, e non aiuta i colloqui di pace».

 Una riflessione che probabilmente è alla base anche della scelta del Vaticano di non firmare il documento finale dell’incontro di Lucerna, chiaramente ispirato alla logica della contrapposizione frontale nei confronti della Russia.

 Una logica, peraltro, che aveva già determinato, nel marzo del 2014, dopo l’annessione della Crimea da parte di Mosca, l’esclusione della Russia dal G8 – il gruppo dei paesi del mondo con le economie più avanzate – di cui faceva parte nel 1997. E che si sarebbe espressa, dopo l’aggressione di Putin nei confronti dell’Ucraina, in ondate successive di sanzioni sempre più pesanti che, nelle intenzioni degli Stati della NATO, avrebbero dovuto metterne in ginocchio l’economia.

 Per non dire dell’esclusione sistematica degli atleti russi da tutte le gare internazionali, dai tornei di calcio alle paralimpiadi di Pechino, e della cancellazione della presenza di artisti e opere d’arte russe da mostre e teatri.

 Il BRICS

Le cose non sono andate come Biden e gli altri leader della NATO prevedevano. La Russia non è rimasta isolata sulla scena del «palcoscenico internazionale». E la sua economia non è crollata, anzi – pur avendo dei forti contraccolpi – ha superato, secondo i più recenti dati della Banca Mondiale pubblicati all’inizio di giugno, quella del Giappone, scalzandola dal quarto posto nella graduatoria mondiale.

 Tra le spiegazioni di questa inaspettata resilienza c’è quella che già da prima della crisi ucraina la Russia aveva stretto forti legami con quel “Sud del mondo” di cui si è parlato. Di questi legami è a più evidente e significativa espressione   la nuova realtà del BRICS.

 Noto anche come “Gruppo dei Cinque”, il BRICS è un forum economico internazionale fondato nel 2009 da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, ( BRICS è l’acronimo composto dalle loro iniziali) come alleanza tra le economie emergenti. Al nucleo iniziale si sono andati aggiungendo, recentemente, gli Emirati Arabi Uniti, il Sudafrica, l’Iran, l’Egitto e l’Etiopia. E altri, come la Nigeria e la Turchia, stanno orientandosi a parteciparvi.

 Si tratta di Stati che hanno storie, culture, istituzioni molto diverse tra loro. E, a differenza della Nato, il BRICS non comporta una alleanza politico-militare fra i membri. Vi è però qualcosa che li accomuna e che spiega la loro vicinanza alla Russia (geograficamente non rientrante nel concetto di “Sud”), ed è la loro spinta  ad emergere, in potenziale o esplicita contrapposizione ai paesi ricchi, e in larga misura ex colonialisti, del G7, contestandone il ruolo egemone, finora dato per indiscusso.

 Il terreno del conflitto è innanzi tutto quello economico. Si tratta di scalzare il quadro di un’economia neocapitalista che finora ha avuto negli Stati Uniti il suo perno. Va in questa direzione la proposta avanzata nel vertice dell’agosto 2023 dal presidente del Brasile Lula da Silva, di introdurre una moneta comune che possa permettere ai paesi BRICS di non ricorrere al dollaro americano per effettuare gli scambi.

 Ciò che di fatto è avvenuto non è ancora l’adozione di una moneta unica, ma il ricorso a quelle dei singoli paesi, in sostituzione del dollaro. In generale l’utilizzo del dollaro nei commerci dei paesi BRICS è in forte diminuzione, appena il 28,7% nel 2023, anno in cui un quinto di tutto il commercio petrolifero mondiale è stato fatto con monete diverse dal dollaro.

 Insomma, lo sforzo di emancipazione dall’Occidente è in pieno svolgimento e il BRICS esercita una sempre maggiore attrattiva verso paesi dell’Asia e dell’Africa che covano, in modo più o meno esplicito, un atteggiamento di risentimento nei suoi confronti.

