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domenica 6 luglio 2025

UMANESIMO DELL'INCERTEZZA

 


 Per un umanesimo

 dell’incertezza,


 un sapere 


che non consola



In un’epoca di risposte rapide e manuali di benessere, una riflessione sulla perdita di valore della domanda come spazio del pensiero. Un invito a riscoprire un’intelligenza di attesa e complessità

- di Giovanni Scarafile 

Entrare oggi in una libreria, anche solo per ripararsi dalla pioggia o per ingannare l’attesa di un appuntamento, significa imbattersi in scaffali sempre più affollati di volumi che promettono benessere, equilibrio, chiarezza: manuali di crescita personale, ricettari dell’anima, guide rapide alla realizzazione di sé occupano ormai intere sezioni, come se l’esperienza dell’umano si lasciasse distillare in protocolli replicabili e in formule precostituite. Non si tratta più, in effetti, di orientare una vita nella sua singolarità irriducibile, ma di proporre percorsi di efficientamento psicologico, in cui le emozioni devono trovare una direzione, le fragilità una correzione, le domande una rapida archiviazione.

Questo stesso paradigma, se lo si osserva negli spazi digitali, assume tratti ancora più accentuati e talora grotteschi, moltiplicando contenuti motivazionali, tecniche di automiglioramento, percorsi di crescita rapida che si contendono l’attenzione di un pubblico sempre più dipendente dalla promessa — tanto rassicurante quanto illusoria — che tutto sia affrontabile e, soprattutto, superabile. Ma sotto questa superficie di immediatezza e chiarezza, che sembra offrire risposte pronte a ogni possibile incertezza, si avverte con crescente evidenza una tensione silenziosa, una stanchezza non detta, un’inquietudine che nessuna strategia sembra davvero dissipare: come se la sovrabbondanza di soluzioni producesse, paradossalmente, un nuovo tipo di solitudine, quella di chi ha perso familiarità con il tempo lungo dell’attesa.

Siamo divenuti — senza quasi rendercene conto — collezionisti di risposte, e intanto smarriamo, con una certa indifferenza, il gesto più originario e fecondo: il domandare. Ogni esitazione viene trattata come un ritardo da colmare, ogni incertezza come un’anomalia da correggere, ogni interrogazione come un momento transitorio da oltrepassare nel più breve tempo possibile. Eppure, non tutte le domande sono fatte per ricevere risposta; alcune esistono per restare aperte, per accompagnarci nel tempo e attraverso i mutamenti, per trasformarci nel modo in cui ci trasformano le attese più vere. Ma il nostro tempo, così intimamente legato al culto della prestazione, fatica a riconoscere che l’intelligenza non si misura solo nella rapidità della soluzione, bensì nella capacità di restare dentro una domanda senza cedere all’impazienza di chiudere.

Tuttavia, la resistenza a questo tipo di postura non è soltanto culturale o legata all’egemonia del paradigma tecnico-scientifico: essa affonda le radici in una forma più sottile di disagio, che rende sempre più difficile tollerare ciò che non produce immediatamente un risultato tangibile. Chi sceglie di non rispondere in fretta, chi si sottrae alla coazione a concludere, rischia oggi di essere percepito come indeciso, inefficiente, persino colpevole. Il pensatore stesso — colui che abita le domande — viene talvolta ridotto alla figura di un titubante cronico, di un soggetto incapace di azione, inchiodato a un’attitudine sterile. Così, si finisce per screditare non soltanto chi non ha ancora trovato una risposta, ma anche chi ritiene che non tutto debba essere immediatamente risolto.

In questa deriva, l’imperativo silenzioso ma pervasivo secondo cui ogni problema — sia esso esistenziale, relazionale o professionale — dovrebbe poter essere trattato come una disfunzione da correggere, trova la sua massima espressione nella colonizzazione tecnico-scientifica della soggettività. Anche le dimensioni più intime dell’esistenza, come la sofferenza, il desiderio, la perdita, vengono affrontate mediante strumenti di codifica e ottimizzazione, con l’effetto collaterale, tutt’altro che secondario, di ridurre la complessità dell’umano a un insieme di funzioni da regolare. Ma l’esistenza non è un software difettoso da aggiornare; essa si dà nell’opacità, nella discontinuità, nella possibilità di non coincidere mai pienamente con se stessi.

