lunedì 29 settembre 2025

IL SOVVERSIVO DI NAZARETH


 La conversione dell'operaio

 che non voleva 

essere il Messia


Dopo Se il cielo adesso è vuoto. È possibile credere in Gesù nell’età post-religiosa?, il giornalista e regista Gilberto Squizzato dedica il suo nuovo libro alla ricerca del Gesù storico tramite un’indagine rigorosa volta a superare le troppe deformazioni religiose e i molti travisamenti moralistici che collocano il suo Vangelo in una dimensione del tutto astratta e disincarnata.

Tante le domande a cui intende rispondere l’avvincente inchiesta descritta in questo libro. Gesù venne al mondo per mettere in scena un copione deciso nell’alto dei cieli o il figlio di Maria costruì faticosamente la propria identità umana? E come giunse progressivamente a comprendere che era arrivato per lui il momento di quella che possiamo definire proprio come una “conversione” non solo religiosa? Perché scelse Cafarnao quale centro propulsore della sua azione pubblica? Fu lui a chiamare i Dodici o fu invece un primo nucleo di spiriti inquieti della turbolenta Galilea a costituirlo come capo di una banda di rivoltosi fuorilegge? Gesù identificò davvero fin dal principio se stesso come il “Figlio dell’Uomo” (il Messia) che secondo le profezie di Daniele avrebbe ristabilito l’Impero di Dio? E quello dei gesuani fu un movimento pacifico o ebbe anche i tratti di una cospirazione armata antiromana?

Questa scrupolosa e documentata ricerca storica ci rivela un Gesù di Nazareth molto più concreto, determinato e politicamente combattivo di quanto normalmente non si creda.
Un autentico sovversivo che chiede ai suoi conterranei una radicale rivoluzione antropologica da cui deve scaturire al più presto un nuovo assetto economico, sociale e politico della Palestina del suo tempo.

 La parola e l’azione di Gesù non affiorano prodigiosamente dal nulla ma si nutrono della storia collettiva di un popolo, delle sue convinzioni, dei suoi dolori, delle sue speranze, delle sue attese. Ecco perché è indispensabile conoscere almeno per sommi capi non l’Israele raccontato dalla dottrina cattolica e tutto visto in funzione del Cristo, ma l’Israele reale dei secoli che precedettero l’avvento dell’uomo di Nazareth.

Sono convinto che in questo modo ci avvicineremo, per quanto possibile, a un Gesù di Nazareth molto più umano di quanto crediamo, molto più determinato e politicamente combattivo di quello in cui ci hanno insegnato a credere: un autentico sovversivo che con la sua banda di fuorilegge osa attentare all’ordine costituito, sia religioso che politico, e che propone ai suoi conterranei quella che oggi chiameremmo una vera e propria “rivoluzione antropologica” alla quale lui stesso perviene grazie a una lunga, laboriosa “conversione” che costituisce appunto il tema centrale di questo libro.

 

Squizzato, Il sovversivo di Nazareth

La conversione dell'operaio che non voleva essere il Messia, ed. Gabrielli, 2025


sabato 27 settembre 2025

NEGLI INVISIBILI L'ETERNO


IL RICCO EPULONE

In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C'era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: "Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma". Ma Abramo rispose: "Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi". E quello replicò: "Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento". Ma Abramo rispose: "Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro". E lui replicò: "No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno". Abramo rispose: "Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti"».  

Lc 16, 19-31

Commento di fra Ermes Ronchi

NEGLI INVISIBILI, L'ETERNO

Nessuno ha il diritto di ridurre a nulla l’altro. Il sangue del male, la linfa oscura è l’indifferenza, il lasciare intatto l'abisso fra le persone.

C'era una volta un ricco... e un povero alla sua porta: inizio da favola antica. Il ricco è senza nome, il povero ha il nome dell’amico di Gesù, Lazzaro. Uno è vestito di piaghe, l'altro di porpora. Uno è sul tetto del mondo, l’altro è in fondo alla scala. I due protagonisti si incrociano ma non si incontrano, tra loro c’è un abisso.

È questo il mondo sognato da Dio per i suoi figli? Un Dio che non è mai nominato nella parabola, eppure è lì. Non abita i riflessi della porpora ma le piaghe di un povero; non c'è posto per lui dentro il palazzo.

Forse il ricco è perfino un devoto, osserva i dieci comandamenti, e prega: “o Dio tendi l'orecchio alla mia supplica”, mentre è sordo al lamento del povero. Lo scavalca ogni giorno come si fa con una pozzanghera.

Di fermarsi, di toccarlo neppure l'idea: il povero Lazzaro è invisibile, nient'altro che un'ombra fra i cani. Attenzione agli invisibili attorno a noi, vi si rifugia l'Eterno.

“Tra noi e voi è posto un grande abisso”, in terra come in cielo, dice Abramo. Il ricco poteva colmare il baratro che lo separa­va dal povero, e invece l'ha ra­tificato e reso eterno.

Che cosa scava grandi fossati tra noi, o innalza muri e ci separa?

Il ricco non ha fatto del male al povero, non lo ha aggredito o scacciato. Fa qualcosa di peggio: non lo fa esistere, lo riduce a un rifiuto, uno scarto, un nulla. Semplicemente Lazzaro non c'era, invisibile ai suoi pensieri. E lo uccideva ogni volta che lo scavalcava. Nessuno ha il diritto di ridurre a nulla l’altro. Il sangue del male, la linfa oscura è l’indifferenza, il lasciare intatto l'abisso fra le persone. Invece «il primo miracolo è accorgersi che l'altro esiste» (S. Weil), e provare a colmare l'abisso di ingiustizia che ci separa.

Nella seconda parte della parabola la scena si sposta dal tempo all’eternità. Morì il povero e fu portato nel seno di Abramo, morì il ricco e fu sepolto negli inferi.