 Il nuovo asse spaziale

Lo spazio ha sempre avuto un ruolo simbolico importante nel definire i rapporti tra le diverse realtà sociali, politiche ed economiche del pianeta. A lungo, dopo la seconda guerra mondiale, l’asse spaziale fondamentale è stato quello orizzontale: Est ed Ovest, Oriente Vs Occidente.

 Si parlava di “paesi dell’Est, per indicare non solo e non tanto una collocazione geografica, quanto l’appartenenza alla realtà del mondo comunista, e di “paesi dell’Ovest” per designare gli Stati democratici.

 Nel tempo della globalizzazione il pianeta sembrava unificato dalla vittoria dell’Occidente democratico e neocapitalista. Le differenze erano relativizzate da un comune orizzonte economico, che era anche un fattore di pace politica.

 La crisi ucraina ha aperto la strada a quello che il presidente Biden in un suo discorso ha definito «un nuovo ordine mondiale», accentuando esigenze e prospettive che già maturavano nel periodo precedente.

 (Il BRICS nasce nel 2009, ma è evidente che il suo ruolo era molto diverso per una Russia strettamente legata alla Germania di Angela Merkel, com’era fino al febbraio del 2022, e quella attuale, ormai isolata dai paesi europei).

 Adesso l’asse spaziale prevalente è quello verticale Nord-Sud. E la Russia, a dispetto della sua collocazione geografica, è legata al secondo di questi poli. Basta scorrere la lista dei paesi che non intendono allinearsi alla politica di contrapposizione proposta dal presidente Zelensky e sposata senza riserve dalla NATO, per rendersi conto che anche gli Stati che non sono membri del BRICS – per esempio il Messico – costituiscono il Sud rispetto a un Nord (nel caso del Messico, gli Stati Uniti) molto più ricco.

 Essi in buona parte non condividono la cinica politica dittatoriale e imperialista di Putin, ma non intendono allinearsi con un ex Occidente che forse non è mai stato, come pretendeva, il paladino della libertà.

 Quale libertà

Peraltro, la nuova contrapposizione spaziale tra Nord e Sud ha, al di là del gioco diplomatico e della collocazione politica degli Stati, una portata che la rende assai meno ideologica di quella del passato tra Est e Ovest – qui non c’è più il conflitto tra filosofia liberale e marxismo – , ma più drammatica sul piano esistenziale. Perché rientra in essa il problema dei grandi flussi migratori che dal Sud cercano di raggiungere il Nord, venendone sempre più duramente respinti.

 Così è nel caso dell’immigrazione che dal Messico proietta i latinos poveri verso la frontiera degli Stati Uniti, suscitando le ire di Trump e le sempre più decise misure restrittive di Biden.

 Così è nel caso dell’Europa, sempre più sensibile alla linea della Meloni, che in Italia mira a respingere gli “invasori” cercando di bloccarli in campi di concentramento fuori delle frontiere, in Libia e Tunisia o in Albania. Così è nel caso del Regno Unito, dove il premier Sunak ha fatto recentemente passare una legge che prevede la deportazione degli immigrati nel Ruanda.

 La caduta del muro di Berlino, nel 1989, ha segnato la fine della contrapposizione tra Est ed Ovest. Ma ora nuovi muri sorgono dappertutto, in America come in Europa, tra Nord e Sud. Con un numero di vittime enormemente superiore a quelle cadute nel passaggio del muro di Berlino. E creando un clima che da un lato è quello della difensiva ad oltranza, dall’altro quello della disperata ricerca di una migliore condizione di vita.   Il «nuovo ordine mondiale», rischia, così, di essere un ritorno a quello dell’odio e della paura.

 Con la differenza, che qui, ad alzare le barriere non sono più dei paesi totalitari, ma le nostre democrazie – le stesse che hanno lottato per la libertà e che ora sembrano aver concluso che quella che volevano era solo la “loro” libertà, da cui cerano di tenere lontani quanti vorrebbero esserne partecipi.

