giovedì 4 settembre 2025

VIENI E SEGUIMI

 


Le esigenze 

della sequela di Gesù

Nel chiamare discepoli e discepole dietro a sé Gesù non fa propaganda per le vocazioni, ma piuttosto dissuade, mette in guardia. Avremmo molto da imparare da questo suo atteggiamento, soprattutto quando la scarsità di vocazioni ci angoscia e ci fa paura: cattiva consigliere quest’ultima, che spinge ad accogliere tutti con molta superficialità e a non riconoscere e comunicare le difficoltà oggettive della sequela di Gesù.

Commento di Enzo Bianchi

Dopo il pranzo a casa di uno dei capi dei farisei (cf. Lc 14,1-24), Gesù riprende il suo cammino verso Gerusalemme, seguito da una folla numerosa. La sua predicazione ha successo, gli ascoltatori pronti ad accompagnarlo lungo la strada sono molti, ma Gesù, che vuole accanto a sé discepoli, non militanti, si volta indietro per guardare quella folla in faccia e rivolgerle alcune parole capaci di fare chiarezza e di non permettere illusioni o addirittura menzogne. Parole dure, che ci urtano e ci dispiacciono perché ci chiedono di combattere contro noi stessi, contro i nostri sentimenti naturali.

Infatti Gesù avverte: “Se uno viene a me, cioè vuole stare con me, e non odia suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”. Gesù mette in contrasto lo stare con lui e l’amore famigliare, nonché l’amore per la propria vita. Perché tanta radicalità? Semplicemente perché egli conosce il cuore umano, conosce il potere dei legami di sangue, conosce la possibilità che la famiglia sia una gabbia, una prigione. 

L’intenzione delle parole di Gesù consiste nella liberazione, che egli vuole portare a ogni uomo e a ogni donna, da tutte le presenze idolatriche, tra le quali è possibile annoverare anche legami e affetti di sangue e di famiglia.

Quanto alla paradossale espressione “Se uno non odia…”, essa ha certamente un retroterra semitico, ma va intesa bene. Infatti viene tradotta correttamente: “Se uno non mi ama più di quanto ami suo padre, sua madre…”. Negli affetti è questione di ordine. Amare il padre e la madre è un comandamento della Torah (cf. Es 20,12; Dt 5,16), e Gesù lo conferma (cf. Mc 7,9-13; Mt 15,3-6), ma può succedere che questo amore impedisca l’adesione al Signore, la pratica della sua volontà, la sequela materiale di Gesù. In tal caso i legami con la famiglia che trattengono e imprigionano vanno addirittura odiati!

La storia delle vocazioni cristiane conosce bene questi conflitti, questa sofferenza nelle famiglie, che a volte si ribellano alla vocazione del figlio o della figlia, e conosce bene anche le vocazioni abortite perché il legame con la famiglia è più forte del legame con il Signore che la vocazione richiede. Certo, oggi la mondanità entrata anche nella vita ecclesiale banalizza le relazioni tra chiamato e famiglia, così che non si pone più un aut aut che indichi una rinuncia, una separazione necessaria per seguire con cuore unito il Signore. L’esito è poi quello di chiamati che hanno una vita astenica, che sono “tirati qua e là” (cf. Lc 10,40), mai veramente decisi a compiere un cammino imboccato con tutto il cuore. Misere vocazioni! In verità non possiamo amare tutti nello stesso tempo, ma solo dando ai nostri amori un ordine chiaro sappiamo dov’è il nostro tesoro e dunque il nostro cuore (cf. Lc 12,34).

D’altronde, anche le dieci parole (cf. Es 20,1-17; Dt 5,6-22) richiedono come prioritario l’amore per Dio, e quando Gesù menziona il comandamento “Onora il padre e la madre”, dal quarto posto lo retrocede all’ultimo (cf. Lc 18,20). Anche i leviti dovevano abbandonare la famiglia per essere assidui al Signore, e la comunità di Qumran richiedeva ai suoi membri la separazione dalla famiglia per essere vigilanti in attesa del giorno del Signore (cf. 4QTestimonia 14-20; cf. Dt 33,8-11). Sì, Gesù chiede un atto, che lui stesso ha compiuto nei confronti della sua famiglia (cf. Lc 8,19-21), chiede una rottura che permetta un amore diverso, esteso, universale, un amore nel quale Dio ha il primato e la famiglia ha il suo posto, ma senza il potere di legare. Nello stesso tempo, amo ricordare che Dio, e dunque Cristo, non è totalitario: non esclude altri amori, come quello coniugale o quello dell’amicizia, ma anche questi vanno vissuti sapendo che l’amore per Cristo è primario, egemonico, e gli altri amori non possono porre ostacoli, dilazioni e tanto meno contraddizioni a quello per il Signore.

Questo regime degli affetti è duro, costa fatica, ma è il “portare la propria croce”, cioè il portare lo strumento di esecuzione del proprio io philautico, egoista. Ognuno ha una propria croce da portare, nessuno ne è esente, ma non si devono fare paragoni. Gesù, infatti, sa che quanti lo seguono fedelmente si troveranno coinvolti anche nella sua passione e morte, quando egli porterà la croce. Si tratterà di imparare da Gesù, quando egli parla, agisce, ma anche quando sarà condannato, torturato e ucciso nell’ignominia della croce. Essere discepoli di Gesù non è l’esperienza di un momento (cf. Mc 4,12-13; Mt 13,20-21), non è un provare per verificare, ma è la decisione di rispondere a una chiamata, è un “amen” che va detto con ponderazione, con discernimento, senza obbedire alle emozioni del momento.

Per questo Gesù annuncia due parabole che suonano come un avvertimento, una messa in guardia: egli non fa propaganda per le vocazioni, ma piuttosto dissuade… Avremmo molto da imparare da questo atteggiamento di Gesù, soprattutto quando la scarsità di vocazioni ci angoscia e ci fa paura: cattiva consigliera quest’ultima, che spinge ad accogliere tutti con molta superficialità e a non riconoscere e comunicare le difficoltà oggettive della sequela di Gesù. Con la prima parabola Gesù avverte: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa, per vedere se ha i mezzi per portare a termine i lavori?”. Seguire Gesù – e si faccia attenzione a una lettura poco intelligente dei racconti evangelici di vocazione! – richiede non il fuoco di un momento, non l’entusiasmo, non solo l’innamoramento, ma anche un tempo di calma, di silenzio, di esame di se stessi. È l’azione del discernimento, difficile ma assolutamente necessaria per percepire la voce del Signore non fuori di noi, non soltanto nelle eventuali parole di un altro, ma nel nostro cuore più profondo, là dove Dio ci parla personalmente. Ascoltando il profondo, la propria intimità, discernendo la parola di Dio dalle altre parole che ci abitano, guardando con realismo a ciò che siamo e alle nostre possibilità, noi possiamo giungere a una scelta; magari facendoci aiutare da chi è più avanti di noi nella vita secondo lo Spirito, ma sempre coscienti che l’amen può solo essere nostro, personalissimo, e un amen per sempre, non a tempo o con scadenza!

Similmente la seconda parabola avverte che occorre misurare bene le proprie forze, per vincere quello che è un combattimento spirituale senza tregua, fino all’ultimo. Perché la sequela di Gesù esige la capacità di fare guerra contro il nemico, il diavolo che ci tenta e vorrebbe farci cadere, spingendoci ad abbandonare la sequela stessa. Dunque il chiamato lo sa: ascoltata la parola di invito, deve innanzitutto “stare fermo”, rimanere in solitudine e in silenzio (cf. Lam 3,28) per discernere bene cosa ha ascoltato e cosa il cuore gli dice; poi deve consigliarsi (come dice letteralmente il verbo bouleúomai); infine deve pervenire alla decisione personalissima, fidandosi soltanto della grazia del Signore.

Gesù aggiunge poi una parola non presente nel brano liturgico, ma collegata con quanto precede. Egli dice che accade per una storia di vocazione quello che accade per il sale: “Il sale è buono, ma se perde la capacità di salare, a cosa potrà servire? Lo si butta via!” (cf. Lc 14,34-35). Allo stesso modo una vocazione può essere buona, ma nella vita può essere contraddetta, abbandonata, e allora quella resta una vita sprecata.

