Il poeta Giorgio Caproni
(Livorno 1912 – Roma 1990) testimone delle inquietudini religiose del nostro
tempo.
- - di Giuseppe Oddone
Intendo percorrere partendo dalla sua ultima
opera postuma dal titolo di Res amissa (Cosa Perduta) il percorso o meglio il
tormento religioso del poeta Giorgio Caproni, testimone della perdita di fede
nella società del nostro tempo, e nello stesso tempo della inquietudine che
causa l’assenza di Dio, nonostante tutto sempre cercato in una disperata ed
incessante caccia intellettuale. Parto dalla poesia programmatica
“Generalizzando” che ben indica la finalità dell’ultima raccolta: Tutti
riceviamo un dono. Poi, non ricordiamo più né da chi, né che sia. Soltanto ne
conserviamo – Pungente e senza condono – la spina della nostalgia.
E’ lo stesso Caproni che
così commenta questi versi: “Puo’ capitare a tutti di riporre così gelosamente
una cosa preziosa da perdere poi la memoria non soltanto del luogo dov’è stata
collocata, ma anche della precisa natura di tale oggetto… Sarebbe questa volta
la caccia al bene perduto. Un Bene del tutto lasciato ad libitum del lettore,
magari identificabile, per un credente, con la Grazia visto che esiste una
“Grazia amissibile” (che si può perdere) o con chissà che altro del genere”.
Questo dono, tuttavia, non è un oggetto tangibile, ma qualcosa di più profondo
e indefinibile collegato alla vita stessa, può essere per un credente o anche
per un ex credente la presenza di Dio e il suo amore vissuto nella grazia, come
suggerisce lo stesso poeta, oppure l’affetto di tante persone, o semplicemente
un'occasione o una esperienza che ci ha positivamente segnato. Ma a un certo
punto la nostra memoria fallisce: dimentichiamo sia il donatore sia la realtà
donata e rimaniamo senza un punto di riferimento preciso. Ma non tutto è
perduto. Rimane dentro di noi il calco negativo, il vuoto creato dallo stesso
bene perduto, una sensazione, la struggente “spina della nostalgia”, che punge
e ferisce. È una nostalgia "senza condono", che non è possibile
eliminare. C’è in questa breve poesia molto di Sant’Agostino, il dottore della
“grazia”, che non è conquista umana, ma dono divino che si può perdere; versi
che ci rimandano al passo delle Confessioni: “Ci ha fatto per Te e il nostro
cuore è inquieto, finché non trova quiete in Te”. Si manifesta nella vita
un'inquietudine fondamentale, una sorta di vuoto interiore o di desiderio, che
è parte della nostra stessa natura. Ma non potresti cercare Dio, se Egli non si
fosse già reso presente in qualche modo dentro di te. Questo vuoto non può
essere riempito da nulla di materiale o effimero, ma solo da un contatto
personale con la sua fonte, cioè Dio. Esperienze di fede Caproni ha vissuto gli
anni della sua infanzia in una educazione cristiana.
E’ testimonianza di tutto questo un suo
frammento poetico, datato 1985, dal titolo: La sera alla Foce (Frammento su un
ricordo d’infanzia). Egli stesso racconta della sua devozione mariana in pagine
bellissime, raccolte in Il mondo ha bisogno dei poeti. Intervista e
autocommenti (1948-1990): “Da bambino, volevo tanto bene alla Madonna che,
quando me ne regalarono una – tutta bianca, di gesso, forse una statuina della
biancoceleste Madonna di Lourdes – mi venne addirittura voglia di costruirle
una chiesuola”. La Madonna, stella del mare, cantata nella poesia, fa
riferimento all’opera di un pittore francese che Caproni già da bambino
conosceva e frequentava: Jean Bourillon, a cui sono dedicati i versi. Un giorno
il poeta vide un quadro preparato dall’artista per una festa di Maria, venerata
in Liguria in molti piloni devozionali e piccole cappelle sulla riva, con il
titolo di Stella del mare. Questa esperienza gli rimase profondamente impressa.