L'eter­nità inizia quaggiù, sarà la len­ta maturazione delle nostre scelte senza cuore. Mente l'inferno è, in fondo, la dichiarazione che è possibile fallire la vita.

Perché il ricco è condannato? Per la ricchezza, i bei vestiti, la buona tavola? No, Dio non è moralista; a Dio stanno a cuore i suoi figli. Il peccato del ricco è l’abisso con Lazzaro, neppure un gesto, una briciola, una parola. Tre verbi sono assenti nella storia del ricco: vedere, fermarsi, toccare. Mancano, e tra le persone si scavano abissi, si innalzano muri.

Questo è il comportamento che san Giovanni chiama, senza giri di parole, omicidio: chi non ama è omicida (1 Gv 3,15).

Ma “figlio” è chiamato anche lui, nonostante l'inferno, anche lui figlio per sempre di un Abramo dalla dolcezza di madre: “Padre, una goccia d'acqua! Una parola sola per i miei cinque fratelli!”

E invece no, perché non è la morte che converte, ma la vita.

«Se stai pregando e un povero ha bisogno di te, lascia la preghiera e vai da lui. Il Dio che trovi è più sicuro del Dio che lasci (san Vincenzo de Paoli)».

Cercoituovolto

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ANTIQUA ET NOVA

 

ETICA 

E

INTELLIGENZA

 ARTIFICIALE 


Antiqua et nova” offre una guida sugli sviluppi etici dell’IA

Il segretario del Dicastero per la Cultura e l'Educazione illustra il documento vaticano sull’Intelligenza Artificiale sottolineandone il grande potenziale e nello stesso tempo evidenziando la necessità che l'umanità ne guidi lo sviluppo attraverso una responsabilità collettiva per il bene di tutti

Devin Watkins - Città del Vaticano

Un contributo al dibattito sul tema dell'IA, offrendo una guida etica e spunti di riflessione. Così il vescovo Paul Tighe, segretario del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, sintetizza il documento Antiqua et nova: Nota sul rapporto tra l’intelligenza artificiale e l’intelligenza umana pubblicato oggi, 28 gennaio, dal suo Dicastero e quello per la Dottrina della Fede. Parlando ai media vaticani, Tighe sottolinea che con la Nota si desidera contribuire al dibattito sul tema dell'IA offrendo una guida etica e degli spunti di riflessione. “C’è una comprensione più ampia dell’intelligenza – afferma – che ha a che fare con la nostra capacità umana di trovare nelle nostre vite uno scopo e un significato, e questa è una forma di intelligenza che le macchine non sono proprio in grado di sostituire”. Di seguito pubblichiamo una traduzione dall’inglese di alcuni stralci dell’intervista a monsignor Tighe (QUI INTEGRALE IN INGLESE).

La Santa Sede: IA opportunità, ma l’uomo può diventare schiavo delle macchine

Pubblicata la Nota sul rapporto tra Intelligenza Artificiale e Intelligenza umana dei Dicasteri per la Dottrina della Fede e per la Cultura e l’Educazione: “L’IA non è una forma ...

Cosa c’è di “nuovo” in questo documento e cosa spera di comunicare al mondo, in particolare alla Chiesa?

Il documento riunisce molte riflessioni che sono state sviluppate in maniera organica in questi ultimi anni. Quello che cerca di fare è offrire alle persone alcune prospettive da cui poter iniziare a pensare in modo critico all'IA e ai suoi potenziali benefici per la società, e poi allertare le persone su ciò a cui dobbiamo prestare attenzione per assicurarci di non aver creato inavvertitamente qualcosa che potrebbe essere dannoso per l'umanità e la società. Mi verrebbe da dire che c’è un certo elemento di cautela qui. Tanti di noi, con l’avvento dei social media, sono stati velocissimi nello sposare il loro straordinario potenziale. E forse non abbiamo visto invece quali potevano essere i risvolti negativi in termini di polarizzazioni, fake news e altre questioni. Vogliamo accogliere un qualcosa che ha un enorme potenziale per l’essere umano: vogliamo vedere questo potenziale, ma al tempo stesso prestare attenzione ai possibili effetti controproducenti. E penso che questo è quello che stiamo cercando di fare qui. Un giorno leggiamo sui titoli dei quotidiani che l’IA sarà la salvezza di noi tutti e il giorno dopo che causerà l’annientamento e la fine del mondo. Cerchiamo di offrire alle persone un approccio più equilibrato. Il documento si sofferma su una serie di punti. Ci sono alcune questioni principali legate al futuro dell’occupazione, alla guerra, le deepfake e le disuguaglianze. Ci sono questioni etiche e questioni sociali sulle quali vogliamo soffermarci. Tuttavia, nell’affrontare questi temi, cerchiamo al tempo stesso di interrogarci e focalizzarci su una questione che è più alla base, ovvero sulla questione antropologica del cosa significhi essere umani. Che cos’è che dà alla vita umana un valore, uno scopo, un significato? Noi riconosciamo che i sistemi dell’IA possono rafforzare e migliorare alcuni aspetti della nostra umanità, come la nostra capacità di ragionare, di elaborare, discernere, scoprire, scorgere strade, generare innovazioni. Quello che noi vogliamo affermare è che esiste una comprensione più ampia dell’intelligenza che ha a che vedere con la nostra capacità umana di trovare uno scopo e un significato nella vita. Parte della domanda che ci dobbiamo porre è la seguente: che cos’è che è un bene per l’umanità? Che cos’è che incoraggia il benessere dell’essere umano? E questa è una forma di intelligenza che le macchine non sono proprio in grado di sostituire. Nella tradizione cattolica la maniera in cui noi intendiamo l’intelligenza è più di un semplice ragionare, calcolare ed elaborare, ma comprende anche la nostra capacità di andare alla ricerca di uno scopo, di un significato e di una direzione nelle nostre vite. Penso che ciò che ci preoccupa sempre sia la ricerca della verità ultima, di cosa è che dà forma, scopo e significato alla vita. Quindi possiamo usare l'IA per far sì che questa ci aiuti in alcuni aspetti ma, in ultima analisi, la nostra dimensione intellettuale va al di là  qualcosa che può essere svolto semplicemente da una macchina.