 

*Scrittore ed Editorialista. Pastorale della Cultura della Diocesi di Palermo

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venerdì 31 maggio 2024

ESCALATION !


COME AIUTARE L'UCRAINA 

A DIFENDERSI?

 

-        -  di Giuseppe Savagnone*

 

Truppe europee in Ucraina?

All’inizio di aprile il premier polacco Donald Tusk, in una intervista, aveva ammonito: «Non voglio spaventare nessuno, ma la guerra non è più un concetto del passato» e che, per la prima volta dal 1945, con gli ultimi sviluppi della crisi ucraina, «ogni scenario è possibile». 

Sono trascorse poche settimane da quella dichiarazione, e il corso degli eventi sta confermando, con il succedersi rapidissimo di sviluppi fino a poco tempo fa impensabili, il suo carattere profetico.

È stato l’andamento stesso delle operazioni militari, nettamente sfavorevole agli ucraini, a determinare questi “balzi in avanti”. Per contenere l’avanzata delle truppe di Putin gli occidentali stanno tentando disperatamente di aumentare e accelerare la fornitura di armi a Kiev, ma è forte il dubbio che questo non sia sufficiente, anche tenendo conto della superiorità numerica dell’esercito russo e dell’assottigliarsi delle risorse umane ucraine.

E così il presidente francese Macron, ai primi maggio, in un’intervista a «The Economist», riprendendo una ipotesi già avanzata a febbraio circa l’opportunità di inviare truppe europee sul terreno di guerra, ha dichiarato: «Se i russi sfondassero in prima linea, se ci fosse una richiesta ucraina – cosa che oggi non avviene – dovremmo legittimamente porci la domanda». Anche questa volta, come già alla sua prima uscita, questa apertura a un coinvolgimento diretto degli europei nella guerra in corso è stata accolta da un coro unanime di dissensi. Ma adesso meno convinti e risoluti.

Sono cominciati ad affiorare i primi “distinguo”. Fornire truppe europee a Kiev, si osservava in un articolo di «Foreign Affairs,», non significa necessariamente utilizzarle per combattere al fronte. I soldati inviati dall’Europa potrebbero addestrare le unità dell’esercito ucraino, assisterle nell’uso e nella riparazione delle armi fornite dall’Occidente, curare gli aspetti logistici…

In questa logica, la Francia si prepara già ad inviare degli istruttori militari e, secondo un’accreditata fonte diplomatica, ne darà l’annuncio ufficiale entro «una, massimo due settimane», probabilmente in coincidenza con la partecipazione  – fortemente simbolica –  del presidente ucraino Volodymyr Zelensky alle celebrazioni dello sbarco in Normandia, che si svolgeranno il 6 giugno prossimo. Già forme di addestramento di militari di Kiev si sono svolte in vari Stati occidentali.

Ma ora «gli ucraini vogliono che l’addestramento sia fatto sul loro territorio, risolverebbe molti problemi logistici e per molti alleati questo ha senso». La fonte sottolinea che all’iniziativa si assoceranno «altri paesi». E commenta: «Il tabù è stato infranto».

La caduta del secondo tabù: colpire la Russia

Ma anche un secondo tabù vacilla, anzi sembra sul punto di cadere. Qualche giorno fa il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha esortato gli Stati dell’Alleanza atlantica a riconsiderare i limiti all’invio di alcune armi all’Ucraina.

È giunto il tempo per i Paesi membri della NATO di considerare se debbano revocare alcune delle restrizioni all’uso delle armi che hanno donato all’Ucraina», detto Stoltenberg in un’intervista a «The Economist». «Negare all’Ucraina la possibilità di usare queste armi contro obiettivi militari legittimi nel territorio russo rende loro difficile difendersi».

Sottolineando che questa eventuale decisione spetta comunque ai singoli membri della NATO. Infatti, alcuni di essi, tra cui l’Italia, sono stati fino a questo momento riluttanti nel fornire a Kiev armi più potenti e a più lunga gittata, che trasformerebbero la difesa dell’Ucraina in un attacco alla Russia.