Poi la vita gli fece perdere il contatto con Dio, ma rimase sempre il ricordo
di quel momento di fede e di grazia. La sera, alla Foce (Frammento di un
ricordo d’infanzia) All’amico pittore Jean Bourillon, alla mia infanzia, in
memoria La vedevo alta sul mare. Altissima. Bella. All’infinito bella più
d’ogni altra stella. Bianchissima, mi perforava l’occhio: la mente. Viva. Più
viva della viva punta – acciaiata – d’un ago. Ne ignoravo il nome. Il mare mi
suggeriva Maria. Era ormai la mia sola stella. Nel vago della notte, io
disperso mi sorprendevo a pregare. Era la stella del mare. Il poeta ricorda con
precisione il luogo: La Foce, sul mare di Genova; l’ora, una sera, in cui è già
presente il buio della notte; vede una stella alta nel cielo, ma fa
un’esperienza che va subito oltre la vista, che tocca la sfera interiore, spirituale
e religiosa, avverte misticamente una presenza che perfora l’occhio e la mente,
più viva della viva punta acciaiata di un ago, che incide nell’anima e la fa
soffrire. Il poeta ne ignora il nome: il mare gli suggerisce Maria. Disperso
nel vago della notte il poeta si sorprende a pregare la sua sola Stella. C’è
sottesa una citazione del poeta Dante che definisce Maria “la viva stella che
lassù vince, come qua giù vinse” (Par. XXIII, 92-93).
Nella seconda parte della
poesia, qui non riportata, la stella diventa ancora metafora oltre che di un
momento spirituale perduto, del ricordo dell’amico pittore: il poeta sente ora
la sua “diffrazione”, la sua spaccatura interiore, l’incombere della morte, si
giudica come frantumato e senza identità. Rimane la “spina della nostalgia” per
la Vergine Maria e per l’intenso affetto per l’amico ormai definitivamente
perduto. Dalla fede cristiana alla negazione dell’esistenza di Dio Il percorso
di Giorgio Caproni verso la negazione della presenza di Dio nel mondo non è
stato un processo graduale; è stato influenzato da diverse esperienze di vita e
dalle sue letture. Il suo ateismo, se così lo si vuol definire, non fu una
scoperta serena, ma un'angosciosa ricerca di senso in un universo che sentiva
vuoto, un "vuoto" che lo ossessionò in tutta la sua produzione
poetica. Tra le vicende personali che hanno senza dubbio influito per creare
questa sensibilità interiore è da segnalare la morte della fidanzata Olga
Franzoni (1936). Questa perdita prematura e straziante, avvenuta quando il
poeta era ancora molto giovane, lo segnò profondamente. La figura di Olga
divenne un fantasma ricorrente nella sua opera, un simbolo di una felicità
perduta e irrecuperabile. Seguirono poi inoltre le esperienze della seconda
guerra mondiale (1940-1945), cui partecipò prima come soldato e dopo
l’armistizio come partigiano. L'orrore, la violenza e la brutalità viste in
prima persona gli fecero mettere in discussione l'esistenza di un Dio buono e
provvidente. Anche la partenza nel 1945 a guerra conclusa da Genova, la città
del suo cuore, luogo mitico, sintesi di terra, mare, aria, città operosa e
popolata di tanti ricordi e di tante presenze, contribuì ad accrescere il suo
senso di solitudine e di sradicamento.
La morte della madre Anna
Picchi (1950) fu poi l'evento che, secondo molti studiosi, rappresentò il
momento di non ritorno. La madre era stata per lui un faro, un punto di
riferimento assoluto. La sua perdita non solo divenne un dolore insopportabile,
ma anche la perdita dell'ultimo "luogo sacro" rimastogli,
consegnandolo a un vuoto incolmabile. Tutto questo è chiaramente espresso nella
poesia Ad portam inferi in cui il figlio immagina di incontrare alla stazione
la madre morta in attesa dell’ultima coincidenza per la definitiva
destinazione. Ma in un clima di grande tristezza la madre ha perso ormai la sua
identità e la memoria degli affetti più cari, del marito e del figlio. Oltre
alle sofferenze personali, le letture ebbero un impatto significativo sulla sua
visione del mondo. L'influenza di Montale su Caproni è innegabile. La
"muraglia" montaliana, che impedisce la visione di ciò che sta
"al di là", e il "male di vivere" come condizione
esistenziale, risuonano anche nelle sue poesie. Questo pessimismo cosmico e la
visione di un mondo senza un senso trascendente contribuirono a rafforzare la
convinzione di un dio assente. Senza dubbio anche altri pensatori legati