L’IA, strumento che non sostituisce la ricchezza dell’umano

Punti fermi del nuovo documento sull’intelligenza artificiale dei Dicasteri per la Dottrina della fede e per la Cultura e l'Educazione

Lo sviluppo dell’IA va avanti a rapidi passi. Perché i Dicasteri per la Dottrina della Fede e per la Cultura e l'Educazione hanno deciso di rilasciare la Nota in questo momento?

Di certo, dal nostro punto di vista, per quanto riguarda il mondo dell’educazione, tutti gli educatori si stanno ponendo domande su quale sia il potenziale dell’IA nell’ottica di un supporto all’educazione e sui rischi di una qualche spersonalizzazione, a causa di quest’ultima, della natura stessa dell’educazione. Stiamo al tempo stesso rispondendo alle domande che ci vengono poste durante le visite ad limina, perché i vescovi hanno bisogno di una qualche indicazione al riguardo. Il documento nasce da questo e raccoglie e mette insieme molte altre iniziative. Esso inoltre offre un’unità di visione, che cerca di unire le questioni etiche e collegarle a quella visione antropologica più fondamentale di ciò che ci rende umani. L’Unesco ha affermato che – e questo è quello che mi ha colpito di più – sta portando a quella che loro definiscono una “disruptio antropologica”. La Silicon Valley ama il linguaggio della rottura, del fare in pezzi per reinventare. Tuttavia qui, quando parliamo della natura di ciò che è un essere umano è molto importante che riflettiamo in maniera critica su questo senza bypassare la domanda sul significato ultimo della vita. E qui penso che le questioni che emergono fortemente in questo documento riguardano il rischio di una disuguaglianza che aumenta con l’IA. Ciò si può vedere, in generale, da ciò che è successo con la digitalizzazione, che ha portato all'aumento di un numero molto piccolo di persone straordinariamente ricche, con enormi quantità di potere, e che non necessariamente sono responsabili nei confronti di altre istituzioni. Quindi, come pensiamo di fare in modo che tutto ciò non contribuisca a fratturare l'unità della famiglia umana, che deve essere unita anche nell’accesso al potere e alle informazioni? Un ambito in cui l'IA ha un potenziale straordinario è quello della salute. Ma sappiamo che la sanità già tende ad essere distribuita in maniera non molto equa. L’IA porterà a ulteriori disuguaglianze in questo settore? Una gran parte delle nostre riflessioni affrontano questi temi.

Quando si pensa alla relazione dell'umanità con l'IA vengono in mente i racconti di fantascienza di Isaac Azimov, Il Ciclo dei Robot. Secondo lei questa Nota adotta un punto di vista più favorevole o più cauto nei confronti dell'Intelligenza Artificiale?

Mi auguro che adotti un punto di vista che si situi nel mezzo, ovvero che non abbracci nessuna delle due visioni apocalittiche. E neanche sta provando ad immaginare che, da sola, l’IA sarà alla base della soluzione di tutti i problemi dell’umanità. Sta cercando di vedere il potenziale che l'IA rappresenta. È una riflessione sulla capacità che ha l’umanità di imparare, di innovare, di svilupparsi, che è una capacità che ci è data da Dio. Noi vogliamo celebrare tutto questo. Nello stesso tempo, conosciamo tante straordinarie innovazioni che nel passato avevano un enorme potenziale, ma che poi si sono rivelate problematiche per una serie di motivi. Problematiche perché forse sussistevano intrinseci difetti nei sistemi stessi. Problematiche perché le persone potevano usare la stessa tecnologia per cose molto buone ma al tempo stesso per raggiungere scopi molto brutti. A volte problematiche perché i sistemi - e qui stiamo pensando all’IA - sono stati sviluppati in un particolare contesto commerciale e politico e potrebbero già essere segnati dai valori propri di quegli ambienti.

 Benanti: un documento che aiuta a farci le domande giuste

A colloquio con l’esperto di etica delle tecnologie che studia l’impatto dell’intelligenza artificiale sull’informazione: la Nota dei due Dicasteri invita alla responsabilità

Vogliamo sviluppare un pensiero critico e far sì che l'IA sia uno strumento che possa essere usato dall'umanità in modo tale che realizzi il suo potenziale benefico per tutti gli esseri umani. L’umanità la bisogno di avere il controllo dei processi e deve prestare attenzione a che ci sia un senso di responsabilità. E qui è dove i racconti de “Il Ciclo dei Robot” di Azimov entrano in gioco. Dove risiederà la responsabilità?

Le macchine dell’IA faranno cose straordinarie. Ci saranno delle volte in cui non riusciremo a capire come le stanno facendo. Stanno sviluppando una capacità di riprogrammarsi e di avanzare da sole. Quindi, quello che dobbiamo fare è cercare di capire: dove risiede la responsabilità? Nel settore, molti ora parlano di un’IA che è "etica per progettazione" (“ethical by design”). Quindi dovremmo pensare fin dall'inizio: quali sono i problemi? Quali sono le difficoltà? Come possiamo pianificare le cose in modo tale da evitare i problemi? Quindi, tutto ciò significa: come facciamo a renderla sicura, in modo che funzioni bene, che non abbia malfunzionamenti? Come facciamo a garantire che non venga facilmente sfruttata da persone che potrebbero usarla per scopi negativi? Come facciamo ad assicurare che l’IA sia qualcosa che rispecchi il meglio di noi in quanto esseri umani?
Per questo motivo, cerchiamo sempre di ritenere responsabili chi progetta, pianifica, sviluppa, ma anche chi utilizza l’IA.