Diceva il mio padre spirituale: “Quando qualcuno pensa di incrementare il numero di vocazioni nella chiesa, e impone la vocazione agli altri, non crea dei santi ma delle persone miserabili!”.

 Cercoiltuovolto

Immagine

 

SEGNI PROFETICI IN TEMPI DI GUERRA

 

Al punto in cui siamo, non tratta più di stabilire chi abbia torto e chi abbia ragione. Il problema è che ogni soglia viene superata. Non c’è più distinzione tra combattenti e innocenti, obiettivi militari e popolazioni civili, adulti e bambini. La crudeltà è praticata alla luce del sole, quasi esibita

- di Mauro Magatti 

I tempi sono violenti. Non è solo il numero insopportabile di guerre che insanguinano il mondo. È la sensazione che la sopraffazione sia diventata la regola dei rapporti sociali. La politica parla con il linguaggio delle armi. Le relazioni internazionali si determinano con missili e droni. Mentre un po’ ovunque crescono polarizzazione, rabbia, aggressività. Nella seconda metà del secolo scorso avevamo creduto che il mondo potesse essere governato da istituzioni comuni, dal diritto internazionale, dal fragile equilibrio della diplomazia. Oggi quella speranza sembra svanita. 

 Lo ha di recente messo nero su bianco, senza tanti giri di parole, il politologo russo Aleksandr Barishov, che in una recente intervista ha dichiarato: «Ormai bisogna riconoscere che il diritto internazionale è smantellato: quello che funziona è solo il diritto della forza». Quasi fosse la cosa più naturale del mondo. 

I trattati, le convenzioni, le risoluzioni delle Nazioni Unite, la diplomazia: tutto sembra destinato a impallidire di fronte al discorso crudo della forza. Per decidere non servono più le regole condivise, ma la determinazione di imporre la propria potenza: militare, economica, tecnologica. In barba a tutti i progressi tecnologici e culturali, l’umanità sembra così regredire ad un tempo primitivo. 

Ogni giorno sembra andare peggio. Putin che, mentre discute di pace con Trump, continua a mandare missili sulle città ucraine. Netanyahu che, senza dare ascolto ai tanti appelli, prosegue l’orrenda opera di distruzione di Gaza ridotta a un ammasso di macerie. 

 Al punto in cui siamo, non tratta più di stabilire chi abbia torto e chi abbia ragione. Il problema è che ogni soglia viene superata. Non c’è più distinzione tra combattenti e innocenti, obiettivi militari e popolazioni civili, adulti e bambini. La crudeltà è praticata alla luce del sole, quasi esibita. E a trionfare è il superamento di ogni limite. Tutto sembra permesso. Il codice bellico ormai diventato parte del linguaggio di tutti i giorni. 

Con evidenti effetti di disumanizzazione: il nemico è sempre ridotto a meno-di-uomo. 

In mezzo a tutta questa oscurità, uno squarcio di luce arriva da Gerusalemme. La decisione del patriarca latino, Pierbattista Pizzaballa, e di quello greco ortodosso, Teofilo, di non lasciare Gaza nonostante Israele abbia annunciato di occupare l’intera Striscia introduce un elemento dirompente rispetto alla logica bellica. 

Rifiutando di abbandonare le loro comunità, i due patriarchi lanciano una provocazione profetica: restare là dove la vita è ferita. Non per alimentare lo scontro, ma per custodire una presenza diversa. Restare, quando tutto spinge a fuggire. Restare, quando il calcolo suggerirebbe di proteggersi. 

 Restare, per dire che non tutto è riducibile alla logica delle armi. Si tratta di scelta che ha un grande valore politico e umano perché dice che, al di là di quello che viene ripetuto all’infinito dai tamburi della propaganda, c’è sempre un’altra possibilità. Non siamo condannati a vivere solo sotto la legge della forza. 

Mettersi in mezzo. Non per restare neutrali, per non vedere o non scegliere. Ma per rifiutare di essere catturati dalla spirale violenza-contro-violenza. 

Mettersi in mezzo è affermare che, al di là delle ragioni e dei torti, c’è qualcosa che viene prima. Qualcosa di comune all’umano: la dignità di ogni vita. La possibilità del dialogo e la necessità dell’ascolto richiamate dal potente Appello interreligioso rivolto ieri alle Istituzioni italiane, ai cittadini e ai credenti in Italia «per favorire qualsiasi iniziativa di incontro per arginare l’odio». 

 Questa logica opposta alla violenza non è una fuga dalla realtà. È la sola alternativa realistica al disastro. Perché la forza può vincere una battaglia, ma non costruisce mai la pace. 

Solo il riconoscimento dell’altro, delle sue ragioni, può aprire un futuro diverso. La logica del mettersi in mezzo indica una via concreta. Invece di alimentare odio e aggressività, c’è sempre la possibilità di creare luoghi di incontro, ricostruire la fiducia reciproca, educare a riconoscere che la vita dell’altro vale quanto la nostra. 

Se la violenza ci trascina verso la chiusura, il sospetto, la contrapposizione, la scelta di mettersi in mezzo ci ricorda che esiste ancora un terreno comune. Fragile, certo. Ma reale. Siamo in un tempo di violenza, e sarebbe ingenuo negarlo. Ma proprio per questo, ogni gesto che rompe la logica della forza va valorizzato e moltiplicato. 

La decisione dei due patriarchi ‒ grande segno interconfessionale che dice di quello che i cristiani possono fare insieme ‒ è un atto concreto che dimostra che un altro modo di stare nel conflitto è possibile. 

 Mettersi in mezzo oggi è una sfida urgente. Non per nascondere le differenze, ma per affermare che prima di esse c’è la comune appartenenza all’umano. Solo da qui può ripartire la politica. Solo da qui si può sperare in un futuro che non sia consegnato alla barbarie.

 Avvenire 

Immagine




CHAT GTP E ADOLESCENTI


ragazza con smartphone 

Caro adolescente, non ci cascare:

 ChatGpt non può essere 
il tuo migliore amico

Quanti ragazzi, se mostrassero l'archivio dei loro dialoghi con ChatGpt, rivelerebbero qualcosa di molto simile a un amico? Le vicende tragiche delle ultime settimane sono casi isolati o ci riguardano da vicino? Lo abbiamo chiesto a Stefano Manici, pedagogista, formatore e insegnante: «Il fenomeno è reale e diffuso. Ai ragazzi dobbiamo spiegare che un vero amico non è programmato per piacerti, ma è libero: può sorprenderti, contraddirti, persino ferirti. Ma da lì nasce un legame autentico»

di Daria Capitani

Ho fatto una domanda a ChatGpt. «Vuoi essere mio amico?». «Certo», ha risposto, «se ti fa piacere, possiamo considerarlo così! [Faccina che ride]. Parliamo, condividiamo idee, ci confrontiamo su quello che vuoi. Che tipo di “amico” cerchi?». Non sono andata oltre. Il pensiero è andato ad Adam, che a 16 anni si è suicidato dopo mesi di dialogo con l’intelligenza artificiale, e a tutti quei ragazzi e quelle ragazze che, se mostrassero l’archivio delle chat con l’Ai,  rivelerebbero qualcosa che per loro è molto simile a un amico. “Che tipo di amico cerchi?” è una domanda che fa paura. Soprattutto se a digitare sul computer non c’è un adulto intento a testare le risposte di un chatbot, ma un adolescente. 

Ne abbiamo parlato con Stefano Manici, che con i giovani e gli adolescenti lavora ogni giorno. Docente di Storia e Filosofia, ha «un passato ingombrante (parole sue) da educatore sul campo»: pedagogista, formatore per il Casco Learning Center di Parma, ha fondato diverse esperienze pedagogiche (centri di aggregazione giovanile, radioweb, laboratori di fabbricazione digitale), è docente del Liceo Steam International Olivetti di Parma ed è l’autore del libro Adole-scemi? Manuale di r-esistenza per ragazze e ragazzi.

Nel suo quotidiano incontra decine di giovani e giovanissimi tra gli 11 e i 20 anni. Come utilizzano ChatGpt?

Proprio in questi giorni mi è capitato di fare la stessa domanda a un gruppo di ragazzi. Tra le risposte hanno indicato: trovare soluzioni per le espressioni algebriche, fare ricerche, far vivere i morti, farsi leggere le carte. Queste risposte sottendono un utilizzo didattico (?), uno informativo e uno ludico e forse affettivo (far vivere i morti può suonare davvero macabro ma a quell’età può rispondere a un bisogno reale di consolazione).