all’ateismo, come Jean-Paul Sartre, che proclamavano l'assenza di Dio e la
responsabilità totale dell'uomo, offrirono a Caproni una cornice intellettuale
per le sue intuizioni esistenziali. Le sue mature raccolte poetiche pertanto
mostrano un universo privo di Dio, con l'uomo che si muove alla sua ricerca in
un paesaggio marginale di confine e di solitudine. Tuttavia, il suo non è un
ateismo sereno o consolatorio. Caproni non è un ateo convinto o un
indifferente, ma un "ateo per disperazione". La sua è una negazione
dolorosa, che non spegne la nostalgia per una dimensione spirituale. La sua
preghiera, rivolta a un Dio in cui non crede più, è un atto disperato. È una
"preghiera all'Assente”, non perché si speri in una risposta, ma perché il
dolore di quella mancanza è troppo grande. La sua negazione di Dio non fu
quindi una liberazione, ma una condanna: l'obbligo di vivere e morire in un
mondo senza speranza di salvezza o redenzione. Tuttavia Caproni “imbroglia le
carte” per costringere le persone a riflettere: Dio esiste o non esiste? E se
non esiste perché ne senti il bisogno? Egli ritiene che mettere a fuoco questa
esigenza sia il compito del poeta. In alcuni casi il poeta esplode nella
preghiera rivolta al Dio in cui non sembra credere più, ma che rimane tuttavia
un punto di riferimento, l’unico cui possa rivolgere il suo grido disperato. Ma
che ho nel petto, cos’è che mi spacca il cuore? Signore, Signore, quanta fame
d’amore in me, sempre rimasto inetto a lenire un dolore.
Questo frammento poetico
si apre con una constatazione di intensa sofferenza: "Ma che ho nel petto,
/ cos’è che mi spacca il cuore?". È una domanda rivolta al proprio io,
un'interrogazione angosciata che evidenzia un dolore interiore, un senso di
smarrimento profondo. La sensazione non è descritta, ma ne sono mostrati gli
effetti fisici ("mi spacca il cuore"), rendendo il sentimento ancora
più viscerale e profondo. L'invocazione al Signore, ripetuta due volte, non è
un'invocazione di fede serena, ma una richiesta d'aiuto, quasi un'accusa a un
Dio che non si rende presente. Il cuore del testo è la dichiarazione
"quanta fame d’amore in me". Non si tratta di un semplice desiderio,
ma di una vera e propria "fame", una necessità fisica e spirituale
che lo tormenta. Questo amore mancato per Dio e per gli altri non è solo
assenza di un legame specifico, ma è una sete di senso della vita, di
un'appartenenza che sembra impossibile raggiungere. Infine il poeta si
definisce "inetto a lenire un dolore". Questa è la confessione della
propria impotenza. Non solo non riesce a trovare l'amore che cerca, ma è
incapace persino di lenire il proprio dolore, di curare la ferita interiore che
la mancanza di Dio gli provoca. Egli rimane col cuore spaccato, incapace di
reagire. La poesia di Caproni, riflesso della perdita della fede nella società
contemporanea La prima e più evidente perdita (Res amissa) da Caproni stesso
suggerita, e riscontrata prima in se stesso e poi nella società contemporanea è
la perdita della visione cristiana della vita. Anche se nelle sue poesie si
incontrano molti simboli cristiani, Cristo è dimenticato, lasciato in disparte,
bisognoso lui stesso di salvezza. Nella poesia “Il Pastore” così si esprime:
“Proteggete il nostro Protettore. Salvate il Salvatore morente”. Così predicava
il Pastore, nel gelo della chiesa vuota, al lucore dell’ultima bugia rimasta
accesa sull’Altar Maggiore. Caproni in questa poesia non mette in discussione
l'esistenza di Cristo, ma mostra come la fede sia per molti nella società di oggi
in crisi e insignificante. Il Pastore non prega Cristo per ottenere una grazia,
ma chiede di proteggere Lui, di mantenerlo in vita mentre sta morendo: è una
voce che risuona nel gelo fisico e spirituale di una chiesa vuota, mentre
l’ultima bugia (bugia nel linguaggio liturgico significa candela, ma il termine
è volutamente equivoco, perché qui vuol dire anche menzogna) sta per spegnersi
sull’altare. La sua non è una predica, ma la constatazione di una profonda
disillusione, dipingendo un quadro dove il sacro è diventato insignificante e
l'uomo si trova solo, di fronte a un'immagine divina che ha perso la sua forza
salvifica. È un'immagine scarna e disincantata, che riflette il senso di
smarrimento del dopoguerra e la crisi spirituale che attraversa il Novecento.