Se potesse mettere in luce un aspetto di questo documento, quale sarebbe?

Quello che vorrei dire alle persone che si troveranno a leggere questo testo è che, sia che siano cattoliche o che non lo siano, l’obiettivo è quello di essere il più informati possibile su ciò che sta succedendo in questo momento, senza sentirsi impotenti o esclusi. Lo dico da persona che ha già percorso un bel tratto di vita, e lo sto dicendo alla mia generazione, per non sentirsi come se ci stessimo tirando indietro.  Una cosa che direi alle persone è di cominciare ad usare le tecnologie, esplorarle, vedere quanto esse sono straordinarie, ma allo stesso tempo iniziare a sviluppare un punto di vista critico nei loro confronti, imparare come riuscire a valutarle e riflettere su di esse.

Un aspetto che prenderei del documento è l’importanza della responsabilità. Ognuno dovrebbe pensare al proprio grado di responsabilità - e ciò riguarda e si estende anche all’utente - e  domandarsi: inizierò a condividere contenuti che so essere dubbi o che immagino potrebbero incitare all’odio? E così assumermi la responsabilità per come uso l’IA.

 

Vatican News

 

 

 

 


IL MAESTRO, LE REGOLE E LA LEGGE


 “La scuola uccide l’apprendimento con regole standardizzate, 

servono maestri veri che parlino

 solo di ciò che davvero li appassiona”




-di Andrea Carlino

Lo psichiatra Massimo Recalcati ha offerto al Festival della Comunicazione una riflessione profonda sulla figura del maestro nella società contemporanea.

“In un’epoca che sputa sui padri, sull’autorità simbolica e anche sui maestri, occorre tornare a fare un elogio del maestro”, ha esordito l’autore, forte della sua esperienza ventennale nelle università italiane. La sua definizione risulta netta e provocatoria: Maestro si riconosce dal fatto che può parlare solo di ciò che gli preme.

Non l’erudito che domina ogni argomento con la stessa competenza, ma colui che è “pressato da un pensiero che non governa, da un’urgenza” che lo spinge verso la verità. Recalcati distingue così il “pensiero tranquillo” dell’analista dal pensiero ardente del maestro, sottolineando come quest’ultimo non possa che esprimersi su ciò che lo appassiona davvero.

La rivoluzione contro le regole standardizzate

L’intervento ha posto l’accento sulla differenza fondamentale tra regole e legge nell’educazione contemporanea. “Il nostro tempo commette un errore fondamentale: non distingue più la dimensione della regola dalla dimensione della legge”, ha spiegato lo psichiatra.

Le regole rappresentano impedimenti esterni che selezionano comportamenti – come i semafori nel traffico – mentre la legge deve essere “scritta nel cuore”. Recalcati ha criticato duramente l’approccio regolativo dominante: “Concepiamo l’educazione come un dressage psicotecnico, ma la vita del figlio non è la vita di un cavallo”.

La formula che guida questo ragionamento è semplice ma rivoluzionaria: “L’insistenza genera resistenza”. Mangia, mangia, mangia produce disturbi alimentari; studia, studia, studia genera disaffezione. L’educazione autentica deve invece trasmettere “nel cuore della vita del figlio il senso della legge del non tutto” – la consapevolezza che non tutto è possibile, conoscibile, governabile.

L’arte di essere “corrente d’aria fresca”

La descrizione più suggestiva riguarda le qualità essenziali del maestro autentico. “Quando entra in aula un maestro, entra una corrente d’aria fresca”, ha affermato Recalcati, citando l’esempio di Jean-Paul Sartre descritto da Deleuze. Il maestro deve essere anti-scolastico pur lavorando dentro il dispositivo scolastico, capace di rovesciare ogni scolastica attraverso l’ispirazione.

So di aver fatto una buona lezione quando uscendo dall’aula mi accorgo di aver imparato qualcosa”, citando Giovanni Gentile. Recalcati ha utilizzato la metafora dell’onda per spiegare l’apprendimento autentico: come il bambino che impara a nuotare deve passare dall’imitazione del maestro sulla spiaggia all’incontro solitario con l’onda, così l’allievo deve trasformare il sapere ricevuto in stile proprio.

La saggezza suprema del maestro consiste nel “saper tramontare nel tempo giusto”, lasciando che l’allievo trovi la propria strada. Un insegnamento che richiede coraggio e libertà tanto da parte di chi trasmette quanto di chi riceve.

 Orizzonte Scuola

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EUROPA SENZA FEDE E DIREZIONE

 

Intervista a Roberto Repole 

a cura di Giacomo Galeazzi



«Non possiamo permetterci la rassegnazione. La deriva della guerra si contrasta solo con la capacità di ragionare», dice il cardinale Roberto Repole, arcivescovo di Torino e Susa, membro in Vaticano dell'ex Sant'Uffizio e in Cei della Commissione per l'educazione cattolica, per quasi un decennio presidente dei teologi italiani. Dal 9 al 12 ottobre Torino ospiterà il Festival della Missione, terza edizione della rassegna che accende i riflettori sull'impegno internazionale della Chiesa, sull'annuncio del Vangelo e la costruzione della pace. A ospitarla e a inquadrarne il significato in un mondo sull'orlo di una escalation bellica è il porporato torinese impegnato anche nell'organizzazione del Sinodo dei vescovi. 

In Palestina e Ucraina la voce dei cannoni. Gli appelli? 
«Prima degli appelli ci sono la vita concreta e i gesti come quello della parrocchia di Gaza che ha rifiutato di abbandonare la città e con coraggio sta aspettando che arrivino i carri armati. Gli appelli del Papa e della Chiesa danno voce a questo coraggio e alla terribile sofferenza delle vittime, ma si pongono anche obiettivi molto concreti, direi operativi: contestare il clima di rassegnazione internazionale e strattonare il mondo perché recuperi la capacità di ragionare». 

