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giovedì 27 febbraio 2025

L'ARTE DEL VIVERE


 Galimberti, per essere felici bisogna imparare l'arte del vivere, dove a sorprenderci è il nostro modo di guardare le cose per poi poterle cambiare

 

Possiamo essere liberi anche 

quando la realtà ci imprigiona.


  Il dialogo con i giovani, ponendo al centro le loro ambizioni, i loro sogni, ma anche le loro difficoltà e preoccupazioni, riveste una speciale importanza. Su tale aspetto pone l'accento il filosofo, saggista e psicoanalista Umberto Galimberti, coglie l'occasione per fornire degli utili chiarimenti in merito alle modalità con le quali approcciarsi alla vita, fungendo da maestro e da guida per tanti ragazzi, spesso semplicemente fragili o incapaci di scegliere consapevolmente.

 Al filosofo si rivolge un pittore di ventiquattro anni che, terminati gli studi all'Accademia di Firenze, si è ritrovato a dover aiutare i genitori nella gestione di una piccola società a conduzione familiare per evitare il fallimento. Il giovane Ludovico, nonostante le difficoltà, ha però fatto tesoro della sua esperienza per iniziare a maturare e scegliere consapevolmente e responsabilmente: il giovane ventiquattrenne si è reso conto, infatti, che l'amore ed il rispetto per la sua famiglia rappresentano per lui un valore inestimabile e che il futuro dipende dai suoi soli sforzi, avendo ereditato però dai suoi genitori quell'educazione che gli ha permesso di andare avanti, nonostante le grandi difficoltà riscontrate nel suo cammino.

 Il giovane Ludovico ha così compreso come la qualità della vita dipenda dalle sue scelte, dal suo grado di autonomia ed autorealizzazione, essendo ben consapevole che i valori che contano veramente non siano quelli basati sul denaro e sul conseguimento immediato dei risultati, ma quelli che trovano fondamento nella fiducia in se stessi e nella propria forza interiore, così da non essere mai fragili e manipolabili.

 Nel rivolgersi al ragazzo, Umberto Galimberti, con estrema chiarezza, fa riferimento ai giovani ragazzi di oggi che non credono più in niente, il loro futuro non appare più come una promessa ma come uno scenario vuoto.

 Ecco allora l'importanza di guardare in faccia la realtà e di non rassegnarsi perché la felicità la si ritrova nelle piccole cose, giorno dopo giorno, lottando per quello in cui si crede, senza mai desistere, ma anzi riscoprendo una forza interiore che forse neppure si era mai immaginati di possedere.

 Occorre imparare l'arte del vivere, dove a sorprenderci non sono mai le cose, ma il nostro modo di guardarle ed eventualmente di cambiarne il significato, per cui anche una rinuncia, anche una prigione, diventa espressione di libertà.

 Ecco allora il messaggio che Umberto Galimberti vuole trasmetterci: possiamo essere liberi anche quando la realtà ci imprigiona. Siamo noi i fautori del nostro destino e siamo noi che possiamo cambiare le cose, senza mai arrenderci, perché anche se la vita può metterci alla prova, sconvolgendo tutti i nostri piani, noi saremo sempre in grado di rialzarci e di reinventarci, ma solo ed esclusivamente se lo vogliamo e se abbiamo imparato cosa significhi essere felici, riscoprendo sempre il lato positivo delle cose, anche nelle situazioni più difficili, quelle in cui sarebbe più semplici chinare la testa ed arrendersi. Occorre, quindi, fare un passo indietro per recuperare quei valori che non passano mai di moda, farli propri, e camminare, solo dopo, in avanti.

 A scuola oggi

 


venerdì 4 dicembre 2020

LA VOCAZIONE E LA FELICITA'


Una sfida

 molto concreta

 

Mariolina Ceriotti Migliarese

Ognuno di noi desidera realizzare nella vita qualcosa di unico e di personale, e sente che la sua felicità dipende dalla riuscita o dal fallimento di questo compito; a questo compito possiamo dare nomi diversi, ma la parola che usiamo per definirlo cambia in modo radicale il nostro modo di affrontare la vita.