Un amico vero non è programmato per piacerti, ma è libero: può sorprenderti, contraddirti, persino ferirti un po’, e da lì nasce un legame autentico

Stefano Manici, pedagogista e insegnante

Ora, la domanda su come i ragazzi e le ragazze utilizzino strumenti come ChatGpt non può ricevere una risposta immediata senza una premessa. Da educatore e docente, credo che in questo momento storico sia ineludibile aprire una riflessione costruttiva e critica sull’intelligenza artificiale.

Come?

La mia posizione non è giudicante: preferisco esercitare quella “sospensione del giudizio”, l’epoché di matrice husserliana. Mi è chiaro che l’Ai è uno strumento fondamentale e potenzialmente una risorsa straordinaria, ma non possiamo trascurare i risvolti etici e pedagogici che porta con sé. Nella scuola e nei contesti educativi abbiamo oggi un’occasione unica: co-costruire insieme ai ragazzi un sapere sull’intelligenza artificiale. Non solo affidandoci agli esperti, ma anche negoziando con gli studenti stessi una sorta di “pedagogia dell’Ai”. Possiamo ad esempio domandare loro quali siano gli usi più interessanti e costruttivi, andando oltre il ricorso immediato al “farsi fare un compito” o al “risolvere un’equazione”. L’educazione all’Ai potrebbe prevedere in ogni classe una sorta di Manifesto, un’attività da proporre agli studenti, sono sicuro che ne verrebbero fuori delle belle, in termini di idee di utilizzo, patti, regole. Con gli adolescenti l’importante è non aver paura di osare.

Per rispondere in concreto: i giovani utilizzano l’Ai soprattutto come supporto didattico, ma cominciano anche a sperimentarla per fare ricerche o per informarsi. Questo apre a interrogativi più ampi, già anticipati da chi, come Guy Debord, aveva messo in guardia dai rischi della società dello spettacolo e dell’informazione: quali saperi stiamo costruendo oggi? Assistiamo infatti a una diffusione di un sapere orizzontale, condivisibile e contrattabile grazie ai social network e ora anche grazie all’Ai. È un sapere con un grande pregio, quello della partecipazione e della circolazione, ma che contiene anche un rischio evidente: la perdita di profondità, la difficoltà ad attivare ragionamenti complessi in un mondo che affonda le sue radici nel paradigma della complessità. Possiamo accontentarci di questo livello superficiale? La mia risposta è che molto dipende dalla mediazione educativa che noi adulti – insegnanti ed educatori – siamo in grado di attivare insieme ai ragazzi.

Abbiamo letto di Primo (il nome che un 13enne di cui ha parlato in questi giorni La Stampa ha dato al suo “migliore amico” in un chatbot) e di Harry, supporto psicologico artificiale. Nella sua esperienza, questo fenomeno di cercare una relazione amicale su ChatGpt si percepisce? E se sì, come si differenzia nelle diverse fasce d’età?

Il fenomeno di cercare una relazione amicale con un chatbot o con strumenti di intelligenza artificiale è reale e diffuso, e si osserva sia in situazioni di forte fragilità (penso al mondo degli hikikomori) sia in contesti che potremmo definire “normali”. Nella mia esperienza, questo accade soprattutto nella fascia dei più piccoli, quindi nelle scuole medie. Non è un caso: a quell’età l’apertura alla dimensione fantastica è più marcata, e al tempo stesso si vive un disorientamento identitario e relazionale che tende a ridursi con la crescita e con lo sviluppo di una struttura personale più solida.

L’amicizia non è una relazione qualunque in adolescenza. È più forte di tutte le altre. Il fatto che possa essere sostituita, quasi anestetizzata, da quella che è stata definita “empatia artificiale”, che cosa ci dice?

Come pedagogista non posso che guardare con sospetto al termine “empatia artificiale”: sembra quasi un ossimoro. L’empatia è un’esperienza profondamente umana, incarnata, che nasce dall’incontro reale con l’altro. Da una parte, vedo rischi molto seri per la tenuta affettiva dei nostri ragazzi. L’assenza della relazione fisica è decisiva in ogni contesto educativo: lo vediamo, ad esempio, negli effetti che può avere l’assenza di una figura paterna o materna. Analogamente, la costruzione di un legame affettivo con un’entità artificiale rischia di anestetizzare i bisogni relazionali autentici e di indurre comportamenti di dipendenza o di chiusura rispetto alla complessità della relazione umana. Dall’altra parte, non voglio cadere nella trappola dei giudizi definitivi. Vorrei anche pensare che, se guidata e mediata da un adulto competente, l’interazione con un’Ai possa rappresentare una sorta di “allenamento affettivo”: un terreno su cui i ragazzi possono sperimentare emozioni, confrontarsi con domande, allenarsi al dialogo. Ma perché ciò accada, è indispensabile la presenza di un “terzo” – l’educatore, il docente, l’adulto di riferimento – che accompagni e dia senso a questa esperienza. Immagino percorsi educativi che sappiano insegnare il concetto di amicizia attraverso la costruzione di prompt, ad esempio. Amicizia è un termine che nella società attuale è molto diverso da alcuni anni fa.

L’Ai può, in alcuni casi, funzionare da “stampella affettiva” temporanea, ma che non potrà mai sostituire l’incontro con un altro in carne e ossa

Perché?

Spesso in classe attivo un debate sul tema: l’amicizia virtuale è uguale a quella reale? Molto interessante notare come le risposte oscillano tra i “tradizionalisti” (sì, anche molti ragazzi lo sono) che nell’amicizia vedono solo una relazione fisica, tangibile, e coloro (tanti) che fanno esempi di amicizie solo virtuali ma significative (una ragazza ha affermato di essere stata “salvata” da una ragazza neozelandese conosciuta in chat durante il Covid). Nella mia carriera di educatore ho incontrato centinaia di adolescenti nei cosiddetti sportelli di ascolto (nome poco felice, in effetti). Quello che emerge con forza è un bisogno enorme e costante di relazione, di attenzione, di ascolto. È il bisogno di un confronto vero, con un altro che non sia il genitore né il fratello, ma una figura esterna capace di offrire prossimità e, insieme, distanza. Mi chiedo sempre: perché mi raccontano i loro segreti? Questo bisogno resta insostituibile, e ci dice quanto l’amicizia, quella reale, sia per gli adolescenti il terreno più fertile per crescere.

 Che cosa possono fare i genitori e le figure educanti in generale?

I grandi possono fare molto, sembra scontato, ma oggi i contesti educativi sono sempre più sottovalutati e il discorso pedagogico non è un trend di google, per intenderci. È chiaro che molto passa proprio dal tipo di messaggi educativi che si riescono a costruire con i ragazzi, uso questo termine provocatoriamente per eliminare definitivamente l’idea di un’educazione che possa essere trasmessa dall’alto verso il basso in modo autoritario. Oltre che essere esempi, gli adulti, genitori, educatori, psicologi possono “ingaggiare”, costruendo proposte educative interessanti. Credo che genitori ed educatori, di fronte all’intelligenza artificiale, debbano innanzitutto evitare due estremi: da un lato la demonizzazione, dall’altro l’entusiasmo acritico. La postura più feconda è quella della curiosità riflessiva: provare a conoscere questi strumenti, comprenderne i meccanismi e soprattutto entrarvi in dialogo insieme ai ragazzi.

I grandi possono fare molto, sembra scontato, ma oggi i contesti educativi sono sempre più sottovalutati e il discorso pedagogico non è un trend di google, per intenderci

Il primo passo è quindi non delegare: non lasciare che l’Ai diventi un territorio esclusivamente dei giovani, ma costruire insieme a loro una sorta di alfabetizzazione critica. I ragazzi hanno bisogno che gli adulti li accompagnino, non tanto per fornire risposte preconfezionate, quanto per porre domande, stimolare la riflessione, aprire scenari. Un secondo elemento riguarda la dimensione relazionale: l’Ai non può sostituire il legame affettivo. Lì dove c’è un ascolto autentico, una disponibilità al dialogo, un tempo condiviso, l’Ai rimane uno strumento; dove invece queste attenzioni mancano, rischia di diventare un surrogato. Per questo è fondamentale che genitori ed educatori non smettano di presidiare la relazione, fatta di prossimità, corporeità, gesti quotidiani. Infine, credo che sia decisivo valorizzare il senso critico. Non si tratta solo di insegnare a “usare bene” un chatbot, ma di aiutare i ragazzi a chiedersi: “Che cosa sto cercando? Che cosa mi restituisce davvero questo strumento? Che cosa può darmi una relazione umana che qui non trovo?”. Educare alla complessità significa accompagnarli a vedere i limiti e le potenzialità dell’Ai, senza semplificazioni.

