NOTE
PER
UN PENSIERO
“INCOMPLETO”
AL DI LA'
DELL'ARROGANZA
-
di Diego Fares
La
forma più alta di pensiero è quella del pensiero che cresce nell’apertura e, in
questo senso, è «incompleto». Lo disse papa Francesco nella sua intervista a La
Civiltà Cattolica: «Lo stile della Compagnia non è quello della discussione, ma
quello del discernimento, che ovviamente suppone la discussione nel processo.
L’aura mistica non definisce mai i suoi confini, non completa il pensiero. Il
gesuita deve essere una persona dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto» [1].
Che
cos’è il pensiero incompleto? Come lo si può descrivere? Afferma papa
Francesco, parlando del discernimento imparato leggendo Il Signore di Romano
Guardini: «Ho imparato questo modo di pensare da Romano Guardini. Il suo stile
mi ha affascinato, anzitutto nel suo libro Il Signore. Guardini mi ha mostrato
l’importanza del pensiero incompleto, quello che ti porta fino a un certo
punto, ma poi ti invita a contemplare in prima persona. Crea uno spazio per
farti incontrare la verità. Un pensiero fecondo dovrebbe essere sempre
incompleto per dare spazio a sviluppi successivi. Da Guardini ho imparato a non
pretendere certezze assolute su tutto, sintomo di uno spirito ansioso. La sua
saggezza mi ha permesso di affrontare problemi complessi che non si potevano
risolvere semplicemente sulla base di norme, bensì con un tipo di pensiero che
permetteva di attraversare i conflitti senza restarne intrappolato» [2].
E
nella Costituzione apostolica Veritatis gaudium Francesco afferma che oggi si
fa sempre più evidente che «c’è bisogno di una vera ermeneutica evangelica per
capire meglio la vita, il mondo, gli uomini, non di una sintesi ma di una
atmosfera spirituale di ricerca e certezza basata sulle verità di ragione e di
fede. La filosofia e la teologia permettono di acquisire le convinzioni che
strutturano e fortificano l’intelligenza e illuminano la volontà… ma tutto
questo è fecondo solo se lo si fa con la mente aperta e in ginocchio. Il
teologo che si compiace del suo pensiero completo e concluso è un mediocre. Il
buon teologo e filosofo ha un pensiero aperto, cioè incompleto, sempre aperto
al maius di Dio e della verità, sempre in sviluppo, secondo quella legge che
san Vincenzo di Lérins descrive così: “annis consolidetur, dilatetur tempore,
sublimetur aetate” (Commonitorium primum, 23: PL 50,668)» [3].
Noi
metteremo in risalto alcuni aspetti del pensiero incompleto, che è il contrario
del pensiero trionfalistico: la mentalità dialogica, l’inclusività, l’apertura
attenta e responsabile all’altro, l’apertura alle sfide.
Mentalità
dialogica
Il
pensiero che definiamo «incompleto» è eminentemente dialogico, vale a dire non
autoreferenziale, non monologante, non astratto. Incontrando la classe
dirigente del Brasile, il 27 luglio 2013, il Papa aveva detto: «Quando i leader
dei diversi settori mi chiedono un consiglio, la mia risposta è sempre la
stessa: dialogo, dialogo, dialogo. L’unico modo di crescere per una persona,
una famiglia, una società, l’unico modo per far progredire la vita dei popoli è
la cultura dell’incontro, una cultura in cui tutti hanno qualcosa di buono da
dare e tutti possono ricevere qualcosa di buono in cambio. L’altro ha sempre
qualcosa da darci, se sappiamo avvicinarci a lui con atteggiamento aperto e
disponibile, senza pregiudizi. Questo atteggiamento aperto, disponibile e senza
pregiudizi, lo definirei come “umiltà sociale”, che è ciò che favorisce il
dialogo. […] Oggi, o si scommette sul dialogo, o si scommette sulla cultura
dell’incontro, o tutti perdiamo, tutti perdiamo. Per di qui va il cammino
fecondo» [4].