Il mondo non ragiona? 
«Mi sembra che lo stia facendo sempre meno. Oggi il mondo improvvisa. È il più grande problema che abbiamo in questo momento: la superficialità. Con la complicità dei social media, che hanno preso il centro della scena, ascoltiamo fiumi di schiamazzi, ma poche idee. Non c'è da stupirsi se anche i governanti improvvisano. La fragilità del pensiero collettivo appare chiara rispetto alle guerre (si pensa solo al riarmo), ma anche di fronte all'emergenza ambientale, alla crisi demografica o ai temi etici come il fine vita, lo scandalo delle povertà, l'emergenza educativa. Non siha più voglia di ragionare a fondo su niente. Pochi guardano lontano, la massa si accontenta di arrivare alla sera». 

Ciò accade ovunque? 
«Di sicuro è un problema dell'Occidente. La crisi culturale è più che evidente in Europa e negli Stati Uniti, molto meno in altre regioni del mondo che danno la sensazione di sapere dove vogliono andare. Noi non lo sappiamo più. Abbiamo voluto credere che l'unica regola della convivenza fosse il denaro e che non servissero altri riferimenti valoriali. Era una menzogna disumanizzante. E il cuore dell'uomo ha bisogno di altro. Così adesso ci troviamo a balbettare, non sappiamo come entrare nel futuro, non ci capacitiamo che scoppino le guerre». 

Mattarella evoca il 1914
«Purtroppo non esagera. Oggi la situazione potrebbe essere più grave ancora: lo sviluppo tecnologico ha prodotto armi terrificanti. Abbiamo assistito a una crescita tecnica a cui non è corrisposto uno sviluppo di riflessione antropologica, né di pensiero morale. Abbiamo teorizzato che tecnologia e progresso fossero la stessa cosa e anche qui abbiamo mentito. Dipende dove si orienta la tecnologia: il progresso reale comporta il bene complessivo dell'essere umano e si gioca su molte altre dimensioni della vita, relazionali e spirituali. Averlo dimenticato, aver abdicato ad una riflessione sull'uomo e sul suo fine, aver cessato di chiederci quali strumenti sono buoni e quali cattivi, è il vero fallimento dell'Occidente». 

Come si è arrivati a questo? 
«Forse è avvenuto perché abbiamo dato per scontate le acquisizioni del Novecento: la pace, il welfare, la salute. Abbiamo tramandato la memoria delle guerre, ma non abbiamo più sentito il bisogno di riflettere sulle radici della pace che nasceva dalla coscienza etica delle generazioni che ci hanno preceduto. Rischiamo di perdere quello che abbiamo perché non abbiamo fatto manutenzione, non abbiamo considerato che la pace e il benessere non sono definitivi. Sono un processo dinamico». 

In che modo si sviluppano? 
«Trovano sorgente nel nostro lavoro interiore, nella lotta contro l'egoismo, l'odio, il desiderio di vendetta, l'indifferenza, il disprezzo della vita. Lo dicevano subito dopo la tragedia della seconda guerra mondiale i padri del Concilio Vaticano II, nella "Gaudium et spes", e pensatori come Mounier o Maritain. Ed era in qualche modo evidente anche ai più grandi pensatori della modernità. È vero, oggi l'Europa conosce una certa secolarizzazione spirituale, ma ha tradito anche l'Illuminismo nella sua intuizione di fondo: che la libertà comporti l'assunzione di una responsabilità etica». 

Vede solo nubi all'orizzonte? 
«No, ma cerco di chiamare i problemi con il loro nome, perché è questo che ci può permettere di affrontarli. Finché lo facciamo, sappiamo che è possibile riprendere un compito che abbiamo dismesso: quello di educare le coscienze, orientandole verso qualcosa per cui vale la pena di vivere. Finché lo facciamo, continuiamo ad avere fiducia che c'è nell'uomo un desiderio di pace, di fratellanza, di rispetto per ogni vita umana e di riflessione, che resiste alla superficialità che si è imposta e all'idea che la libertà sia dare sfogo a tutte le passioni dell'anima».



SCUOLE SENZA PERMESSO


 Stranieri. Nelle «Scuole senza permesso» si impara la lingua dell'integrazione




-         -di Maurizio Ambrosini 

È suonata la campanella nelle scuole di tutta Italia, e gli alunni di ogni età sono tornati sui banchi. Tra loro, fra l’altro, oltre 900.000 privi della cittadinanza italiana.

Ma un altro sistema educativo ha riaperto le porte: i corsi d’italiano per stranieri. Una parte è organizzata dal sistema pubblico, mediante i Centri Provinciali per l’Istruzione degli adulti (Cpia), con oltre 200.000 iscritti nel 2023/2024. Un’altra cospicua parte invece è mandata avanti da una galassia d’iniziative associative ed ecclesiali, distribuite in tutto il Paese, con l’apporto di migliaia di volontari.

A Roma e nel Lazio la rete Scuolemigranti raccoglie un centinaio di associazioni e più di 10.000 iscritti ai corsi ogni anno. A Milano e dintorni, esiste da dieci anni una rete che coordina una quarantina di scuole, giovandosi di 250 insegnanti volontari e accogliendo circa 3.000 studenti. Si è data un nome emblematico: “Scuole senza permesso”.

 Caratteristica delle scuole mandate avanti da soggetti della società civile è infatti la flessibilità organizzativa, la moltiplicazione delle soluzioni praticate in termini di orari e modalità d’insegnamento, nonché la capacità d’intercettare anche persone che per diversi motivi non riescono a rientrare negli schemi dell’offerta educativa pubblica.