In questo scenario, è forse opportuno riconoscere che una certa responsabilità appartiene anche a chi fa ricerca e produce sapere: non è del tutto infondata l’impressione, largamente diffusa nell’immaginario collettivo, che gli studiosi parlino una lingua separata, spesso impenetrabile, come se la distanza dal vissuto fosse una garanzia di autorevolezza. È accaduto, talvolta, che il pensiero si chiudesse in forme di autoreferenzialità che hanno finito per rafforzare il sospetto che la riflessione sia una pratica astrusa, riservata a pochi iniziati. Anche per questo, forse, si è aperto lo spazio pubblico dei divulgatori-sanitari dell’anima, che si propongono come antidoto accessibile a ciò che viene percepito come un pensiero impraticabile. Ma la semplificazione, quando si fa sistematica, diventa impoverimento.

Abitare una domanda non equivale, perciò, a indulgere in un culto dell’indecisione o a glorificare l’inerzia, quanto piuttosto a riconoscere che alcune forme di sapere maturano nel tempo, che non tutto è traducibile in metodo, che la verità stessa non si manifesta se non nella forma dell’attesa, della parola esitante, della sospensione feconda. Difendere la possibilità della domanda significa allora anche difendere una temporalità altra, non scandita dal successo o dalla prestazione, ma da una misura interiore in cui le trasformazioni avvengono secondo un ritmo che non si lascia pianificare.

In questo senso, forse, ciò che occorre oggi non è tanto un nuovo sapere, quanto un nuovo modo di restare: un umanesimo dell’incertezza, che accolga il dubbio non come un vuoto da riempire, ma come un invito a pensare diversamente, a sentire diversamente, a lasciarsi attraversare da ciò che non si domina.

Qualche giorno fa, in una piccola libreria di provincia, ho visto una ragazza sui vent’anni restare ferma a lungo davanti a uno scaffale. Aveva i capelli tagliati corti e asimmetrici, un piercing sottile al naso. Teneva in mano un libro voluminoso, privo di titolo accattivante, senza promesse evidenti né copertina seduttiva. Non sembrava in cerca di una formula risolutiva, né appariva preoccupata di trovare conferme o consigli. Leggeva assorta, con un’espressione quasi di riconoscimento, come se quel libro stesse parlando una lingua che non sentiva da tempo. Mi sono avvicinato, con discrezione, mosso da una curiosità che non saprei spiegare: volevo capire cosa la tenesse lì, così immobile. Non era un manuale, non era un prontuario: era un saggio filosofico. Dopo qualche minuto, con un gesto quieto e quasi affettuoso, lo ha rimesso al suo posto, poi è uscita. Forse quella ragazza non cercava una soluzione: stava solo accompagnando una domanda, in silenzio, per non perderla del tutto.

 www.avvenire.it


 

 

martedì 1 luglio 2025

IL REATO DI PENSARE

 


Un manifesto per la libertà di pensiero contro l’omologazione silenziosa
Un cammino, uno strano e lungo viaggio attorno a una parola, a un atto, a un privilegio: il pensiero.

"Il Reato di Pensare" è il nuovo saggio provocatorio di Paolo Crepet, psichiatra e scrittore noto per la sua capacità di leggere e interpretare le contraddizioni del nostro tempo.

In un’epoca che esalta la libertà come valore assoluto, Crepet ci mette di fronte a una verità scomoda: la libertà è sempre più un’illusione, offuscata da un conformismo invisibile ma pervasivo.

Non c’è più bisogno di censura esplicita: oggi il pensiero critico si spegne lentamente, sedotto da una rassicurante omologazione, dal bisogno di sicurezza, dalla paura di sbagliare.

In questo libro intenso e illuminante, Crepet analizza una delle più insidiose derive della società contemporanea: la rinuncia alla complessità, alla disobbedienza, alla creatività. Con la sua consueta lucidità, ci invita a uscire dalla comfort zone e a riscoprire il valore del dubbio, del conflitto, della fatica che accompagna ogni vero atto di libertà.

Destinato a chi rifiuta l'appiattimento culturale e desidera recuperare la forza dell'autenticità, "Il Reato di Pensare" si rivolge in particolare ai giovani, ai genitori e agli educatori.