Nel
dialogo, ciò che conta è che a decidere sui temi siano i soggetti, proprio i
soggetti coinvolti in tali decisioni. Il soggetto è più importante del
contenuto del dialogo. Francesco ci mostra due tipi di soggetti che non
dialogano, perché sono chiusi in se stessi: i primi riducono il proprio essere
al loro sapere o sentire (il Papa lo chiama «gnosticismo»); i secondi lo
riducono invece alle loro forze (il Papa lo chiama «neopelagianesimo»).
Il
dialogo implica la convinzione del nostro essere sociale, della nostra
incompletezza individuale, che è essenzialmente positiva, perché ci impedisce
di essere soggetti chiusi.
L’idea
su cui Francesco insiste è che «i soggetti siamo tutti noi». Oggi, infatti, non
si nega l’importanza dei diversi saperi e del lavoro di gruppo, tuttavia la
tendenza prevalente è quella individualistica, con settarismi elitari. Per la
cultura del dialogo è essenziale, invece, l’inclusione di tutti, anche dei meno
intelligenti e dei più deboli.
«È
tempo di sapere come progettare, in una cultura che privilegi il dialogo come
forma d’incontro, la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla
dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza
esclusioni. L’autore principale, il soggetto storico di questo processo, è la
gente e la sua cultura, non una classe, una frazione, un gruppo, un’élite. Non
abbiamo bisogno di un progetto di pochi indirizzato a pochi, o di una minoranza
illuminata o testimoniale che si appropri di un sentimento collettivo. Si
tratta di un accordo per vivere insieme, di un patto sociale e culturale» (EG
239).
Affermare
che i soggetti siamo tutti noi non significa considerare una mera somma di
tutti gli individui: significa piuttosto considerare la totalità, intesa come
popolo. Il Papa ci invita esplicitamente a riflettere sulla Chiesa come popolo
fedele di Dio.
Qual
è la mentalità che dobbiamo cambiare? Dopo averci detto che essere discepoli di
Cristo comporta una disposizione continua a portare agli altri l’amore del
Signore in qualsiasi luogo e attraverso un dialogo personale (cfr EG 127-128),
il Papa ci fa notare che «se il Vangelo si è incarnato in una cultura, non si
comunica più solamente attraverso l’annuncio da persona a persona» (EG 129).
Il
nostro annuncio del Vangelo deve coinvolgere l’aspetto culturale. Per esempio,
nella famiglia, occorre cercare il modo di far diventare la fede «tradizione
familiare», così come in famiglia si vivono i momenti belli, le feste, le gite,
la conversazione quotidiana. Nel lavoro, ciascuno deve preoccuparsi di mettere
i valori del Vangelo a confronto con quelli che vivono i propri colleghi. Ciò
consentirà alla predicazione di non essere «scollegata», o qualcosa di
«meramente spirituale», bensì un Vangelo incarnato, che raccoglie le sfide del
mondo e risponde alle sue preoccupazioni con proposte efficaci.
Dire
«assistiti» non è lo stesso che dire «ospiti e commensali». Questi ultimi
termini hanno un significato evangelico, e il considerare una persona come
«ospite» fa sì che cambi il nostro atteggiamento verso di essa: ci inserisce in
un dinamismo di accoglienza, ci fa sentire come è bello fare onore a un ospite…
D’altra
parte, ci sono parole che vengono dal mondo sociale e sono preferibili ad
altre. «Utente» appare più impersonale di «beneficiario»; tuttavia appare
preferibile considerare che l’altro sia un utente a pieno titolo dei nostri
servizi – così come noi siamo utenti dell’acqua corrente, della luce e del gas
–, e non un beneficiario, quasi fossero servizi che gli vengono offerti per
carità. Non ci si sente «beneficiari» dei servizi essenziali, e si ha tutto il
diritto di indignarsi quando viene staccata la corrente elettrica.
L’inculturazione
del Vangelo ci porta a riflettere su chi sia colui che evangelizza – è tutto il
popolo di Dio che annuncia il Vangelo – e a contrapporre una nuova mentalità
alla nostra mentalità individualista.