Troviamo infatti scuole che offrono corsi al mattino per le mamme che hanno qualche ora disponibile dopo aver accompagnato i figli a scuola, oppure servizi di baby-sitting per accudire i più piccoli mentre le madri partecipano alle lezioni, oppure ancora corsi per sole donne e con insegnanti donne per riuscire a coinvolgere studenti che per vincoli culturali e religiosi non parteciperebbero a corsi misti. Intorno ai corsi poi spesso si sviluppano attività socializzanti e di tempo libero. Molti insegnanti non solo danno prova di creatività, inventando moduli didattici e modalità d’insegnamento non convenzionali, agganciate alla vita quotidiana e alle sue necessità, ma diventano punti di riferimento e consulenti anche per molte esigenze extrascolastiche: ricerca di lavoro, casa, orientamento nei meandri della burocrazia. Qui prendono forma le basi dell’integrazione e della convivenza auspicabile.

Il possesso della lingua è un fattore basilare dell’integrazione degli immigrati, una risorsa essenziale per trovare e migliorare il lavoro, interagire con i servizi pubblici (pensiamo alla sanità), seguire i figli nell’apprendimento, costruire relazioni con la popolazione locale. Ma la lingua è nello stesso tempo anche un fattore di emancipazione, come insegnava don Milani: il mezzo per potersi esprimere in pubblico, partecipare alla vita sociale, diventare attori a pieno titolo della società italiana.

Per provare a uscire dall’integrazione subalterna che il mercato del lavoro e tanta parte della società italiana sembra richiedere agli immigrati. Le scuole d’italiano sono anche scuole di cittadinanza, nel duplice risvolto del termine: scuole in cui insieme alla lingua, s’imparano le regole della vita in comune in un nuovo paese, e in cui la lingua è il veicolo della presa di parola e della partecipazione democratica.

Dal punto di vista degli interessi nazionali, invece di lamentare la mancata integrazione, l’incapacità di comunicare, la formazione di società parallele e separate, sarebbe fondamentale estendere l’esperienza delle scuole d’italiano là dove ancora non esistono o non sono sufficienti, dotarle di sedi e attrezzature più adeguate quando ne sono carenti, aumentare il numero di volontari coinvolti per rendere più efficace e personalizzato l’insegnamento.

Più scuole d’italiano, più immigrati accolti e formati, più esperienze di successo educativo, significano meno spaesamento, meno emarginazione, meno derive devianti, meno rischi di banlieues nelle nostre città.

www.avvenire.it



 

 

venerdì 26 settembre 2025

UN APPRENDIMENTO SENZ'ANIMA

  

“La scuola uccide l’apprendimento con regole standardizzate. 
 Servono maestri veri che parlino solo di ciò che davvero li appassiona”



-         di Andrea Carlino

 Lo psichiatra Massimo Recalcati ha offerto al Festival della Comunicazione una riflessione profonda sulla figura del maestro nella società contemporanea.

“In un’epoca che sputa sui padri, sull’autorità simbolica e anche sui maestri, occorre tornare a fare un elogio del maestro”, ha esordito l’autore, forte della sua esperienza ventennale nelle università italiane. La sua definizione risulta netta e provocatoria: Maestro si riconosce dal fatto che può parlare solo di ciò che gli preme.Non l’erudito che domina ogni argomento con la stessa competenza, ma colui che è “pressato da un pensiero che non governa, da un’urgenza” che lo spinge verso la verità. Recalcati distingue così il “pensiero tranquillo” dell’analista dal pensiero ardente del maestro, sottolineando come quest’ultimo non possa che esprimersi su ciò che lo appassiona davvero.

La rivoluzione contro le regole standardizzate

L’intervento ha posto l’accento sulla differenza fondamentale tra regole e legge nell’educazione contemporanea. “Il nostro tempo commette un errore fondamentale: non distingue più la dimensione della regola dalla dimensione della legge”, ha spiegato lo psichiatra.

Le regole rappresentano impedimenti esterni che selezionano comportamenti – come i semafori nel traffico – mentre la legge deve essere “scritta nel cuore”. Recalcati ha criticato duramente l’approccio regolativo dominante: “Concepiamo l’educazione come un dressage psicotecnico, ma la vita del figlio non è la vita di un cavallo”.

La formula che guida questo ragionamento è semplice ma rivoluzionaria: “L’insistenza genera resistenza”. Mangia, mangia, mangia produce disturbi alimentari; studia, studia, studia genera disaffezione. L’educazione autentica deve invece trasmettere “nel cuore della vita del figlio il senso della legge del non tutto” – la consapevolezza che non tutto è possibile, conoscibile, governabile.

L’arte di essere “corrente d’aria fresca”

La descrizione più suggestiva riguarda le qualità essenziali del maestro autentico. “Quando entra in aula un maestro, entra una corrente d’aria fresca”, ha affermato Recalcati, citando l’esempio di Jean-Paul Sartre descritto da Deleuze. Il maestro deve essere anti-scolastico pur lavorando dentro il dispositivo scolastico, capace di rovesciare ogni scolastica attraverso l’ispirazione.

So di aver fatto una buona lezione quando uscendo dall’aula mi accorgo di aver imparato qualcosa”, citando Giovanni Gentile. Recalcati ha utilizzato la metafora dell’onda per spiegare l’apprendimento autentico: come il bambino che impara a nuotare deve passare dall’imitazione del maestro sulla spiaggia all’incontro solitario con l’onda, così l’allievo deve trasformare il sapere ricevuto in stile proprio.

La saggezza suprema del maestro consiste nel “saper tramontare nel tempo giusto”, lasciando che l’allievo trovi la propria strada. Un insegnamento che richiede coraggio e libertà tanto da parte di chi trasmette quanto di chi riceve.

 Orizzonte Scuola

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LE MACERIE DI GAZA

  


E se 
la partecipazione rifiorisse 

sulle macerie di Gaza?




di Giuseppe Savagnone 

Una imponente manifestazione e le sue ragioni

I più anziani assicurano che da decenni non si assisteva a una mobilitazione popolare come quella del 22 settembre, in seguito allo sciopero generale indetto dell’Unione sindacati di base (USB) per Gaza. 