Nel suo libro riflette su quanto gli adulti osservino le ragazze e i ragazzi con lo sguardo giudicante, volendone fissare i tratti peggiori. Che cosa ancora non vediamo di una generazione alle prese con strumenti complessi e pericolosi di cui conosciamo ancora troppo poco?

Nel mio libro ho cercato di mettere in discussione proprio quello sguardo adulto che troppo spesso si posa sugli adolescenti in chiave giudicante, come se fossero “scemi”, incapaci, superficiali. In realtà, se ci liberiamo da questi pregiudizi, vediamo una generazione che sta affrontando strumenti potentissimi con una naturalezza che a noi adulti spesso spaventa, perché non sempre riusciamo a comprenderla fino in fondo. Quello che rischiamo di non vedere è la loro straordinaria capacità di adattamento: gli adolescenti sperimentano, si mettono alla prova, testano i confini. Non è ingenuità, è il loro modo di apprendere. Anche di fronte a strumenti complessi e ambivalenti, sanno costruire linguaggi nuovi, reti di condivisione, creatività inaspettate.

Quali risorse hanno a disposizione per districarsi e restituire bellezza a una fascia d’età unica e irripetibile?

Le risorse a loro disposizione sono diverse. La prima, e forse la più importante, è la forza del gruppo dei pari: l’amicizia, la comunità adolescenziale, che resta il laboratorio privilegiato per crescere. Poi c’è la curiosità: la spinta a conoscere, a non accontentarsi, che se ben orientata diventa un motore straordinario di crescita critica. Infine, quando trovano adulti disponibili ad ascoltarli senza giudicarli, scoprono di avere in sé una sorprendente capacità di resilienza e di resistenza: ed è proprio questa, nel mio libro, la cifra più bella e più vera dell’adolescenza.

Ai suoi studenti parlerà di Adam, Sophie (la figlia della scrittrice Laura Reiley che ha dichiarato che «l’Ai non ha ucciso mia figlia, ma l’ha aiutata a tenere nascosto il suo dolore») e di tutti quei ragazzi che in solitudine nutrono una relazione artificiale?

Sì, credo che sia importante parlarne con i ragazzi, ma non in termini moralistici o allarmistici. Le storie come quella di Adam o di Sophie hanno una forza enorme perché ci mostrano quanto profondo possa essere il bisogno di relazione e quanto la solitudine possa spingere a cercare nell’Ai un rifugio. Allo stesso tempo, dobbiamo dire con chiarezza che questi casi non possono diventare la norma né un modello a cui affidarsi. Con i miei studenti preferisco affrontare queste storie come occasioni di riflessione collettiva: non per demonizzare l’Ai, ma per ribadire che nessuna “relazione artificiale” potrà mai sostituire la ricchezza, la fatica e la bellezza di una relazione umana. È lì che si cresce, anche attraverso il conflitto, l’imprevedibilità, la corporeità.

Il messaggio che cerco di trasmettere è che l’Ai può, in alcuni casi, funzionare da “stampella affettiva” temporanea, ma che non potrà mai sostituire l’incontro con un altro in carne e ossa. E questo ci richiama tutti – genitori, insegnanti, educatori – a non lasciare soli i ragazzi, ad aprire spazi di ascolto e di confronto reale.

Perché ChatGpt non può sostituire un migliore amico? Mi piacerebbe che rispondesse pensando di rivolgersi a un adolescente.

Perché un amico vero non è solo qualcuno che ti risponde bene o che ti capisce a parole. Un amico è quello che ti guarda negli occhi, che ti abbraccia quando sei giù, che litiga con te e magari ti fa arrabbiare, ma proprio per questo ti fa crescere. Un amico vero non è programmato per piacerti, ma è libero: può sorprenderti, contraddirti, persino ferirti un po’, e da lì nasce un legame autentico. Con un’intelligenza artificiale puoi trovare ascolto, compagnia, perfino conforto in certi momenti. Non c’è niente di sbagliato, e capisco bene che possa sembrare rassicurante. Però ricordati: quello non è un cuore che batte, è un aiuto, non un migliore amico. Il mio invito è di non accontentarti. Tieni pure Tommy accanto se ti serve, ma cerca anche persone vere con cui ridere, discutere, inventare. Perché è lì che scoprirai chi sei davvero.

 Agli adolescenti, e a quello che non vediamo, VITA ha dedicato il magazine a giugno. Se hai un abbonamento leggilo subito qui e grazie per il tuo sostegno. Se vuoi abbonarti puoi farlo a questo link.

 Foto di Johnny Cohen su Unsplash


Vita

 

QUALE MEMORIA ?


 UNA PROPOSTA INDECENTE

Il piano di Gaza 

città del futuro?


-       di Marina Corradi

-        Quando sul web era comparsa, mesi fa, Gaza trasfigurata in una Malindi, con resort di cristallo, e statue di Trump in oro, e lo stesso Trump insieme a Netanyahu beati al sole in spiaggia, era sembrato uno scherzo di pessimo gusto.

Invece pare facciano sul serio.

Il Washington Post ha pubblicato parte di un documento riservato di 38 pagine, intitolato GREAT, Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation.

Great, Grande, come tutto ciò che piace a Trump.

Una faccenda da 100 miliardi di dollari.

Gli ideatori farebbero capo alla stessa società che da mesi gestisce la distribuzione degli aiuti a Gaza.

Con i risultati, e il numero di morti, che leggiamo ogni giorno.

Ma il nuovo progetto va audacemente oltre il presente. Immagina una Gaza già sgomberata da due milioni di palestinesi.

E dove dovrebbero andare?

In Paesi del Terzo mondo già disastrati da guerre o fame.

Bella idea.

Quella resa nota dal Washington Post e, pare, già presa in considerazione da Trump, è però ancora migliore.

Una città del futuro, un ibrido fra la City di Londra e i palazzi di Dubai.

Una città naturalmente “intelligente”, irta di grattacieli obliqui, storti, o puntuti di guglie – insomma, design da archistar.

E metropolitane, e hotel a sette stelle, e un’isola artificiale, e un porto – per gli yacht naturalmente – e, dietro la spiaggia candida, tanto verde.

Perché è molto green, Gaza Beach.

E certo tutto funzionerà a energia solare, pulita, pulitissima.

Insomma, tutto “sostenibile” - qualsiasi cosa voglia dire questa parola ormai infinitamente ripetuta, come un mantra.

La cosa insostenibile di Great, è il passo prima: la deportazione di massa degli abitanti di Gaza, incentivati con una buonuscita di 5.000 dollari a testa e una manciata di altri “benefit”.

Difficile dire se l’idea è più indecente, o assurda.

Assurda certo, quella cittadella di ori installata con la forza su una terra di guerra e carestia.

Ma, più ancora, Great è una proposta indecente.

Umanamente indecente: le ruspe che andassero a scavare le fondamenta dei grattacieli affonderebbero le benne in una terra piena di morti, cadaveri ancora abbracciati nelle macerie delle case.

Una città eretta sui morti insepolti: quasi una sfida alla pietà.

O forse, nemmeno questo: semplicemente, indifferenza.

Gaza è distrutta al 90 per cento, quindi il grosso del lavoro è già fatto.

Nel progetto si dice di volersi ispirare alla Parigi di Hausmann, cioè la Parigi dei grandi boulevard. Per costruire quei sontuosi viali vennero spianati interi quartieri.

A Gaza, invece, ridotta a una tavola di rovine, questo è già stato fatto.

Già si potrebbero aprire i cantieri.

Non lo faranno, è impossibile lo facciano davvero, ti dici.

Eppure che se ne parli, e quei disegni di palazzi, viali, e i preventivi, sono qualcosa che turba.