Un'altra poesia,
intitolata "Arpeggio" tratta dalla raccolta "Il muro della
terra", esprime in pochi versi la stessa profonda disillusione religiosa e
sociale. Cristo ogni tanto torna, se ne va, chi l'ascolta... Il cuore della
città è morto, la folla passa e schiaccia - è buia massa compatta, è cecità...
I primi versi introducono un'immagine di Cristo che ritorna sulla terra, ma il
suo avvento non ha più la forza salvifica di un tempo. La frase incompleta,
quasi una domanda retorica "chi l'ascolta..." sottolinea
l'indifferenza e la solitudine di una figura che non trova più seguaci.
Nonostante il suo ritorno, la sua parola non viene accolta, rendendo vana la
sua presenza. "Il cuore della città / è morto": Questa è un'immagine
forte e quasi fisica della disperazione moderna. La città, intesa come il luogo
della civiltà e della vita collettiva, è priva di sentimenti, compassione e
spiritualità. Il "cuore morto" simboleggia un'umanità che ha perso la
sua vitalità interiore e il senso del sacro. "La folla passa / e schiaccia
- è buia massa / compatta, è cecità...": La folla non è più una comunità
di individui, ma una massa indistinta e anonima, che" schiaccia" con
la sua indifferenza e la sua violenza. Viene descritta come una "buia
massa compatta", un'immagine che rimanda a un'umanità priva di luce,
coscienza e individualità. L'ultima parola, "cecità", riassume il
concetto di un'umanità che non vede, non riconosce e non si cura della presenza
del sacro.
In "Arpeggio"
Caproni dipinge un quadro di profonda solitudine spirituale. Il ritorno di
Cristo non è un momento di redenzione, ma un'occasione sprecata. La figura
divina è impotente di fronte all'apatia di un'umanità che si muove in modo
meccanico e cieco, senza la capacità di comprendere il suo messaggio di amore e
salvezza. La poesia è quindi un amaro lamento sulla perdita di fede e sulla
disumanizzazione della società moderna. Un’altra poesia con spunti religiosi,
dedicata alla donna amata, tratta da “Cronistoria”, rivela come in un mondo
senza Dio ci siano per così dire ancora dei riflessi divini. Ricorderò San
Giorgio un giorno senza virtù, e le tue mani aderenti al freddo, qui dove fu
quasi una grazia nel buio la cena nella latteria. Ritroverò nella mia chiusa
tristezza, il di più che mi hai lasciato: la pia immagine di concordia – la
medaglietta con su “Mi Iesu misericordia”. "Ricorderò San Giorgio un
giorno senza virtù": i versi di apertura sono enigmatici e fondamentali.
Per il poeta è impossibile riconoscere nel giorno di San Giorgio la figura
tradizionale del santo cavaliere che uccide il drago ed è il simbolo di virtù,
coraggio e vittoria del bene sul male. "Un giorno senza virtù"
rovescia completamente questo significato: il mondo è un luogo in cui le grandi
gesta e i valori spirituali sembrano aver perso il loro significato. È un
giorno ordinario, banale, privo di eroismo e di grazia. Questo verso definisce
subito il clima di un'umanità che vive in un'epoca svuotata di valori ideali e
spirituali. "E le tue mani aderenti al freddo”. L'immagine delle mani
della donna che aderiscono al freddo è un dettaglio fisico e sensoriale molto
forte. Le mani non sono semplicemente "fredde", ma "aderenti al
freddo", quasi a sottolineare un'unione profonda e inseparabile con la
sofferenza e la povertà. Questo freddo non è solo fisico, ma rappresenta anche
la durezza, la precarietà e l'assenza di calore affettivo e spirituale del
mondo esterno. "Qui dove fu / quasi una grazia nel buio / la cena nella
latteria": questo finale di strofa offre una rivelazione. Il
"qui" si riferisce a un luogo umile e modesto, non a una chiesa ma a
una "latteria", un'ambientazione del tutto quotidiana e non sacra. In
questo contesto di povertà e oscurità ("nel buio"), la
"cena" diventa un evento straordinario, qualcosa di quasi mistico.