La prima parola possibile è “vocazione”. In questa parola è contenuta l'idea di una chiamata: qualcosa o Qualcuno ci interpella e la nostra vita si realizza rispondendo a questo appello. Essere felici vuol dire impegnare le nostre capacità perché si realizzi ciò che solo a noi, con le nostre caratteristiche specifiche, è dato realizzare. Per questo nell'idea di “vocazione” è contenuto anche il pensiero che il baricentro vitale non sia collocato tanto sull'io, quanto piuttosto su ciò che dall'io e dalla sua creatività può scaturire: l'opera che riusciamo a compiere, le relazioni che riusciamo a far vivere, il figlio che attraverso di noi ha potuto nascere. Nell'idea di “vocazione” è sempre in qualche modo presente anche un “noi”, un'idea di comunità.
La seconda parola, di gran lunga oggi la più utilizzata, è ”autorealizzazione”.

È una parola che non implica la risposta a una chiamata o a un compito, ma contiene piuttosto l'idea che la felicità dipende dal successo che riusciamo a ottenere: la persona meglio realizzata è quella capace di avere più visibilità e più denaro; in campo affettivo, quella capace di ottenere più amore. Anche secondo questa logica mettere a frutto le proprie risorse è una cosa importante; ma in questo caso l'accento è posto soprattutto su di sé e sulla propria soddisfazione: nell'idea di “autorealizzazione” il “noi” è secondario e l'idea di comunità inessenziale.
Anche nella vita affettiva e di coppia, l'idea che abbiamo della felicità (come risposta a una vocazione o come auto-realizzazione) comporta una differenza essenziale di prospettiva, che cambia il modo di affrontare le vicende buone e meno buone del nostro rapporto.
Quando ci sposiamo facciamo una cosa unica e singolare: decidiamo cioè di scegliere un compagno/a che da quel momento in poi potrà camminare con noi per sempre, fino alla fine del nostro percorso. Il matrimonio rappresenta una scelta vocazionale molto forte, perché se accettiamo di viverlo la nostra chiamata specifica alla felicità si declinerà attraverso quell'incontro, con quella particolare persona che arriva da una storia profondamente diversa dalla nostra.

Non è facile cogliere fin dall'inizio la portata di questa differenza, perché quando ci innamoriamo vediamo soprattutto quello che ci unisce e ci avvicina: vediamo la parte del volto che l'altro ha rivolto con amore verso di noi. Ma l'altro è sempre oltre ciò che vediamo: è diverso, è sé stesso; la sua vita è iniziata prima del “noi” e continua anche al di là del “noi”. È una libertà che ci cammina a fianco, una totalità mai del tutto conosciuta.

Camminare insieme non significa abbandonare la ricerca del nostro compito personale; da quel momento in poi però la vocazione di ciascuno si declinerà in un modo nuovo, di cui l'altro farà sempre parte. Con e attraverso di lui (lei) siamo sfidati a diventare noi stessi in modo diverso; con e attraverso di lui (lei) possiamo diventare padre o madre; con e attraverso di lui (lei) possiamo costruire una realtà nuova che ci trascende: una famiglia nostra, con caratteristiche che solo noi insieme potremo darle. Con qualsiasi altra persona, ciascuno di noi darebbe vita a qualcosa di completamente diverso.

Qualcosa di migliore? Non lo so. So però che la “vocazione”, così come ho cercato di definirla, non è un'ipotesi astratta, ma un percorso di vita molto concreto, che prende forma a partire da ciò che siamo e da ciò che ci accade. La nostra felicità possibile dipende da questo, e la nostra creatività può e deve applicarsi proprio qui, nel luogo
preciso nel quale ci troviamo storicamente a vivere.

 www.avvenire.it