Contro l’ossessione per la perfezione e la felicità a ogni costo, Crepet difende l’importanza dell’errore, del fallimento, della crisi come tappe fondamentali di una crescita autentica. Le sue parole diventano un invito urgente a rimettere al centro il pensiero libero, oggi più che mai un atto rivoluzionario.

Tra riflessioni, aneddoti e storie personali, L'autore ci offre uno strumento prezioso per riconquistare la nostra individualità, spezzare le catene dell’omologazione e tornare ad allenare la mente al coraggio e alla creatività.

Paolo Crepet, IL REATO DI PENSARE, ed.Mondadori, 2025



 

giovedì 4 gennaio 2024

SAPER DUBITARE



Dobbiamo osare 

un cambiamento 

di paradigma:

 il dubbio ci serve,

 il dubbio è fecondo. 

Senza il dubbio 

non c’è avanzamento

 della conoscenza. 

Chi non ha dubbi, 

si frega con le proprie mani.

Occorre che impariamo

 anche a dire 

“non lo so” e “non ho capito”

-         di Vera Gheno

-          

Non avere dubbi, normalmente, è considerato un fatto positivo. Il dubbio è il male: lo si fa coincidere con l’essere privi di certezze, di un’idea precisa. Avere dubbi riguardo a sé stessi è anche peggio: si viene velocemente bollati come persone insicure, indecise. Il dubbio è grigio, laddove i sicuri sanno cosa sia nero e cosa sia bianco, giusto e sbagliato, lecito e illecito. Il grigio, l’incertezza, è né carne né pesce: bianco sporco, o nero stinto. Il dubbio non è muscolare.

 Eppure, dobbiamo osare un cambiamento di paradigma: il dubbio ci serve, il dubbio è fecondo. Senza il dubbio non c’è avanzamento della conoscenza. Chi non ha dubbi, e pensa di sapere già tutto quello di cui ha bisogno, si frega con le proprie mani. Si chiude in una sorta di autoreferenzialità cognitiva e non si concede la possibilità di evolvere. La certezza è la fine dell’evoluzione. Il che non vuol dire mettere in dubbio qualsiasi cosa; vuol dire ammettere, con onestà, i limiti delle proprie competenze e conoscenze. “Là fuori” è pieno di nozioni, ci sono campi interi che ignoriamo completamente … Pattugliare i limiti del proprio sapere, secondo me, è essenziale. Purtroppo, ci siamo convinti che siccome le informazioni, in linea di massima, sono a portata di mano, possiamo sapere tutto. Ma acquisire un’informazione non vuol dire conoscere: non coincide nemmeno con il capirla. L’accesso all’informazione permesso da internet non ci ha dotati automaticamente della conoscenza, che va invece perseguita con fatica.

 Facciamoci caso: quante sono le persone che intervengono nelle discussioni senza alcuna competenza specifica, pensando di averla? Quanti criticano gli “esperti” con un “io non credo sia così”, certi delle proprie conoscenze e mettendo automaticamente in dubbio quelle altrui, come se fosse tutta questione di fiducia? Quante volte, quando parliamo di argomenti che conosciamo bene (perché li abbiamo studiati), capita di trovare qualcuno che sentenzia apodittico “non è vero”, oppure più enigmaticamente “mah”? …

 Tanti, troppi, non si rendono conto dei limiti delle loro conoscenze: si chiama effetto Dunning-Kruger: una distorsione cognitiva che porta le persone non molto competenti in un certo campo a sovrastimare le proprie conoscenze e a promuoversi esperte, con tutte le conseguenze del caso …

 Un genere di persone particolarmente comuni sui social, ma non solo, sono i sedicenti esperti; persone mai disposte ad ascoltare, che pensano di sapere già tutto, e che, se contraddetti, si lamentano di essere vittime degli altri (di solito, un “voi”) che li bullizzano. A ben pensarci, tutto questo circolo vizioso è causato dalla mancanza di dubbi rispetto alle proprie conoscenze …

 Mettiamoci il cuore in pace: nessuno di noi è tuttologo; nessuno, nemmeno il più colto, potrà capire tutto. Occorre che impariamo anche a dire “non lo so” e “non ho capito” … 

La persona colta si rende conto di avere bisogno di controllare un’informazione o una nozione, e più o meno sa dove andarla a cercare. La persona ignorante invece non si pone alcun dubbio: sa già tutto quello che ha bisogno di sapere, non si fa certo prendere dal morso del dubbio. Vive felice con le sue certezze, senza rendersi conto che sono un recinto esiguo che limita la possibilità di conoscere il mondo, di crescere. In ultima analisi, di vivere una vita piena.