Anche questa dichiarazione in un primo momento è stata accolta con forti riserve, anzi in qualche caso con irritazione. Da molti è stato fatto notare che il segretario generale della NATO, per la natura del suo incarico, dovrebbe astenersi da suggerimenti e valutazioni personali circa le decisioni che dovrebbero assumere i governi e i parlamenti legittimi degli stati membri.

Qualcuno, come il vicepremier italiano Salvini, ne ha chiesto addirittura le dimissioni. E l’altro vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani si pronunziato con chiarezza in senso contrario: «Siamo parte integrante della NATO, ma ogni decisione deve essere presa in maniera collegiale. Lavoriamo per la pace. Non manderemo un militare italiano e gli strumenti militari mandati dall’Italia vengono usati all’interno dell’Ucraina».

Non è mancato qualche riferimento alla tendenza di Stoltenberg alle gaffe, come quando ha ammesso che la NATO addestra e arma gli ucraini per combattere i russi fin dal 2014 o quando ha affermato che l’Alleanza Atlantica aveva respinto nel dicembre 2021 la proposta russa per evitare la guerra in Ucraina, proponendo un trattato di sicurezza che stabilisse la neutralità di Kiev e lo stop all’ampliamento a est della NATO.

Verità scomode, per chi sostiene, come lo stesso Stoltenberg, che la guerra non ha alternative e su cui l’interessato avrebbe certamente fatto meglio a stare zitto. Questa sarebbe, dunque, solo l’ultima di una serie.

Via via, però, le parole del segretario generale della NATO, invece di essere liquidate come un’uscita fuori luogo, hanno ricevuto sempre maggiore attenzione. Il presidente Macron, in una conferenza stampa congiunta con il cancelliere tedesco Olaf Scholz, si è espresso a favore di questa linea e anche le parole del cancelliere tedesco Olaf Scholz sono state giudicate come un’apertura.

Fermo restando che obiettivi degli attacchi sarebbero soltanto strutture militari, «dovrebbe essere possibile colpire questi luoghi in modo circoscritto. E non credo che questo porti una escalation», ha detto il presidente francese, assicurando che «non si colpiranno altri luoghi, né obiettivi civili». 

In realtà già il Regno Unito ha permesso all’Ucraina di utilizzare i missili a lungo raggio Storm Shadow, che le fornisce, per colpire la Russia sul suo territorio. E il  vice ministro della Difesa polacco ha dichiarato che «non ci sono restrizioni sulle armi polacche fornite all’Ucraina».

Secondo il «Washington Post» anche il presidente americano Joe Biden starebbe prendendo in considerazione l’idea di revocare i limiti all’uso delle armi a corto raggio statunitensi.

«La nostra politica non cambia: non vogliamo attacchi all’interno del territorio russo da parte dell’Ucraina», aveva detto pochi giorni fa il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale americana, John Kirby. Ora invece alla Casa Bianca si sta valutando la possibilità di una svolta.

Da parte sua, il presidente russo Vladimir Putin ha minacciato l’Europa di «gravi conseguenze» se i paesi della NATO permetteranno all’Ucraina di utilizzare gli armamenti occidentali contro obiettivi in territorio russo.

Così come l’invio di truppe occidentali sul terreno in Ucraina porterebbe a un’ulteriore escalation e a «un altro passo verso un grave conflitto in Europa e a un conflitto globale». Tali truppe, infatti, ha aggiunto il premier russo, «si troverebbero nella zona di tiro delle nostre forze armate. Vogliono fare così? Possono andare e auguriamo loro buona fortuna».

La conferenza di pace di Lucerna

Il paradosso, in questa escalation, è che essa si svolge all’insegna della ricerca della pace. Putin dice di volerla, mentre però le sue truppe avanzano ogni giorno. Da parte loro, anche i governi aderenti alla Nato ritengono di stare operando per arrivare a una soluzione pacifica, ricordando il classico detto «si vis pacem, para bellum», “se vuoi la pace, preparati alla guerra”. 