Mentalità
che si focalizza sull’inclusione
La
nuova mentalità che il Papa ci invita ad acquisire ha un carattere
eminentemente sociale. L’analisi della vita politica ed economica attuale
mostra che, nonostante le sue importanti conquiste, essa genera «una diffusa
esclusione» e iniquità. E ciò produce violenza, con conseguenze tragiche per
ogni tipo di persona. Perciò il rimedio sta dalla parte dell’inclusione. La
nuova mentalità richiede, in primo luogo, «un approccio inclusivo».
L’inclusione
non è un fatto ovvio. Nella riflessione filosofica attuale c’è chi afferma come
necessaria «la rinuncia a cogliere, con il pensiero, la totalità del reale»
(Theodor Adorno). Se ciò avviene a livello filosofico, non c’è da meravigliarsi
se l’economia pensi a un Paese di venti milioni di persone – anziché i
cinquanta che siamo –, o se il 46% del denaro sia nelle mani dell’1% delle
persone. Esiste una mentalità «riduttiva», che è dannosa, perché falsa.
Come
motivo di riflessione, poniamo allora due questioni. Una teorica: il nostro
pensiero non può «cogliere» la totalità del reale, ma può «aprirsi» – e di
fatto esiste questa apertura – ad essa. Un’altra questione è pratica: non è
possibile «escludere» nessuno. Gli esclusi «si includono» con le buone
maniere o, prima o poi, essi «ci
escludono» con le cattive maniere. Questo è un altro modo per dire che
«l’esclusione produce violenza».
Gli
esclusi «si includono». Innanzitutto, dobbiamo credere nella possibilità di
cogliere questo aspetto. Dobbiamo supporre che, se certe scienze non posseggono
la lente adatta per cogliere qualcosa di così complesso, questo non vuol dire
che non possano trovarla o che non si possano tentare altri sguardi.
Nel
primo giorno di un campeggio parrocchiale, i giovani erano affascinati dal
paesaggio e fotografavano di tutto con i cellulari. La sera, quando spuntarono
le stelle, come accade soltanto in montagna dove non c’è smog, una delle
ragazze, intenta a fotografare il cielo, a un certo punto esclamò: «Questo non
entra in un cellulare!», e si mise a contemplarlo soltanto con i suoi occhi.
Questa osservazione è significativa, e la possiamo trasferire dal cielo
stellato all’umanità delle moltitudini: occorre guardarla con i nostri stessi
occhi, allargati da quelli di Gesù, il Buon Pastore, il quale «guarda le
persone con compassione». Soltanto questo sguardo può consentire «un approccio
inclusivo».
Stiamo
parlando di «guardare umanamente», non attraverso la mediazione scientifica o
tecnica, che «influenza e modifica» la realtà nell’osservarla con i propri
strumenti. Romano Guardini ci dice che l’occhio umano non è come una macchina
fotografica. «L’occhio umano “si sbaglia e si corregge”, si orienta, sceglie e
scarta; la macchina fotografica no. Ci sono cose che non vediamo o che falsiamo
per l’intensità del nostro desiderio o della nostra avversione. Questo non lo
può fare la macchina, che fotografa con oggettività quello che ha davanti a sé.
Le fotografie non si sbagliano, perché congelano la realtà in un istante (e, se
si tratta di un film, in vari quadri al secondo). Ma l’occhio umano capta
infinitamente di più, perché si modifica nel momento stesso in cui si modifica
l’essere che gli è davanti e che si esprime. Per questo ci emoziona di più
vedere qualcuno dal vivo piuttosto che vederlo in televisione; sebbene non ce ne
rendiamo conto, la quantità di informazione – soggettiva e oggettiva – che
scambiamo in un incontro reale è infinitamente maggiore rispetto a quella che
riusciamo a cogliere attraverso la tv» [5].