I giornali governativi hanno cercato invano di minimizzare la portata della manifestazione, parlando addirittura di un flop. A smentire questi tentativi di disinformazione ci sono – alla portata di tutti, su internet – le foto e i video dei cortei che in più di 80 città italiane hanno coinvolto un numero di persone strabocchevole, mai visto ultimamente. I numeri ufficiali, come sempre in questi casi, variano molto. Ma sicuramente si è trattato di centinaia di migliaia di partecipanti.

Al di là dell’aspetto quantitativo, ha colpito gli osservatori quello qualitativo. C’erano le persone più diverse: hanno sfilato per ore l’uno accanto all’altro operai, professionisti, madri di famiglia coi bambini in passeggino, anziani e anziane, ragazzi e ragazze di tutte le età. Un popolo.

Il destinatario della protesta, ovviamente, non erano Netanyahu e Hamas, i diretti responsabili, ma il nostro governo, che in tutto questo tempo ha sempre limitato unilateralmente la sua condanna ai terroristi islamici, per il massacro del 7 ottobre e la detenzione degli ostaggi, rifiutando invece di prendere posizione nei confronti della carneficina, di proporzioni enormemente superiori, che da quasi due anni Israele sta perpetrando.

La nostra premier continua a ripetere che nessuno Stato ha fatto tanto per Gaza quanto il nostro. 

Ma i fatti parlano diversamente.

L’Italia si è rifiutata di votare ben tre risoluzioni dell’Assemblea dell’ONU – rispettivamente il 27 ottobre 2023, il 13 dicembre dello stesso anno, il 15 settembre 2024 – volte a chiedere il cessate il fuoco e a fermare il massacro di civili. E, sempre in nome dell’esigenza di «non isolare Israele», ha addirittura accolto per due volte a Roma, con tutti gli onori, il presidente israeliano Herzog, proprio in questi giorni riconosciuto colpevole dalla Commissione indipendente dell’ONU del crimine di «genocidio».

Solo alla fine di agosto Meloni, davanti all’insorgere dell’opinione pubblica internazionale, ha ammesso che la reazione israeliana «è andata oltre il principio di proporzionalità, mietendo troppe vittime innocenti». Ma alle parole – peraltro molto blande – non hanno fatto seguito, da parte dell’Italia, né la sospensione delle forniture di armi, né quella del sostegno economico allo Stato ebraico. E anche il riconoscimento dello Stato palestinese – unico argine al dichiarato progetto israeliano di cancellare la popolazione di Gaza e della Cisgiordania –  è stato definito dal ministro degli Esteri Tajani «prematuro».

Al nostro paese Netanyahu non poteva chiedere di più. Anche rispetto agli altri governi europei, quello dell’Italia è stato insieme a quello degli Stati Uniti, il suo più fedele amico.

Era dunque al governo italiano che le centinaia di migliaia di manifestanti hanno chiesto un drastico cambio di passo, per cui, senza abbandonare la richiesta del rilascio degli ostaggi da parte di Hamas, si arrivi finalmente alla condanna di ciò che Israele sta facendo ai civili e a una pressione concreta per il cessate il fuoco, attraverso l’interruzione dei rapporti militari e commerciali con lo Stato ebraico.

A questo appello che saliva dalle piazze Giorgia Meloni ha risposto semplicemente ignorandolo e concentrandosi sulla condanna dei tafferugli che poche centinaia di estremisti hanno scatenato devastando l’ingresso della stazione ferroviaria di Milano: «Indegne – ha detto la premier – le immagini che arrivano da Milano (…). Violenze e distruzioni che nulla hanno a che vedere con la solidarietà e che non cambieranno di una virgola la vita delle persone a Gaza, ma avranno conseguenze concrete per i cittadini italiani, che finiranno per subire e pagare i danni provocati da questi teppisti».

È stato notato che la presidente del Consiglio non ha mai usato parole di sdegno così dure per i 70.000 palestinesi – in gran parte donne e bambini – uccisi in questi mesi, per non parlare dei due milioni e mezzo che sono stati affamati, assetati, umiliati, deportati con inaudita arroganza e violenza dall’esercito israeliano.

Quanto al vicepremier Salvini – che qualche giorno fa in un’intervista a una televisione israeliana ha dato la sua piena solidarietà a Israele, sostenendo che «ha il diritto di difendersi» e che l’indignazione ormai dilagante a livello internazionale è frutto solo di «antisemitismo»  – , ha parlato dei manifestanti come di «criminali, teppisti e delinquenti», e ha sfruttato subito le violenze per lanciare un’ulteriore proposta restrittiva sugli scioperi, dopo quelli già introdotti col Decreto sicurezza. «Chiederemo — ha detto in un punto stampa — una cauzione a chi organizza cortei e manifestazioni, in caso di danni pagheranno di tasca loro».

Colpisce che la reazione della grande maggioranza della stampa e delle televisioni, anche non di destra, sia stata in sintonia con quella del governo e abbia quasi ignorato l’imponente mobilitazione popolare di 80 città italiane riducendola all’incidente – peraltro molto circoscritto – di Milano. Così, il titolo di prima pagina del maggiore quotidiano italiano, il «Corriere della Sera», era l’indomani: «Guerriglia a Milano su Gaza». Su questa linea molti altri.

Lo scollamento della politica dai valori

Eppure, malgrado questi sforzi convergenti per vanificarlo, l’evento del 22 settembre costituisce un segnale importante di novità. Significativo che ad esso abbiano partecipato, numerosissimi, gli studenti, sia universitari che degli istituti secondari. Per chi ha esperienza della scuola, non è strano che le lezioni siano disertate invocando il primo motivo plausibile per “fare vacanza”. Strano è, però, che, invece di andarsene a casa o di bighellonare, come purtroppo speso accade in occasione degli “scioperi” studenteschi, questa volta gli alunni nella grande maggioranza abbiano partecipato alle manifestazioni, a volte insieme ai loro professori.