 

V. Gheno, Le ragioni del dubbio. L’arte di usare le parole, Einaudi

giovedì 2 marzo 2023

GOVERNATI DAL DUBBIO


 Le nostre vite governate dal dubbio

- di Massimo Recalcati

Un padre di famiglia mite e profondamente legato al proprio figlio, marito devoto e responsabile, animato da interessi intellettuali ampi, compresa una attività come volontario in una associazione umanitaria, chiede di essere ascoltato per alcuni suoi comportanti nei confronti del figlio adolescente che gli risultano inspiegabili. A fare traboccare il vaso un episodio recente: mentre la famiglia era riunita a tavola, il figlio rovescia involontariamente dell’acqua sul padre che reagisce d’impulso colpendolo con violenza. Si tratta di una reazione che sorprende per primo il padre stesso che non ha mai fatto ricorso alla violenza fisica nell’educare il proprio figlio. Quando mi racconta il fatto appare visibilmente angosciato nel descrivere la rabbia che lo ha spinto contro la propria volontà a infierire sul ragazzo. A quel punto, ancora più angosciato, si chiede se forse quello che lui ha sempre creduto di essere – un padre amorevole e un marito irreprensibile – sia soltanto una maschera, una facciata, una semplice impostura. È un dubbio che lo scuote lasciandolo quasi senza fiato.

«Ma chi sono io veramente?» si chiede alla fine della seduta. Questa scena mostra inequivocabilmente come quello che noi crediamo di essere non necessariamente coincide con quello che siamo veramente. Si tratta del capovolgimento del celebre cogito ergo sum di Cartesio col quale si inaugura l’età moderna. Diversamente da quello che pensava il grande filosofo francese, per il mio paziente non esiste alcuna roccia stabile sotto la sabbia corrosiva del dubbio. Conosciamo invece la roccia di Cartesio: se l’esistenza di ogni cosa può essere sottoposta al rigore devastante del dubbio, l’atto del pensiero non può invece che confermare la certezza che chi pensa esiste al di fuori di ogni ragionevole dubbio: cogito ergo sum. Ma questa identità viene scossa alle sue fondamenta dalla psicoanalisi. È l’obiezione che il mio paziente rivolgerebbe a Cartesio: non è vero che io sono quello che penso di essere! Tutto il contrario! Io non credo di essere quello che penso di essere.

Questo è il problema!

 Freud ricorda le tre grandi umiliazioni inferte al narcisismo umano. La prima risalirebbe a Copernico e sarebbe una “umiliazione cosmologica”: la Terra non può pretendere di essere il centro dell’universo perché è solo un pianeta tra gli altri che ruota attorno al Sole. La seconda a Darwin e sarebbe una “umiliazione biologica”: l’essere umano non proviene da essenze sovrasensibili, ma dai primati lungo la catena dell’evoluzione. Infine la terza umiliazione, quella “psicologica”, sarebbe quella inferta dalla psicoanalisi. Mentre prima di Freud si riteneva che il cogito fosse una proprietà della coscienza e che la sua certezza fondasse indubitabilmente l’esistenza del soggetto, con Freud il cogito viene scalzato dalla sua posizione di comando: «L’io non è padrone nemmeno in casa propria». Quali sono le enormi implicazioni di questa terza umiliazione narcisistica? La ragione filosofica tradizionale riteneva di aver trovato con Cartesio la roccia sotto la sabbia del dubbio e del suo potere corrosivo. Possiamo dubitare di tutto ma non del fatto che è il nostro pensiero che sta dubitando. Freud mostra invece che non è affatto detto che siamo davvero quello che pensiamo di essere. Egli apre uno squarcio tra l’essere e il pensiero rompendo la loro coincidenza. La nostra esperienza, non solo clinica ma anche quotidiana, conferma ampiamente l’esistenza di questa sfasatura. Nella scena del padre che colpisce il proprio amato figlio l’essere e il pensiero si dividono. Il dubbio non è ciò che chiude la divisione ma ciò che la apre: «Sono davvero quello che penso di essere?». È questa l’umiliazione che Freud infligge al narcisismo umano: l’io non è affatto la roccia che persiste sotto la sabbia del dubbio, ma diventa, a sua volta, una realtà enigmatica. Chi sono io? Io sono davvero quello che credo di essere?