Mentalità
che si lascia interpellare
Il
pensiero incompleto viene autenticato dal suo lasciarsi interpellare
drammaticamente dall’altro. Questa visione trascendente è così importante che
il Papa, prima ancora di definirla, la pone come una sfida drammatica a cui lui
stesso si espone: «Sono consapevole che queste parole sono forti, persino
drammatiche». Nell’Evangelii gaudium dice: «Se qualcuno si sente offeso dalle
mie parole, gli dico che le esprimo con affetto e con la migliore delle
intenzioni, lontano da qualunque interesse personale o ideologia politica. La mia
parola non è quella di un nemico né di un oppositore. Mi interessa unicamente
fare in modo che quelli che sono schiavi di una mentalità individualista,
indifferente ed egoista, possano liberarsi da quelle indegne catene e
raggiungano uno stile di vita e di pensiero più umano, più nobile, più fecondo,
che dia dignità al loro passaggio su questa terra» (EG 208).
Il
carattere drammatico di questa sfida sta nell’essenza della «nuova mentalità».
Ci sono «approcci» che noi facciamo soltanto quando qualcuno «ci chiede aiuto»,
quando sentiamo il grido dell’altro: ciò fa sì che volgiamo lo sguardo e
scopriamo quello che era nascosto, quello che non si vedeva. Questo sguardo si
oppone alla globalizzazione dell’indifferenza. Questo sguardo richiede
attenzione e indica responsabilità. Un’attenzione che deve tradursi in
decisioni politiche ed economiche piuttosto che fermarsi alla semplice
retorica. E in una precisa responsabilità, perché è proprio del bene il
concretizzarsi.
Occorre
fare attenzione al grido dei poveri, ascoltarne bene i richiami; saperli
leggere «fuori dall’ideologia» è parte della fisionomia di questa nuova
mentalità: «Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati a essere strumenti di
Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano
integrarsi pienamente nella società; questo suppone che siamo docili e attenti
ad ascoltare il grido del povero e a soccorrerlo. […] Rimanere sordi a quel
grido, quando noi siamo gli strumenti di Dio per ascoltare il povero, ci pone
fuori dalla volontà del Padre e dal suo progetto» (EG 187).
L’esigenza
di ascoltare questo grido deriva dalla stessa opera liberatrice della grazia in
ciascuno di noi.
Una
mentalità che ci sfida
Il
pensiero incompleto si elabora uscendo nelle periferie, toccando i confini,
collocandosi al limite del proprio sapere e potere. La trascendenza di cui
parla papa Francesco non è soltanto quella verso Dio, come siamo abituati a
pensare, e nemmeno quella verso i valori etici: comprende entrambe le realtà,
ma la sua sfida è quella di uscire verso le periferie esistenziali, là dove non
si può tollerare che migliaia di persone muoiano ogni giorno di fame, pur
essendo disponibili ingenti quantità di cibo, che spesso vengono semplicemente
sprecate.
Chi
esce dal proprio ambiente e dal proprio io, cambia mentalità. La realtà si vede
meglio dalle periferie che dal centro. Afferma ancora Francesco: «Io sono
convinto di una cosa: i grandi cambiamenti della storia si sono realizzati
quando la realtà è stata vista non dal centro, ma dalla periferia. È una
questione ermeneutica: si comprende la realtà solamente se la si guarda dalla
periferia, e non se il nostro sguardo è posto in un centro equidistante da
tutto. Per capire davvero la realtà, dobbiamo spostarci dalla posizione
centrale di calma e tranquillità e dirigerci verso la zona periferica. […] Per
capire, ci dobbiamo “scollocare”, vedere la realtà da più punti di vista
differenti» [6].
Affermare
sempre il limite del nostro pensiero, paradossalmente lo sblocca e lo rende più
acuto e creativo. «Entrare in discernimento significa resistere alla tentazione
di trovare un falso sollievo in una decisione immediata e, invece, essere
disposti a presentare con umiltà diverse opzioni al Signore, aspettando quel
traboccamento». Questo «falso sollievo» che si trova in una decisione immediata
è proprio del pensiero trionfalistico. Quando apre la strada all’amore – che è
sempre amore per l’altro e uscita da sé –, il pensiero diventa capace di
superare le insidie ideologiche nelle quali si vede costantemente intrappolato.
Le nuove formule con cui Francesco ci sorprende ogni giorno nascono dal suo
amore per Dio e per il prossimo. I semplici di cuore lo capiscono benissimo.
Civiltà
Cattolica
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