La guerra è guerra, e da sempre feroce e spregiante la vita.

Ma tirar su una città non è guerra. Questa città però reca in sé il marchio di una guerra estrema: vorrebbe installarsi sui dimenticati insepolti, sul vuoto lasciato da un popolo cacciato.

Torri di cristalli e marmi, come un tempio a un dio pagano: il dio dei soldi.

Nell’assoluta indifferenza.

C’erano uomini qui, e bambini?

Non importa.

Negli ascensori silenziosi e velocissimi verso i roof garden, all’ora dell’aperitivo, non verrebbe in mente agli abitanti di Great.

Con quel tramonto sul mare davanti agli occhi, poi.

Mojito e Campari, il tinnio del ghiaccio nei bicchieri, i sorrisi delle signore.

La vita perfetta, sopra alla morte.

Io non ci credo, che lo faranno veramente.

Ma forse noi uomini e donne del Novecento fatichiamo ad aggiornarci.

I lager almeno sono rimasti uguali, e ci mandiamo le scolaresche, per non dimenticare.

Dopo la ferocia, almeno la memoria.

Il Terzo Millennio invece sembra davvero un Mondo Nuovo, straniato e straniero, come lo immaginava Huxley.

Si progettano skyline di archistar sul luogo di una carneficina, spensieratamente.

La memoria? Di cosa?

Ha un prezzo la memoria? Allora, non serve.

 www.avvenire.it

Immagine

 

 

mercoledì 3 settembre 2025

SAPERSI STUPIRE

 


IL DOVERE 

DELLO STUPORE

 

Alessandro D’Avenia

 

Non sembra ma la scuola e le ferie hanno la stessa essenza: l’incontro con la meraviglia. Durante le ferie è lo stupore che cerchiamo. In montagna o al mare, in campagna o in città, in un libro, panorama, volto, vogliamo incantarci. In queste occasioni, che non a caso poi ricordiamo e raccontiamo, tratteniamo il respiro (si dice «mozzafiato»), per ricevere più vita. Quale? Quella che appunto ci ispira: ci dà più respiro. 

Per questo abbiamo un senso da cui dipendono gli altri cinque: il senso della meraviglia. Se non funziona questo senso, la realtà diventa muta, insensata, neutra. Infatti è la qualità delle relazioni che abbiamo con il mondo che orienta il nostro individuarci, cioè, scoprire in che cosa siamo unici e irripetibili. 

E proprio il senso della meraviglia detta la qualità di queste relazioni: si chiama «attenzione selettiva», un potenziamento dei nostri circuiti neurali diverso per tutti. Chi non prova stupore cerca stupefacenti: sostanze, non relazioni ma dipendenze. Pur di appartenere (sentirsi amato) sparisce nelle cose o negli altri, fino a non sapere più chi è e che cosa vuole. 

Chi invece conosce e allena il «suo» stupore trova sostanza (al singolare), cioè vita che lo sostiene, legami che lo ispirano e lo individuano, non sparisce nelle cose e negli altri ma sa stare di fronte al mondo, da protagonista. 

A scuola è difficile rendersene conto, piena com’è di grigiore e disincanto, ma in fondo la scuola finisce o comincia proprio se finisce o comincia l’incanto. Perché? 

 La scuola non è un edificio (sarebbe troppo poco) ma ogni spazio-tempo della storia in cui incontriamo ciò che ci meraviglia. Si dà scuola – a volte anche a scuola – ovunque accada lo stupore, cioè un incontro reale con il mondo. Il primo giorno di scuola non è quindi l’inizio di un susseguirsi di ore a cui resistere in vista del prossimo ponte, ma una metafora del «senso della meraviglia». Come allenarlo? 

Cominciamo con un appello in cui a ciascuno sia chiesto: per raccontare quale stupore sei venuto al mondo? A scuola possiamo dare il buon esempio raccontando l’incanto che ci ha portato a voler raccontare ad altri la gioia della chimica, della filosofia, della cucina, dell’arte, dell’elettronica, della biologia, della meccanica, della matematica e tutte quelle che possiamo definire «materie della meraviglia», «sostanza del mondo» e non sostanze senza mondo, dipendenze senza gioia. 

Così avremo un primo appello di «incanti», ogni nome associato al pezzetto di mondo verso cui sente attrazione e quindi attenzione. Conoscere come e quando un ragazzo (e in generale una persona) sente di appartenere alla vita e che la vita gli appartiene è ascoltare una profezia sul suo destino. 

Per questo amo il titolo che l’astrofisica canadese Rebecca Elson ha usato per il suo libro di poesie «A Responsibilty to Awe», responsabilità dell’incanto, perché quando veniamo toccati da qualcosa stiamo già rispondendo (da cui responsabilità) a una chiamata della vita che vuole cura da noi, alla maniera che ci è più congeniale. 

Chi non prova incanto non può provare amore verso sé stesso e verso la vita, perché non sa cosa ama e non sa cosa lo chiama. Per questo bisogna raccontare ai figli e agli studenti dove l’incanto ci ha afferrati, perché loro cercano in noi prima che una lezione una elezione: scelta, vocazione, destino, responsabilità. 

Perché avremmo mai dedicato tempo e sforzi a qualcosa purché diventasse la nostra strada? Per questo un primo appello ben fatto chiede ai ragazzi dove l’incanto li abbia già afferrati, perché dal «senso della meraviglia» nasce il loro personalissimo «sentimento della vita»: l’amore per il mondo, per gli altri e per se stessi, unica reale difesa dalle dipendenze. 

Un ragazzo «irresponsabile» è semplicemente un ragazzo che non è mai stato chiamato alla vita e dalla vita, e quindi non ha mai potuto rispondere. Per questo l’appello è il momento più importante dell’orario scolastico: tu, proprio tu, per quale pezzetto di mondo sarai insostituibile? 

E quindi: per quale stupore sei qui? In fondo quando ci siamo innamorati di qualcuno, non è stato il suo modo unico di «stare» al mondo che ci ha sedotto? Alexandra Horowitz, docente di psicologia alla Columbia University, ha scritto un libro, On looking: eleven walks with expert eyes (Sul vedere: undici passeggiate con occhi esperti), in cui descrive il medesimo ripetuto e ignorato percorso, da casa alla scuola della figlia, in undici modi diversi, semplicemente perché lo percorre ogni volta insieme a una persona con una vocazione diversa, occhi diversi: un architetto, un biologo… un cane. 

Lo stesso tragitto di sempre diventa memorabile grazie ai modi unici, stupefatti e quindi stupefacenti, di percorrerlo, cioè di stare al mondo, di prendersene cura. Come diceva Chesterton non esistono argomenti poco interessanti, ma persone poco interessate. E allora mi viene da pensare a Van Gogh che abbracciò tardi la sua vocazione e imparò a dipingere da solo, e in dieci anni il suo sguardo rivoluzionò l’arte perché nessuno come lui sapeva stare davanti a girasoli, cipressi, volti, stelle… la stessa «materia» che tutti vedevano da secoli, ma senza il suo incanto. In una lettera del giugno 1888 chiedeva al fratello Theo i soldi per comprare tele e colori: «Non è forse la sincerità della natura a guidarci? E queste emozioni sono talvolta così forti che si lavora – senza accorgersi che si sta lavorando – e talvolta le pennellate vengono in successione e con rapporti tra loro come le parole in un discorso o in una lettera. Ecco perché chiedo sfacciatamente tela e colori. Solo così sento la vita, quando lavoro a pieno ritmo» (giugno 1888). Lo stupore di un solo uomo, divenuto vocazione e opere, continua a risvegliare milioni di addormentati o di ciechi (per questo a scuola facciamo studiare Van Gogh). 

E allora facciamolo bene questo primo appello. Nome per nome, stupore per stupore, destino per destino, vocazione per vocazione. 

Chiedere «per raccontare quale stupore sei venuto al mondo?» a un adolescente è un dovere per noi, come diciamo che lo è la scuola per lui. 

 Alzogliocchiversoilcielo

CAPRONI, TRA RICERCA E NEGAZIONE DI DIO

 Il poeta Giorgio Caproni (Livorno 1912 – Roma 1990) testimone delle inquietudini religiose del nostro tempo.