Proprio Stoltenberg, in una conferenza stampa a Sofia, ha puntualizzato che gli unici obiettivi dell’Alleanza Atlantica «sono sostenere l’Ucraina e prevenire l’escalation del conflitto».

Sembrerebbe una conferma di questa volontà il fatto che la Svizzera, su richiesta di Zelensky, abbia indetto una grande conferenza di pace sull’Ucraina, che si terrà a Lucerna dal 15 al 16 giugno, invitando più di 160 delegazioni di tutto il mondo. Saranno presenti anche i capi del Consiglio d’Europa, del Consiglio europeo e della Commissione europea.

Ciò potrebbe apparire rassicurante e aprire davvero prospettive sul futuro, se non fosse per il particolare che l’invito non è stato esteso alla Russia. Che non a caso – e forse almeno su questo punto con qualche ragione – ha commentato: «Negoziati di pace senza di noi non hanno senso». ciò che il Leader ucraino si aspetta da questo incontro è l’assenso di principio di un certo numero di paesi al suo piano di pace, in vista di una seconda conferenza alla quale “ammettere” Mosca. «Ai leader mondiali dico: se desiderate la pace venite in Svizzera», ha detto Zelensky. .

In questa logica il premier ucraino ha nuovamente respinto, pochi giorni fa, l’idea di invitare la Russia al vertice di Lucerna, perché «bloccherebbe ogni tentativo di pace”» dal momento che Mosca «non ha interesse alla pace».

Che dire di questo quadro? Putin è un dittatore senza scrupoli, pericolosamente chiuso in un suo autoreferenziale progetto di ricostituzione dell’impero russo, per riportarlo ai confini dell’ex Unione Sovietica.

Non sono perciò infondati i timori di chi prevede – come i paesi baltici, particolarmente allarmati e pronti a questa eventualità – che un suo successo in Ucraina possa aprire le porte a ulteriori aggressioni e respinge ogni forma di negoziato, rievocando la Conferenza di Monaco del 1938, in cui la cedevolezza dei governi democratici nei confronti delle pretese di Hitler creò le premesse la seconda guerra mondiale.

Tutto ciò evidenzia sicuramente la necessità di tenere gli occhi bene aperti, e di seguire una linea di fermezza nei confronti dell’aggressore russo. Non può non allarmare, però, la tendenza dei paesi della NATO – fin dall’inizio ipnotizzati da Zelensky e dal suo entusiasmo guerriero – a concepire la pace unicamente come il risultato della sconfitta, diplomatica, economica e militare, della Russia. Questo ha sicuramente contribuito, simmetricamente all’aggressività di Putin, a rendere impossibile ogni forma di dialogo. Significativa l’impostazione – voluto dal premier ucraino e accettata dall’Occidente – della prossima conferenza di pace di Lucerna. Non è così che si costruisce la pace.

In questo modo la guerra diventa l’unica soluzione. Così, il motto «si vis pacem, para bellum», tante volte citato dai paesi della NATO, si sta trasformando rapidamente in uno molto diverso: «si vis pace, fac bellum», “se vuoi la pace, fai la guerra”. E l’escalation in atto ci avverte che la prospettiva di un conflitto mondiale, catastrofico per tutti, vincitori e vinti, si sta avvicinando ogni giorno  di più a velocità vertiginosa.

 

*Scrittore ed editorialista – Pastorale della Cultura Arcidiocesi di Palermo

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venerdì 17 maggio 2024

DEMOCRAZIA E VIOLENZA

La simmetria 

della violenza 

che tradisce

 le democrazie

-          di  Giuseppe Savagnone 


 

Il ritorno dei muri

Intenti come sono a seguire gli sviluppi militari e diplomatici delle due guerre che  da mesi polarizzano l’attenzione del mondo, molti osservatori rischiano di non dedicare abbastanza attenzione a ciò che esse stanno significando per il mondo e per le nostre stesse democrazie.