Questa frattura tra l’essere e il pensiero rende l’animale umano strutturalmente agitato dal dubbio. È la tragedia dell’Edipo di Sofocle che crede di essere il re di Tebe, il marito di sua moglie, il padre dei suoi figli e invece scopre di essere un regicida–parricida, il figlio di sua moglie e il fratello dei suoi figli. Ma è anche la tragedia dell’Amleto di Shakespeare che pur sapendo – diversamente da Edipo – la verità sulla morte di suo padre, non riesce a liberarsi dalle catene del dubbio che paralizzano la sua azione. La frattura che scinde l’essere e il pensiero e dalla quale scaturisce il dubbio non è l’espressione di una patologia, ma costituisce l’essere umano come un essere strutturalmente diviso, il quale, diversamente dalla vita animale, non è mai ciò che crede di essere.

È proprio per questa ragione l’amore dei cani ci appare unico: diversamente dall’amore umano, un cane ci ama davvero per quello che siamo.

Nondimeno, la psicoanalisi mostra che non è il dubbio ma la sua assenza ad essere profondamente patologica. Lo sosteneva Lacan quando affermava che se un pazzo con un colapasta in testa crede di essere un re è evidentemente un pazzo, ma è assai più pazzo un re che crede di essere un re. Non è forse questa la malattia mentale per eccellenza? Credersi, al di là di ogni dubbio, un io?

Una delle intuizioni più profonde della psicoanalisi consiste nel ritenere che la forma più grave di malattia mentale si generi non per difetto di identità, ma per una sua ipertrofia. È un rovesciamento del senso comune: non è l’indebolimento dell’io a generare malattia quanto il suo rafforzamento.

L’attaccamento al nostro io impedisce infatti l’apertura caratteristica del movimento dubbio. Irrigidendo la coincidenza tra l’essere e il pensiero, questo attaccamento istituisce confini, distinzioni rigide, manichee, promuove segregazioni. Non a caso i grandi paranoici (pensiamo a Hitler come paradigma) si mostrano assolutamente privi di dubbi. La propria identità diviene la sola misura della verità. È quello che vediamo emergere anche nell’età della giovinezza. Per un verso il dubbio diviene protagonista corrodendo le credenze ingenue dell’infanzia. È la profonda affinità che sussiste tra l’adolescenza e il pensiero critico. Per un altro verso però esiste una tendenza dei giovani ad identificarsi con un ideale eroico di purezza che in nome del dubbio vorrebbe poter spegnare ogni dubbio. È questo il punto dove l’adolescenza diviene patologica attribuendo fuori di ogni dubbio ai propri genitori o alle vecchie generazioni la responsabilità del loro disagio. È il manicheismo che può contraddistinguere la giovinezza, dal quale sorge ogni forma di fanatismo. È quella certezza assoluta di essere nel giusto che può armare la mano del giovane terrorista senza farla tremare: nessun dubbio, nessuna indecisione, nessuna pietà. Non avere dubbi sull’essere nel giusto può giustificare l’uso della violenza. In questo senso la psicoanalisi resta erede della grande tradizione socratica.

Conoscere se stessi significa disfare la credenza paranoica di essere quello che pensiamo di essere. Per questa ragione la forma massima dell’ignoranza non è tanto quella di ignorare il sapere – non sapere tutto il sapere – ma quella di pretendere di sapere, fuori di ogni dubbio, la verità.

Se la psicoanalisi è laica è proprio perché ignora le verità ultime che invece ogni pensiero dogmatico pretenderebbe di conoscere e possedere. Il fanatismo dogmatico esige, infatti, l’estirpazione sistematica del dubbio. Da qui scaturisce il suo fascino inquietante: possedere la verità significa ricucire quella frattura tra l’essere e il pensiero che invece ci segue come un’ombra.

È avere una risposta su tutto senza però accorgersi che questa non è la forma massima della sapienza, ma quella massima dell’ignoranza.

 Repubblica