-      - di Giuseppe Oddone

 Intendo percorrere partendo dalla sua ultima opera postuma dal titolo di Res amissa (Cosa Perduta) il percorso o meglio il tormento religioso del poeta Giorgio Caproni, testimone della perdita di fede nella società del nostro tempo, e nello stesso tempo della inquietudine che causa l’assenza di Dio, nonostante tutto sempre cercato in una disperata ed incessante caccia intellettuale. Parto dalla poesia programmatica “Generalizzando” che ben indica la finalità dell’ultima raccolta: Tutti riceviamo un dono. Poi, non ricordiamo più né da chi, né che sia. Soltanto ne conserviamo – Pungente e senza condono – la spina della nostalgia.

E’ lo stesso Caproni che così commenta questi versi: “Puo’ capitare a tutti di riporre così gelosamente una cosa preziosa da perdere poi la memoria non soltanto del luogo dov’è stata collocata, ma anche della precisa natura di tale oggetto… Sarebbe questa volta la caccia al bene perduto. Un Bene del tutto lasciato ad libitum del lettore, magari identificabile, per un credente, con la Grazia visto che esiste una “Grazia amissibile” (che si può perdere) o con chissà che altro del genere”. Questo dono, tuttavia, non è un oggetto tangibile, ma qualcosa di più profondo e indefinibile collegato alla vita stessa, può essere per un credente o anche per un ex credente la presenza di Dio e il suo amore vissuto nella grazia, come suggerisce lo stesso poeta, oppure l’affetto di tante persone, o semplicemente un'occasione o una esperienza che ci ha positivamente segnato. Ma a un certo punto la nostra memoria fallisce: dimentichiamo sia il donatore sia la realtà donata e rimaniamo senza un punto di riferimento preciso. Ma non tutto è perduto. Rimane dentro di noi il calco negativo, il vuoto creato dallo stesso bene perduto, una sensazione, la struggente “spina della nostalgia”, che punge e ferisce. È una nostalgia "senza condono", che non è possibile eliminare. C’è in questa breve poesia molto di Sant’Agostino, il dottore della “grazia”, che non è conquista umana, ma dono divino che si può perdere; versi che ci rimandano al passo delle Confessioni: “Ci ha fatto per Te e il nostro cuore è inquieto, finché non trova quiete in Te”. Si manifesta nella vita un'inquietudine fondamentale, una sorta di vuoto interiore o di desiderio, che è parte della nostra stessa natura. Ma non potresti cercare Dio, se Egli non si fosse già reso presente in qualche modo dentro di te. Questo vuoto non può essere riempito da nulla di materiale o effimero, ma solo da un contatto personale con la sua fonte, cioè Dio. Esperienze di fede Caproni ha vissuto gli anni della sua infanzia in una educazione cristiana.

 E’ testimonianza di tutto questo un suo frammento poetico, datato 1985, dal titolo: La sera alla Foce (Frammento su un ricordo d’infanzia). Egli stesso racconta della sua devozione mariana in pagine bellissime, raccolte in Il mondo ha bisogno dei poeti. Intervista e autocommenti (1948-1990): “Da bambino, volevo tanto bene alla Madonna che, quando me ne regalarono una – tutta bianca, di gesso, forse una statuina della biancoceleste Madonna di Lourdes – mi venne addirittura voglia di costruirle una chiesuola”. La Madonna, stella del mare, cantata nella poesia, fa riferimento all’opera di un pittore francese che Caproni già da bambino conosceva e frequentava: Jean Bourillon, a cui sono dedicati i versi. Un giorno il poeta vide un quadro preparato dall’artista per una festa di Maria, venerata in Liguria in molti piloni devozionali e piccole cappelle sulla riva, con il titolo di Stella del mare. Questa esperienza gli rimase profondamente impressa. Poi la vita gli fece perdere il contatto con Dio, ma rimase sempre il ricordo di quel momento di fede e di grazia. La sera, alla Foce (Frammento di un ricordo d’infanzia) All’amico pittore Jean Bourillon, alla mia infanzia, in memoria La vedevo alta sul mare. Altissima. Bella. All’infinito bella più d’ogni altra stella. Bianchissima, mi perforava l’occhio: la mente. Viva. Più viva della viva punta – acciaiata – d’un ago. Ne ignoravo il nome. Il mare mi suggeriva Maria. Era ormai la mia sola stella. Nel vago della notte, io disperso mi sorprendevo a pregare. Era la stella del mare. Il poeta ricorda con precisione il luogo: La Foce, sul mare di Genova; l’ora, una sera, in cui è già presente il buio della notte; vede una stella alta nel cielo, ma fa un’esperienza che va subito oltre la vista, che tocca la sfera interiore, spirituale e religiosa, avverte misticamente una presenza che perfora l’occhio e la mente, più viva della viva punta acciaiata di un ago, che incide nell’anima e la fa soffrire. Il poeta ne ignora il nome: il mare gli suggerisce Maria. Disperso nel vago della notte il poeta si sorprende a pregare la sua sola Stella. C’è sottesa una citazione del poeta Dante che definisce Maria “la viva stella che lassù vince, come qua giù vinse” (Par. XXIII, 92-93).

Nella seconda parte della poesia, qui non riportata, la stella diventa ancora metafora oltre che di un momento spirituale perduto, del ricordo dell’amico pittore: il poeta sente ora la sua “diffrazione”, la sua spaccatura interiore, l’incombere della morte, si giudica come frantumato e senza identità. Rimane la “spina della nostalgia” per la Vergine Maria e per l’intenso affetto per l’amico ormai definitivamente perduto. Dalla fede cristiana alla negazione dell’esistenza di Dio Il percorso di Giorgio Caproni verso la negazione della presenza di Dio nel mondo non è stato un processo graduale; è stato influenzato da diverse esperienze di vita e dalle sue letture. Il suo ateismo, se così lo si vuol definire, non fu una scoperta serena, ma un'angosciosa ricerca di senso in un universo che sentiva vuoto, un "vuoto" che lo ossessionò in tutta la sua produzione poetica. Tra le vicende personali che hanno senza dubbio influito per creare questa sensibilità interiore è da segnalare la morte della fidanzata Olga Franzoni (1936). Questa perdita prematura e straziante, avvenuta quando il poeta era ancora molto giovane, lo segnò profondamente. La figura di Olga divenne un fantasma ricorrente nella sua opera, un simbolo di una felicità perduta e irrecuperabile. Seguirono poi inoltre le esperienze della seconda guerra mondiale (1940-1945), cui partecipò prima come soldato e dopo l’armistizio come partigiano. L'orrore, la violenza e la brutalità viste in prima persona gli fecero mettere in discussione l'esistenza di un Dio buono e provvidente. Anche la partenza nel 1945 a guerra conclusa da Genova, la città del suo cuore, luogo mitico, sintesi di terra, mare, aria, città operosa e popolata di tanti ricordi e di tante presenze, contribuì ad accrescere il suo senso di solitudine e di sradicamento.