Da molto tempo non si riusciva a offrire ai più giovani un obiettivo credibile per cui investire il loro impegno civile.

Sappiamo tutti a cosa si è ridotta la politica, e non soltanto nel nostro paese. Anche gli adulti più maturi e temprati, in questo momento storico stentano a vincere lo scoraggiamento di fronte allo scenario internazionale  e ai personaggi che recitano in esso la parte di protagonisti. E quanto alla vita politica italiana, è difficile dire se siano meno entusiasmanti i rappresentanti del governo (di cui abbiamo appena misurato la sensibilità democratica) o quelli dell’opposizione (cronicamente autoreferenziali e divisi,  al punto di presentarsi alla votazione sul riarmo con cinque mozioni diverse).

Quel che è certo è che, alle ultime elezioni europee, hanno votato solo il 49,69% degli aventi diritto. Meno della metà. Se si fosse trattato di un referendum, la consultazione non sarebbe stata valida. Era la prima volta che questo accadeva, nella storia della Repubblica. E, anche nelle ultime elezioni politiche del 2022, è andato alle urne solo il 63,08 %. Anche in questo caso si tratta della percentuale più bassa nella storia repubblicana.

La triste verità è che sia la destra che la sinistra, oggi, non rappresentano il paese reale. E che la politica somiglia sempre di più a un monologo autoreferenziale recitato dalla cosiddetta “classe dirigente” sulla scena di un teatro mezzo vuoto. Una spiegazione di fondo è che in Italia – come in tutto l’Occidente – si è registrato ormai uno svuotamento di quell’ideale democratico che aveva galvanizzato, nel dopoguerra, la grande maggioranza dei cittadini, spingendoli ad una partecipazione che a livello elettorale raggiungeva il 90%.

Ma allora c’erano ancora delle idee in cui credere e in nome di cui lottare, discutere, scontrarsi (vi ricordate don Camillo e Peppone?). La dimensione valoriale permeava la politica ed era all’origine della dialettica democratica, che metteva a confronto concezioni diverse, a volte opposte, ma tutte ispirate – fondatamente o meno – a un progetto di bene comune non solo economico, ma integralmente umano. Oggi invece, come ha coraggiosamente denunziato papa Francesco nella «Laudato si’», la politica è subordinata all’economia e l’economia, a sua volta, alla finanza.

Col risultato che il successo del nostro governo è assicurato dalla promozione da parte delle agenzie finanziarie internazionali, anche se, come segnala il recente rapporto Oxfam del gennaio scorso, l’Italia risulta essere sempre più divisa in termini di disuguaglianze economiche.

Nel 2024 la ricchezza dei miliardari italiani è aumentata di 61,1 miliardi di euro, al ritmo di 166 milioni di euro al giorno, e oggi 71 individui detengono 272,5 miliardi di euro, mentre oltre 2,2 milioni di famiglie, per un totale di 5,7 milioni di persone, vivono in condizioni di povertà assoluta.

Una prospettiva nuova

Le persone, soprattutto i giovani, difficilmente possono essere entusiasmate da una politica che funziona così, anche quando appartengono alla fascia privilegiata. E ci sono esperienze traumatiche in grado di risvegliare nelle coscienze il senso del bene e del male, scardinando l’abitale indifferenza a ciò che non riguarda il proprio interesse.

La vicenda di Gaza si sta imponendo – e non solo in Italia – come una di queste esperienze. Le immagini trasmesse ogni giorno dalle reti televisive, i video circolanti su internet, le innumerevoli testimonianze provenienti dalla Striscia, hanno definitivamente fatto crollare la versione del governo di Tel Aviv, secondo cui, al di là di inevitabili danni collaterali, l’azione dell’Idf avrebbe sempre avuto di mira i terroristi di Hamas, nel pieno rispetto dei diritti umani. Tutti hanno potuto vedere con i loro occhi che la realtà era un’altra.

Nell’inerzia del nostro governo, la gente si è mossa autonomamente, a di fuori di schemi partitici, per far sentire la propria voce.

Può essere un inizio. Il recupero di una partecipazione dal basso che, senza necessariamente incanalarsi in forme istituzionali, condizioni però le istituzioni e le costringa a cambiare il loro stile. Non è necessario per questo attendere le prossime elezioni politiche.

Ci sono i sondaggi, a cui le forze politiche sono molto attente. Ci sono le prossime elezioni regionali. Occasioni per condizionare i rispettivi partiti di appartenenza – di destra o di sinistra che siano – e riportarli a quel senso della persona umana che dovrebbe caratterizzare una politica degna di questo nome.

L’alternativa, purtroppo, è il progressivo radicalizzarsi dello scontro fra un governo sempre più orientato a limitare le libertà civili in nome dell’ordine, della stabilità e della sicurezza – valori propri, da sempre, di tutti i regimi autoritari – ed espressioni sfrenate e controproducenti di rifiuto di queste restrizioni. 

Col risultato, in realtà, di legittimare agli occhi dell’opinione pubblica ulteriori strette. Già oggi, a sproposito, sono state evocate le Brigate rosse per criminalizzare l’opposizione, accusandola di fomentare l’odio e la violenza per il solo fatto di contestare la linea del governo.

Solo un ritorno alla partecipazione può fermare questa potenziale spirale, per ora appena abbozzata, in cui autoritarismo e protesta violenta potrebbero finire per alimentarsi a vicenda. 

La risposta dei comuni cittadini alla tragedia di Gaza fa sperare che gli italiani si stiano ridestando alla prospettiva etica della politica e possano dare una svolta in questo senso alla nostra democrazia.

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