L'espressione "quasi una grazia" è significativa: l'autore non usa
"una grazia" in senso pieno, ma sottolinea che la salvezza, o un
momento di serenità, non proviene da Dio, ma da un gesto umano, semplice e
concreto, condiviso con la persona amata. L'amore e la condivisione umana
diventano la nuova "grazia" in un mondo che sembra aver perso il
contatto con il sacro tradizionale.
Le riflessioni su questa
quasi grazia nel buio vengono approfonditi nella seconda strofa.
"Ritroverò nella mia / chiusa tristezza, il di più": La "chiusa
tristezza" esprime un profondo stato di malinconia e solitudine, un senso
di isolamento interiore. Tuttavia, l'amore della donna offre un "di
più", ovvero un valore aggiunto, un elemento che va oltre la semplice
consolazione. È qualcosa di inatteso e prezioso che si rivela in una vita che
sembra non avere prospettive di salvezza. Il cuore della riflessione è "il
di più / che mi hai lasciato: la pia / immagine di concordia". L'amore
della donna non è solo un sentimento, ma un'eredità spirituale. La "pia
immagine di concordia" evoca un senso di pace, armonia e riconciliazione
che l'amato ha ricevuto. In un mondo tormentato e caotico, la donna rappresenta
l'ordine e la serenità. L'uso della parola "pia" (devota) eleva
questo sentimento a un livello quasi religioso, come se l'amore fosse una forma
di fede e salvezza. "La medaglietta con su: / 'Mi Iesu Misericordia” è
un’immagine commovente e toccante: non solo è un oggetto fisico offerto dalla
donna, ma anche un portafortuna e un dono spirituale.
La scritta "Mi Iesu
Misericordia" (Mio Gesù Misericordia!) collega l'amore terreno a quello
divino. La medaglia diventa la reliquia di un amore che è allo stesso tempo
umano e sacro, una mediazione per una via di salvezza. In questo contesto, la
misericordia di Cristo si manifesta attraverso l'amore di una donna, che
diviene veicolo di speranza e redenzione. Essa non è semplicemente un rifugio
dalla sofferenza, ma una forza attiva che salva e trasforma la tristezza in
un'opportunità di scoperta spirituale, è l'incarnazione di una grazia e di una
speranza che non sono più cercate nel sacro tradizionale. La scomparsa di Dio,
la solitudine dell’uomo, la povertà del nostro linguaggio Giorgio Caproni non è
un filosofo, ma la sua concezione della vita è condizionata dal nominalismo,
ossia dalla convinzione che noi non conosciamo con la nostra ragione la realtà
nella sua essenza, o attraverso concetti universali, ma solo attraverso alla
nostra esperienza sensibile che coglie soltanto il particolare: “Nessuno è mai
riuscito a dire / cos’è, nella sua essenza, una rosa”. La nostra parola non va
oltre il dato sensibile, è una voce con cui indichiamo solo una realtà
particolare di cui abbiamo esperienza. Ne segue che per lui alcuni concetti
universali, come Dio e l’uomo, sono al di fuori della portata della nostra
ragione. In una poesia “Aria del tenore” tratta dalla raccolta “Il franco
cacciatore” Dio e l’uomo si incontrano con fucile spianato: sono di fronte a
pochi passi l’uno dall’altro, immagini di uno stesso destino o di un amore
perfetto: si spiano, si amano, si odiano anche, perché l’amore fa di questi
scherzi quando è totale, sono inteneriti fratelli, soli in un paesaggio freddo
e invernale mentre incomincia a nevicare, due io o misticamente un solo io; ma
nessuno dei due vuole per primo scaricare l’arma. Il poeta cacciatore li
sorprende di soprassalto in questo atteggiamento: preme a bruciapelo il
grilletto della sua arma e li vede cadere insieme sotto la sua raffica. E così
conclude: L’urlo che alzarono, mi colpì in petto come piombo. Fuggii. Mi brucia
nella memoria, ancora, la mia vile vittoria. Possiamo anche dire che il poeta
drammatizza le varie forme del suo io che cerca di comprendere Dio, di
conoscere l’uomo, di arrivare ad una conclusione: la vita del resto non è
uniforme, ma molteplice e ricca di contraddizioni e di antitesi. Il risultato è
una visione di morte: morte di Dio, morte dell’uomo, ferimento di ogni uomo
colpito come da una fucilata nel petto, sua fuga e constatazione di una vile
vittoria (la morte di Dio e dell’uomo) che continua a bruciare, a far soffrire
nella memoria. E così Dio, assente, perduto, morto, ucciso o suicidato,
dissolto e scomparso è tuttavia continuamente e dolorosamente dal poeta
evocato, cercato, intravisto e visto svanire in qualche buio cantone, in paesi
abbandonati, in spazi deserti, in strade dove non passa nessuno, in strani
personaggi che appaiono e quando ti avvicini scompaiono.