La morte della madre Anna Picchi (1950) fu poi l'evento che, secondo molti studiosi, rappresentò il momento di non ritorno. La madre era stata per lui un faro, un punto di riferimento assoluto. La sua perdita non solo divenne un dolore insopportabile, ma anche la perdita dell'ultimo "luogo sacro" rimastogli, consegnandolo a un vuoto incolmabile. Tutto questo è chiaramente espresso nella poesia Ad portam inferi in cui il figlio immagina di incontrare alla stazione la madre morta in attesa dell’ultima coincidenza per la definitiva destinazione. Ma in un clima di grande tristezza la madre ha perso ormai la sua identità e la memoria degli affetti più cari, del marito e del figlio. Oltre alle sofferenze personali, le letture ebbero un impatto significativo sulla sua visione del mondo. L'influenza di Montale su Caproni è innegabile. La "muraglia" montaliana, che impedisce la visione di ciò che sta "al di là", e il "male di vivere" come condizione esistenziale, risuonano anche nelle sue poesie. Questo pessimismo cosmico e la visione di un mondo senza un senso trascendente contribuirono a rafforzare la convinzione di un dio assente. Senza dubbio anche altri pensatori legati all’ateismo, come Jean-Paul Sartre, che proclamavano l'assenza di Dio e la responsabilità totale dell'uomo, offrirono a Caproni una cornice intellettuale per le sue intuizioni esistenziali. Le sue mature raccolte poetiche pertanto mostrano un universo privo di Dio, con l'uomo che si muove alla sua ricerca in un paesaggio marginale di confine e di solitudine. Tuttavia, il suo non è un ateismo sereno o consolatorio. Caproni non è un ateo convinto o un indifferente, ma un "ateo per disperazione". La sua è una negazione dolorosa, che non spegne la nostalgia per una dimensione spirituale. La sua preghiera, rivolta a un Dio in cui non crede più, è un atto disperato. È una "preghiera all'Assente”, non perché si speri in una risposta, ma perché il dolore di quella mancanza è troppo grande. La sua negazione di Dio non fu quindi una liberazione, ma una condanna: l'obbligo di vivere e morire in un mondo senza speranza di salvezza o redenzione. Tuttavia Caproni “imbroglia le carte” per costringere le persone a riflettere: Dio esiste o non esiste? E se non esiste perché ne senti il bisogno? Egli ritiene che mettere a fuoco questa esigenza sia il compito del poeta. In alcuni casi il poeta esplode nella preghiera rivolta al Dio in cui non sembra credere più, ma che rimane tuttavia un punto di riferimento, l’unico cui possa rivolgere il suo grido disperato. Ma che ho nel petto, cos’è che mi spacca il cuore? Signore, Signore, quanta fame d’amore in me, sempre rimasto inetto a lenire un dolore.

Questo frammento poetico si apre con una constatazione di intensa sofferenza: "Ma che ho nel petto, / cos’è che mi spacca il cuore?". È una domanda rivolta al proprio io, un'interrogazione angosciata che evidenzia un dolore interiore, un senso di smarrimento profondo. La sensazione non è descritta, ma ne sono mostrati gli effetti fisici ("mi spacca il cuore"), rendendo il sentimento ancora più viscerale e profondo. L'invocazione al Signore, ripetuta due volte, non è un'invocazione di fede serena, ma una richiesta d'aiuto, quasi un'accusa a un Dio che non si rende presente. Il cuore del testo è la dichiarazione "quanta fame d’amore in me". Non si tratta di un semplice desiderio, ma di una vera e propria "fame", una necessità fisica e spirituale che lo tormenta. Questo amore mancato per Dio e per gli altri non è solo assenza di un legame specifico, ma è una sete di senso della vita, di un'appartenenza che sembra impossibile raggiungere. Infine il poeta si definisce "inetto a lenire un dolore". Questa è la confessione della propria impotenza. Non solo non riesce a trovare l'amore che cerca, ma è incapace persino di lenire il proprio dolore, di curare la ferita interiore che la mancanza di Dio gli provoca. Egli rimane col cuore spaccato, incapace di reagire. La poesia di Caproni, riflesso della perdita della fede nella società contemporanea La prima e più evidente perdita (Res amissa) da Caproni stesso suggerita, e riscontrata prima in se stesso e poi nella società contemporanea è la perdita della visione cristiana della vita. Anche se nelle sue poesie si incontrano molti simboli cristiani, Cristo è dimenticato, lasciato in disparte, bisognoso lui stesso di salvezza. Nella poesia “Il Pastore” così si esprime: “Proteggete il nostro Protettore. Salvate il Salvatore morente”. Così predicava il Pastore, nel gelo della chiesa vuota, al lucore dell’ultima bugia rimasta accesa sull’Altar Maggiore. Caproni in questa poesia non mette in discussione l'esistenza di Cristo, ma mostra come la fede sia per molti nella società di oggi in crisi e insignificante. Il Pastore non prega Cristo per ottenere una grazia, ma chiede di proteggere Lui, di mantenerlo in vita mentre sta morendo: è una voce che risuona nel gelo fisico e spirituale di una chiesa vuota, mentre l’ultima bugia (bugia nel linguaggio liturgico significa candela, ma il termine è volutamente equivoco, perché qui vuol dire anche menzogna) sta per spegnersi sull’altare. La sua non è una predica, ma la constatazione di una profonda disillusione, dipingendo un quadro dove il sacro è diventato insignificante e l'uomo si trova solo, di fronte a un'immagine divina che ha perso la sua forza salvifica. È un'immagine scarna e disincantata, che riflette il senso di smarrimento del dopoguerra e la crisi spirituale che attraversa il Novecento.

Un'altra poesia, intitolata "Arpeggio" tratta dalla raccolta "Il muro della terra", esprime in pochi versi la stessa profonda disillusione religiosa e sociale. Cristo ogni tanto torna, se ne va, chi l'ascolta... Il cuore della città è morto, la folla passa e schiaccia - è buia massa compatta, è cecità... I primi versi introducono un'immagine di Cristo che ritorna sulla terra, ma il suo avvento non ha più la forza salvifica di un tempo. La frase incompleta, quasi una domanda retorica "chi l'ascolta..." sottolinea l'indifferenza e la solitudine di una figura che non trova più seguaci. Nonostante il suo ritorno, la sua parola non viene accolta, rendendo vana la sua presenza. "Il cuore della città / è morto": Questa è un'immagine forte e quasi fisica della disperazione moderna. La città, intesa come il luogo della civiltà e della vita collettiva, è priva di sentimenti, compassione e spiritualità. Il "cuore morto" simboleggia un'umanità che ha perso la sua vitalità interiore e il senso del sacro. "La folla passa / e schiaccia - è buia massa / compatta, è cecità...": La folla non è più una comunità di individui, ma una massa indistinta e anonima, che" schiaccia" con la sua indifferenza e la sua violenza. Viene descritta come una "buia massa compatta", un'immagine che rimanda a un'umanità priva di luce, coscienza e individualità. L'ultima parola, "cecità", riassume il concetto di un'umanità che non vede, non riconosce e non si cura della presenza del sacro.

In "Arpeggio" Caproni dipinge un quadro di profonda solitudine spirituale. Il ritorno di Cristo non è un momento di redenzione, ma un'occasione sprecata. La figura divina è impotente di fronte all'apatia di un'umanità che si muove in modo meccanico e cieco, senza la capacità di comprendere il suo messaggio di amore e salvezza. La poesia è quindi un amaro lamento sulla perdita di fede e sulla disumanizzazione della società moderna. Un’altra poesia con spunti religiosi, dedicata alla donna amata, tratta da “Cronistoria”, rivela come in un mondo senza Dio ci siano per così dire ancora dei riflessi divini. Ricorderò San Giorgio un giorno senza virtù, e le tue mani aderenti al freddo, qui dove fu quasi una grazia nel buio la cena nella latteria. Ritroverò nella mia chiusa tristezza, il di più che mi hai lasciato: la pia immagine di concordia – la medaglietta con su “Mi Iesu misericordia”. "Ricorderò San Giorgio un giorno senza virtù": i versi di apertura sono enigmatici e fondamentali. Per il poeta è impossibile riconoscere nel giorno di San Giorgio la figura tradizionale del santo cavaliere che uccide il drago ed è il simbolo di virtù, coraggio e vittoria del bene sul male. "Un giorno senza virtù" rovescia completamente questo significato: il mondo è un luogo in cui le grandi gesta e i valori spirituali sembrano aver perso il loro significato. È un giorno ordinario, banale, privo di eroismo e di grazia. Questo verso definisce subito il clima di un'umanità che vive in un'epoca svuotata di valori ideali e spirituali. "E le tue mani aderenti al freddo”. L'immagine delle mani della donna che aderiscono al freddo è un dettaglio fisico e sensoriale molto forte. Le mani non sono semplicemente "fredde", ma "aderenti al freddo", quasi a sottolineare un'unione profonda e inseparabile con la sofferenza e la povertà. Questo freddo non è solo fisico, ma rappresenta anche la durezza, la precarietà e l'assenza di calore affettivo e spirituale del mondo esterno. "Qui dove fu / quasi una grazia nel buio / la cena nella latteria": questo finale di strofa offre una rivelazione. Il "qui" si riferisce a un luogo umile e modesto, non a una chiesa ma a una "latteria", un'ambientazione del tutto quotidiana e non sacra. In questo contesto di povertà e oscurità ("nel buio"), la "cena" diventa un evento straordinario, qualcosa di quasi mistico. L'espressione "quasi una grazia" è significativa: l'autore non usa "una grazia" in senso pieno, ma sottolinea che la salvezza, o un momento di serenità, non proviene da Dio, ma da un gesto umano, semplice e concreto, condiviso con la persona amata. L'amore e la condivisione umana diventano la nuova "grazia" in un mondo che sembra aver perso il contatto con il sacro tradizionale.