Quando è esplosa la crisi ucraina, il nostro pianeta viveva la stagione di una globalizzazione (a livello economico) e di una distensione (a livello politico) che aveva progressivamente dissolto il clima pesante della “guerra fredda” post-bellica e consentito l’avvio di processi significativi di cooperazione pacifica anche tra paesi, come la Germania e la Russia – che la seconda guerra mondiale aveva visto sanguinosamente contrapposti. La caduta dei muri – a partire da quello di Berlino, nel 1989 – sembrava essere diventata simbolica di un nuovo clima, carico di speranze.

Questa guerra ci ha riportato indietro di molti decenni. All’origine c’è stata la protervia imperialistica di Putin, che l’ha provocata con la sua invasione e l’ha resa selvaggia con una conduzione che ha ignorato il diritto internazionale, meritandogli la condanna della Corte pena internazionale.

Ma la risposta delle democrazie occidentali è stata altrettanto estrema e non ha certo favorito la possibilità di un negoziato. Incalzate dalla foga oratoria e diplomatica del presidente Zelenskyi, esse hanno sempre più assunto un ruolo di protagoniste, ponendosi nella logica dello scontro frontale. L’obiettivo dichiarato e perseguito, sia con le misure politiche, sia con le sanzioni economiche, è stato fin dall’inizio quello – per usare le parole del presidente Biden – di «isolare la Russia dal palcoscenico internazionale», riducendola al ruolo di «paria».

Così, all’indomani dell’invasione, si è scatenata una demonizzazione senza precedenti di tutti coloro che avevano a che fare con la Russia. Non solo le squadre – per esempio la Nazionale di calcio e i club russi – furono bandite dalle competizioni internazionali, ma anche i singoli che chiedevano di gareggiare a titolo personale – per il solo fatto di essere russi, a prescindere dalle loro prese di posizione politiche.

I tennisti, furono esclusi dal torneo di Wimbledon; il Comitato Olimpico Internazionale raccomandò «vivamente» a tutte le federazioni mondiali di «non invitare atleti russi e bielorussi» alle gare sportive internazionali; il divieto fu addirittura applicato anche agli atleti disabili che avrebbero dovuto partecipare (ed erano disposti a farlo senza bandiera) alle para-olimpiadi invernali di Pechino.

Perfino nei teatri occidentali venero cambiati i programmi, togliendo dai cartelloni, per solidarietà all’Ucraina, opere e artisti russi. Un muro altissimo e invalicabile, in un certo senso più alto e impenetrabile di quello di Berlino.

Il «nuovo ordine» della corsa alle armi

Si è avverato così quello che Biden, all’indomani dell’invasione, durante un viaggio in Europa, aveva preconizzato: «Ci sarà un nuovo ordine mondiale là fuori, e dobbiamo guidarlo. E dobbiamo unire il resto del mondo libero nel farlo».

In questo «ordine» ha assunto un ruolo decisivo il rilancio della NATO, un’alleanza militare a guida americana con la finalità di far fronte all’Unione Sovietica – e perciò ritenuta da molti ormai superflua dopo la fine di quest’ultima – e che, dopo la crisi ucraina, è diventata protagonista, ponendosi come «il modello di una nuova costruzione occidentale» (Giuseppe Sarcina, «Corriere della Sera» online del 24 marzo 2022).

Anche se tutto il progetto salterebbe nel caso di un’elezione, a novembre, di Donald Trump, che aprirebbe però scenari diversi, ma forse non meno inquietanti.

In questo «nuovo ordine» planetario, fondato sulla reciproca ostilità senza dialogo, al fronte guidato dagli Stati Uniti si contrappone un asse russo-cinese, reso molto più saldo da questi ultimi sviluppi (si veda la piena sintonia registrata nella recentissima visita di Putin a Pechino) e che conta sulla simpatia di paesi come l’India (il cui premier ha anche fatto le sue congratulazioni a Putin per la sua rielezione), l’Iran, il Brasile, il Sudafrica – legati tra loro anche dal BRICS, un patto economico che mira a trovare un’alternativa al dollaro, – nonché un certo numero di Stati africani (ultimo il Niger, che proprio recentemente ha espulso la guarnigione statunitense, sostituendola con quella russa).