La sua è una teologia
negativa: Dio fugge dalla storia e la coscienza umana lotta contro
l’insopprimibile bisogno di trovare un senso per tante iniquità patite. Ma non
sa trovare le sue orme: Mio Dio/ Perché non esisti? O quasi facendo il verso a
se stesso: Mio Dio, anche se non esisti,/ perché non ci assisti? E’ una ricerca
che pretende di far esistere Dio ad ogni costo, perché ne abbiamo un
insopprimibile bisogno, che giunge fino alla più religiosa delle bestemmie:
“Piaccia o non piaccia!” disse. “Ma se Dio fa tanto,” disse “di non esistere,
io quant’è vero Iddio, a Dio io Gli spacco la Faccia…” Nonostante l'apparente
disillusione e il senso di vuoto che permeano parte della sua opera, Giorgio
Caproni offre al lettore uno stimolo religioso profondo e inatteso. Egli ci
invita non tanto a credere, quanto a riflettere, a farci delle domande. La sua
poesia è un monito contro ogni forma di pigrizia spirituale, un appello a non
accontentarsi di risposte facili o precostituite. E’ un poeta che ci insegna la
dignità della ricerca, anche quando essa conduce nel deserto. Esorta a
confrontarci con il mistero, con l'ignoto, con il limite della nostra
comprensione. Il suo "silenzio di Dio" non è una condanna, ma un
punto di partenza per una riflessione più autentica e personale sulla nostra
spiritualità. Di fronte a un mondo che spesso banalizza o ignora la dimensione
trascendente, Caproni ci spinge a guardare in faccia il vuoto, a sentirne il
peso, e proprio in quel vuoto a trovare forse la traccia di un'assenza che è, paradossalmente,
una presenza. Il Nulla di Dio può con qualche riserva essere paragonato al
Nulla dei mistici cristiani; al Nulla che è pienezza oltre l’essere di cui
abbiamo esperienza, all’Invisibile che contiene tutto, al Punto luminoso che ti
abbaglia e davanti al quale tu devi chiudere gli occhi senza poterlo fissare
(Dante, Par. XXVIII, 16-18). Il Dio cercato da questo poeta rimane tuttavia il
dio dei filosofi e dei teologi, non il Dio di Gesù Cristo. Se la presenza di
Cristo e la sua parola vengono soffocate ed oscurate da una società
materialista ed edonista, noi non possiamo capire né chi è Dio, né chi è
l’uomo, cos’è la vita, cos’è la morte, chi sono io, chi sono gli altri, qual è
il nostro destino. Per il credente solo Cristo illumina e salva. La lettura di
questo poeta ci stimola tuttavia a interrogarci sul senso della nostra
esistenza, sulla possibilità di un aldilà, sulla natura del divino. Non offre
risposte confortanti, ma la forza di porre le domande giuste, con onestà e
coraggio; per molti aspetti può rafforzare la nostra fede nella grazia divina,
la res amissa di Giorgio Caproni, il poeta che ha imbrogliato le carte; ha
conosciuto la fede cristiana, ha in varie occasioni assistito a celebrazioni
liturgiche riflettendo e commentando le omelie dei sacerdoti, ha avuto un
funerale religioso. Partecipando alla sepoltura del fratello, la sua preghiera
di rito rimane come traccia di una passata educazione cristiana, anche se priva
di uno slancio di fede: Ho anch’io detto le mie preghiere di rito. Ma solo
Piero, per dirti addio E addio per sempre, io che in te avevo il solo e vero
amico, fratello mio. In un'epoca in cui molti cercano certezze immediate,
Caproni ci offre il prezioso dono del dubbio fecondo, della ricerca incessante,
della consapevolezza che, anche nel più profondo silenzio, l'anelito verso
l'infinito rimane una delle più umane e significative avventure dell'anima.
*Assistente nazionale
AIMC e UCIIM