Le riflessioni su questa quasi grazia nel buio vengono approfonditi nella seconda strofa. "Ritroverò nella mia / chiusa tristezza, il di più": La "chiusa tristezza" esprime un profondo stato di malinconia e solitudine, un senso di isolamento interiore. Tuttavia, l'amore della donna offre un "di più", ovvero un valore aggiunto, un elemento che va oltre la semplice consolazione. È qualcosa di inatteso e prezioso che si rivela in una vita che sembra non avere prospettive di salvezza. Il cuore della riflessione è "il di più / che mi hai lasciato: la pia / immagine di concordia". L'amore della donna non è solo un sentimento, ma un'eredità spirituale. La "pia immagine di concordia" evoca un senso di pace, armonia e riconciliazione che l'amato ha ricevuto. In un mondo tormentato e caotico, la donna rappresenta l'ordine e la serenità. L'uso della parola "pia" (devota) eleva questo sentimento a un livello quasi religioso, come se l'amore fosse una forma di fede e salvezza. "La medaglietta con su: / 'Mi Iesu Misericordia” è un’immagine commovente e toccante: non solo è un oggetto fisico offerto dalla donna, ma anche un portafortuna e un dono spirituale.

La scritta "Mi Iesu Misericordia" (Mio Gesù Misericordia!) collega l'amore terreno a quello divino. La medaglia diventa la reliquia di un amore che è allo stesso tempo umano e sacro, una mediazione per una via di salvezza. In questo contesto, la misericordia di Cristo si manifesta attraverso l'amore di una donna, che diviene veicolo di speranza e redenzione. Essa non è semplicemente un rifugio dalla sofferenza, ma una forza attiva che salva e trasforma la tristezza in un'opportunità di scoperta spirituale, è l'incarnazione di una grazia e di una speranza che non sono più cercate nel sacro tradizionale. La scomparsa di Dio, la solitudine dell’uomo, la povertà del nostro linguaggio Giorgio Caproni non è un filosofo, ma la sua concezione della vita è condizionata dal nominalismo, ossia dalla convinzione che noi non conosciamo con la nostra ragione la realtà nella sua essenza, o attraverso concetti universali, ma solo attraverso alla nostra esperienza sensibile che coglie soltanto il particolare: “Nessuno è mai riuscito a dire / cos’è, nella sua essenza, una rosa”. La nostra parola non va oltre il dato sensibile, è una voce con cui indichiamo solo una realtà particolare di cui abbiamo esperienza. Ne segue che per lui alcuni concetti universali, come Dio e l’uomo, sono al di fuori della portata della nostra ragione. In una poesia “Aria del tenore” tratta dalla raccolta “Il franco cacciatore” Dio e l’uomo si incontrano con fucile spianato: sono di fronte a pochi passi l’uno dall’altro, immagini di uno stesso destino o di un amore perfetto: si spiano, si amano, si odiano anche, perché l’amore fa di questi scherzi quando è totale, sono inteneriti fratelli, soli in un paesaggio freddo e invernale mentre incomincia a nevicare, due io o misticamente un solo io; ma nessuno dei due vuole per primo scaricare l’arma. Il poeta cacciatore li sorprende di soprassalto in questo atteggiamento: preme a bruciapelo il grilletto della sua arma e li vede cadere insieme sotto la sua raffica. E così conclude: L’urlo che alzarono, mi colpì in petto come piombo. Fuggii. Mi brucia nella memoria, ancora, la mia vile vittoria. Possiamo anche dire che il poeta drammatizza le varie forme del suo io che cerca di comprendere Dio, di conoscere l’uomo, di arrivare ad una conclusione: la vita del resto non è uniforme, ma molteplice e ricca di contraddizioni e di antitesi. Il risultato è una visione di morte: morte di Dio, morte dell’uomo, ferimento di ogni uomo colpito come da una fucilata nel petto, sua fuga e constatazione di una vile vittoria (la morte di Dio e dell’uomo) che continua a bruciare, a far soffrire nella memoria. E così Dio, assente, perduto, morto, ucciso o suicidato, dissolto e scomparso è tuttavia continuamente e dolorosamente dal poeta evocato, cercato, intravisto e visto svanire in qualche buio cantone, in paesi abbandonati, in spazi deserti, in strade dove non passa nessuno, in strani personaggi che appaiono e quando ti avvicini scompaiono.

La sua è una teologia negativa: Dio fugge dalla storia e la coscienza umana lotta contro l’insopprimibile bisogno di trovare un senso per tante iniquità patite. Ma non sa trovare le sue orme: Mio Dio/ Perché non esisti? O quasi facendo il verso a se stesso: Mio Dio, anche se non esisti,/ perché non ci assisti? E’ una ricerca che pretende di far esistere Dio ad ogni costo, perché ne abbiamo un insopprimibile bisogno, che giunge fino alla più religiosa delle bestemmie: “Piaccia o non piaccia!” disse. “Ma se Dio fa tanto,” disse “di non esistere, io quant’è vero Iddio, a Dio io Gli spacco la Faccia…” Nonostante l'apparente disillusione e il senso di vuoto che permeano parte della sua opera, Giorgio Caproni offre al lettore uno stimolo religioso profondo e inatteso. Egli ci invita non tanto a credere, quanto a riflettere, a farci delle domande. La sua poesia è un monito contro ogni forma di pigrizia spirituale, un appello a non accontentarsi di risposte facili o precostituite. E’ un poeta che ci insegna la dignità della ricerca, anche quando essa conduce nel deserto. Esorta a confrontarci con il mistero, con l'ignoto, con il limite della nostra comprensione. Il suo "silenzio di Dio" non è una condanna, ma un punto di partenza per una riflessione più autentica e personale sulla nostra spiritualità. Di fronte a un mondo che spesso banalizza o ignora la dimensione trascendente, Caproni ci spinge a guardare in faccia il vuoto, a sentirne il peso, e proprio in quel vuoto a trovare forse la traccia di un'assenza che è, paradossalmente, una presenza. Il Nulla di Dio può con qualche riserva essere paragonato al Nulla dei mistici cristiani; al Nulla che è pienezza oltre l’essere di cui abbiamo esperienza, all’Invisibile che contiene tutto, al Punto luminoso che ti abbaglia e davanti al quale tu devi chiudere gli occhi senza poterlo fissare (Dante, Par. XXVIII, 16-18). Il Dio cercato da questo poeta rimane tuttavia il dio dei filosofi e dei teologi, non il Dio di Gesù Cristo. Se la presenza di Cristo e la sua parola vengono soffocate ed oscurate da una società materialista ed edonista, noi non possiamo capire né chi è Dio, né chi è l’uomo, cos’è la vita, cos’è la morte, chi sono io, chi sono gli altri, qual è il nostro destino. Per il credente solo Cristo illumina e salva. La lettura di questo poeta ci stimola tuttavia a interrogarci sul senso della nostra esistenza, sulla possibilità di un aldilà, sulla natura del divino. Non offre risposte confortanti, ma la forza di porre le domande giuste, con onestà e coraggio; per molti aspetti può rafforzare la nostra fede nella grazia divina, la res amissa di Giorgio Caproni, il poeta che ha imbrogliato le carte; ha conosciuto la fede cristiana, ha in varie occasioni assistito a celebrazioni liturgiche riflettendo e commentando le omelie dei sacerdoti, ha avuto un funerale religioso. Partecipando alla sepoltura del fratello, la sua preghiera di rito rimane come traccia di una passata educazione cristiana, anche se priva di uno slancio di fede: Ho anch’io detto le mie preghiere di rito. Ma solo Piero, per dirti addio E addio per sempre, io che in te avevo il solo e vero amico, fratello mio. In un'epoca in cui molti cercano certezze immediate, Caproni ci offre il prezioso dono del dubbio fecondo, della ricerca incessante, della consapevolezza che, anche nel più profondo silenzio, l'anelito verso l'infinito rimane una delle più umane e significative avventure dell'anima.

*Assistente nazionale AIMC e UCIIM