L’esito di questa spaccatura del mondo, paragonabile solo ai tempi più bui della “guerra fredda”, è una corsa agli armamenti, con un aumento record dei profitti delle industrie che producono armi. 

Con il ripresentarsi del fantasma, che sembrava esorcizzato per sempre, di una terza guerra mondiale – questa volta nucleare – di cui si parla ormai con preoccupante frequenza.

Oggi che le truppe di Mosca avanzano in Ucraina – smentendo le entusiastiche prospettive di una rapida e totale vittoria, su cui Zelensky era riuscito a coinvolgere l’Occidente – , le perplessità sulla guerra crescono. 

Ma c’è da chiedersi se la sfida lanciata dal regime autoritario di Putin alle democrazie occidentali non sia stata già persa, prima che sui campi di battaglia, per il fatto stesso di avere puntato sulla liquidazione dell’avversario, fidando nella forza delle sanzioni economiche e soprattutto sul successo militare.

Ora che la pura forza sta dimostrando di non poter risolvere nulla, la sola via plausibile è quella che forse avrebbe potuto essere praticata, o almeno tentata, fin dall’inizio: quella di un confronto – arduo, problematico, ma necessario. Anche se ora, dopo più di due anni, essa si pone in un contesto planetario drammaticamente deteriorato.

La guerra perduta dalla democrazia israeliana

Qualcosa di simile viene dimostrato dalla guerra di Gaza. Anche qui c’è sta una sfida, lanciata il 7 ottobre 2023, da un soggetto politico-militare non certo democratico, com’è Hamas, con i metodi propri del peggiore terrorismo, a un paese democratico, Israele, che proprio in quel momento stava lottando al suo interno per sventare il disegno autoritario di Netanyahu.

Anche qui, però, la risposta, invece che una presa di coscienza dei problemi che stavano all’origine della crisi e un tentativo di aprire un confronto con la parte del modo palestinese con cui era possibile dialogare, per risolverli pacificamente, si è scelto di puntare su una reazione di violenza inaudita, che ha assunto i tratti, se non di un genocidio, almeno di una vera e propria pulizia etnica.

I risultati anche qui sono stati disastrosi. Nessuno dei due obiettivi additati all’inizio della campagna è stato, dopo più di sette mesi, raggiunto, mostrando l’impotenza di un apparato militare come quello israeliano, che in passato aveva sempre sbaragliato in poche settimane, in qualche caso in pochi giorni, le coalizioni militari dei paesi arabi alleati. Né gli ostaggi sono stati liberati, né Hamas è stata annientata.

In compenso, Israele si sta trovando in un isolamento internazionale senza precedenti, condannato da un’opinione pubblica mondiale in cui il suo comportamento disumano ha ridestato i fantasmi dell’antisemitismo e abbandonato perfino dai governi tradizionalmente suoi più stretti alleati.

Forse la lezione che emerge da queste due vicende è che le democrazie non possono e non devono, in politica estera, appiattirsi sulle forze non democratiche – la Russia di Putin, Hamas – con cui devono fare i conti. La simmetria nella violenza non porta loro fortuna, non solo perché non risolve affatto i conflitti, ma anche e soprattutto perché tradisce la loro più intima aspirazione alla pace. E non si raggiunge la pace facendo la guerra.

La sola alternativa non è una colpevole resa alla prepotenza dei violenti. C’è una via di mezzo tra questa scelta, sicuramente inaccettabile, e la logica dell’“occhio per occhio dente per dente”. È proprio nel saperla trovare e percorrerla che una democrazia dà la piena prova di se stessa. Altrimenti rivela la sua fragilità.

 

*Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura – Arcidiocesi di Palermo

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